Sta sbocciando una nuova primavera?
2016/1, p. 26
La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25
gennaio), quest’anno, si terrà sotto auspici più consolanti
del solito: con il barometro ecumenico che, finalmente,
pare volgersi al bello.
Settimana di preghiera per l’unità
STA SBOCCIANDO
UNA NUOVA PRIMAVERA?
La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio), quest’anno, si terrà sotto auspici più consolanti del solito: con il barometro ecumenico che, finalmente, pare volgersi al bello.
E venne un papa di nome Francesco. Con la sua elezione, il popolo del dialogo, non solo cattolico – reduce da stagioni segnate più da delusioni che da attese compiute – ha risollevato il capo, tornando a coltivare speranze. Grazie a segnali emersi, dalla cordialità inattesa del saluto al mondo al suo strategico autodefinirsi vescovo di Roma, prima di papa: perché si è papi in quanto vescovi della Chiesa che presiede nella carità tutte le chiese (Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani I,1); e non viceversa. Un’opzione carica di significati soprattutto nella grammatica dell’ecumenismo, se le modalità con cui si percepisce il primato petrino sono ad oggi fra gli ostacoli più ingombranti in vista dell’unità: l’aveva già ammesso Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint (1995).
Sembra aprirsi
una nuova stagione
Impossibile non partire da qui, a costo di ripetersi, per segnalare che la tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (in sigla SPUC, 18-25 gennaio), quest’anno, si terrà sotto auspici più consolanti del solito: con il barometro ecumenico che, finalmente, pare volgersi al bello. Nel contesto non sappiamo ancora se di una primavera soleggiata, ma almeno non del classico autunno/inverno degli ultimi anni (sino a far dire a più di un commentatore che stavamo precipitando in un’epoca post-ecumenica).
Due anni fa, alla fine della SPUC, il pastore valdese Paolo Ricca, pur apprezzando il fatto che «questo pontefice ha un piglio nuovo, diverso, un po’ più libero dalla tradizione alla quale ci hanno abituato i suoi predecessori», aveva ammesso, in un’intervista a Famiglia cristiana, che «il senso dell’appartenenza comune prevale rispetto alle differenze che pure ci sono. Nonostante le diverse iniziative di dialogo, però, il condominio cristiano è ancora strutturato in appartamenti separati dove ogni confessione vive per conto suo». Analisi ancora ineccepibile, ma che forse oggi, alla luce della visita di Bergoglio alla chiesa valdese a Torino lo scorso 22 giugno («L’unità non è uniformità», ha detto, ammettendo che si tratta di una comunione ancora in cammino, ma l'unità si fa in cammino) e a quella luterana di Roma di qualche tempo fa e delle rispettive ricezioni, potrebbe essere rivista. E rilanciata in positivo.
Lo stesso Oscar Cullmann, grande ecumenista evangelico osservatore al Vaticano II, in un volume prezioso intitolato L’unità attraverso la diversità, sosteneva che l’impazienza ecumenica – «le cose non progrediscono abbastanza celermente» – potrebbe rivelarsi persino nociva alla causa dell’unità, rischiando di sottovalutare i progressi vissuti, «sorprendenti e irreversibili dopo una separazione di molti secoli»: «certo, non sono questi i progressi spettacolari che ci si attende nella falsa prospettiva di una fusione, ma sono più durevoli e ci avvicinano a una vera unità nella diversità». Per questo, si potrebbe dire che tutto (o almeno molto!) dipende dal punto di riferimento che assumiamo per valutare la situazione odierna.
Il tema
tratto da 1 Pt 2, 9-10
Il materiale per la Settimana di preghiera di quest’anno è stato preparato da un Gruppo ecumenico di rappresentanti delle varie parti della Lettonia, radunatisi su invito dell’Arcivescovo di Riga, Zbigņevs Stankevičs. La Lettonia, tradizionalmente, è luogo di confluenza fra cattolici, protestanti e ortodossi. Sebbene le chiese del piccolo stato baltico non si siano riunite in un Consiglio nazionale delle chiese, la vita ecumenica vi sta fiorendo, portando buoni frutti. La cooperazione ecumenica e le relazioni tra le varie tradizioni sono basate, si potrebbe dire, sulla proclamazione delle opere meravigliose di Dio. È prassi regolare in Lettonia che i vescovi delle chiese di tradizione cattolica, ortodossa, luterana e battista, indirizzino un messaggio congiunto alla società su questioni riguardanti temi etici o sociali. A motivo della relazione fraterna fra i responsabili della chiesa cattolica e della chiesa luterana, la consacrazione dell’attuale arcivescovo cattolico, ad esempio, ha avuto luogo nella cattedrale luterana di Riga.
La loro scelta del testo biblico su cui meditare durante la SPUC è caduta, significativamente, su: “Ma voi siete la gente che Dio si è scelta, un popolo regale di sacerdoti, una nazione santa, un popolo che Dio ha acquistato per sé, per annunziare a tutti le sue opere meravigliose. Egli vi ha chiamati fuori delle tenebre, per condurvi nella sua luce meravigliosa. Un tempo voi non eravate il suo popolo, ora invece siete il popolo di Dio. Un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto la sua misericordia”. Il messaggio chiave che emerge da questi versetti, soprattutto se letti in chiave ecumenica, riguarda il tema del sacerdozio comune e del relativo superamento della visione sacrale che ha accompagnato per secoli nelle chiese, sia pure in maniera variegata, la comprensione del ministero ordinato e la visione dei sacramenti.
La centralità
del sacerdozio comune
In effetti, il testo cardine di tale prospettiva, riscoperta nel postconcilio finalmente nella sua centralità anche dai cattolici, con la costituzione Lumen gentium, dopo che Lutero ne aveva fatto la chiave di volta della sua ecclesiologia, è appunto 1 Pt 2, 9-10, in cui il popolo di Dio viene indicato come un popolo sacerdotale, che esercita un sacerdozio santo e regale. È il popolo in quanto tale, qui, che esercita il sacerdozio: tanto che, per il cristiano, non esiste più un ordo, una casta sacerdotale, un gruppo di sacerdoti chiamati a mediare fra Dio e il popolo dei fedeli. Tutti i cristiani formano un popolo sacerdotale esercitando una loro propria mediazione tra Dio e il mondo, nell'annuncio e nel dono di se stessi al di dentro della vita quotidiana. Si tratta di un sacerdozio che non è legato ai riti e alle celebrazioni, ma all’esistenza di tutti i giorni e ai suoi eventi (cfr. Lumen gentium 10).
Come sostiene la Lettera ai Romani di Paolo (12,1), i credenti sono dunque chiamati a offrire il proprio corpo come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio. Il contenuto del loro culto a Dio e del loro sacerdozio è rappresentato da tutto quello che essi sono e fanno, dalle attività lavorative e dalle relazioni, dalle opzioni economiche e dal fare politica; in breve, da ogni loro scelta di vita. Il Vaticano II, in ambito cattolico, ha riscoperto il fatto, cruciale, che non esiste una separazione contrappositiva tra sacro e profano, né tempi o spazi sacri contrapposti a tempi o spazi profani, o persone sacre contrapposte a persone profane, perché tutto per i cristiani è a un tempo sacro e profano, e tutto è santo, sta sotto la santità di Dio.
Tale dimensione, evidenziata da Lumen gentium 10-11 e sottesa a tutta la Sacrosanctum Concilium, è stata colta solo parzialmente, mentre è facile oggi constatare la rinascita di processi di sacralizzazione e sacerdotalizzazione, in particolare in rapporto alla figura dei ministri, che sembravano superati con il dettato conciliare. Si ritorna così a pensare il cristianesimo in termini di religione, di a priori religioso, di servizio al sacro, e così pure si riprende la visione, pur assente nel Nuovo Testamento, dei ministri ordinati come sacerdoti. Mentre il termine sacerdote nel Nuovo Testamento è utilizzato solo per Cristo (nella Lettera agli Ebrei) e, al plurale, per i cristiani (nell’Apocalisse) oppure per il popolo sacerdotale (appunto in 1 Pt). L'attuale clamorosa ripresa della logica del sacro, il cosiddetto ritorno del religioso e la sua rivincita (G. Kepel), con tutte le loro ambiguità, rischiano così di oscurare la positiva secolarizzazione maturata con la frequentazione della Scrittura.
Il recente documento
di Fede e costituzione
Vale la pena, a questo punto, riprendere in mano un recente documento di Fede e costituzione, la commissione teologica della CEC (Consiglio Ecumenico delle Chiese), presentato il 7 marzo 2013 dopo essere stato approvato nel giugno precedente a Penang (Malaysia), intitolato La Chiesa: una visione comune. Un testo di notevole portata, che giunge trent’anni dopo il Documento di Lima su Battesimo, eucaristia, ministero (1982) e ne adotta lo stesso metodo, quello della convergenza, applicandolo stavolta all’ecclesiologia. E che rappresenta il punto d’arrivo di un processo di confronto ecumenico che ha avuto avvio nel 1989 e ha via via prodotto materiali su La natura e lo scopo della Chiesa (1998) e La natura e la missione della Chiesa (2005); ma allo stesso tempo innesca un ulteriore processo di confronto, grazie al quale le diverse chiese sono chiamate a misurare il loro livello di convergenza sul tema.
La struttura del documento è legata ai temi ecclesiologici che affronta. Suddiviso in quattro capitoli, il secondo espone i tratti salienti di una comprensione della Chiesa in quanto comunione, con una sintesi dei risultati di molte riflessioni comuni sia sul modo in cui la Scrittura e la tradizione successiva collegano la Chiesa a Dio, sia su alcune conseguenze di questa relazione per la vita e la struttura della Chiesa. Non è un caso che tornino, qui, non solo una citazione di 1 Pt 2, 9-10, ma anche i suoi aspetti salienti. Al n. 18 si legge: «La Chiesa è “la gente che Dio si è scelta, un popolo regale di sacerdoti, una nazione santa, un popolo che Dio ha acquistato per sé” (1Pt 2,9-10). Mentre riconoscono l’unico sacerdozio di Gesù Cristo, il cui sacrificio unico istituisce la nuova alleanza (cf. Eb 9,15), i credenti sono chiamati a esprimere nella loro vita il fatto di essere stati chiamati un “popolo regale di sacerdoti”, offrendo se stessi “in sacrificio vivente, a lui dedicato, a lui gradito” (Rm 12,1)».
Il n. 19 recita poi, chiarendo ulteriormente il discorso: «Tutto il popolo di Dio è chiamato a essere: un popolo profetico, che rende testimonianza alla parola di Dio; un popolo sacerdotale, che offre il sacrificio di un’esistenza vissuta nella sequela; un popolo regale, strumento per l’instaurazione del regno di Dio. Tutti i membri della Chiesa partecipano a questa vocazione. Chiamando e inviando i Dodici, Gesù ha posto le basi per la guida della comunità dei discepoli nel loro continuo annuncio del Regno. Fedeli al suo esempio, fin dalle origini alcuni credenti sono scelti, sotto la guida dello Spirito Santo, e dotati di autorità e responsabilità specifiche. I ministri ordinati «radunano e edificano il corpo di Cristo mediante la proclamazione e l’insegnamento della parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti e la guida della vita della comunità nella sua liturgia, nella sua missione e nella sua diaconia” (Fede e costituzione, BEM, n.13). Tutte le membra del corpo, consacrati e laici, sono membra del popolo sacerdotale di Dio».
Il documento, poste tali basi, si conclude sostenendo che una delle benedizioni del movimento ecumenico è stata la scoperta dei tanti aspetti del discepolato che le chiese condividono, pur non vivendo ancora in piena comunione: «La nostra lacerazione e divisione contraddice la volontà di Cristo per l’unità dei suoi discepoli e ostacola la missione della Chiesa. Perciò il ristabilimento dell’unità fra i cristiani sotto la guida dello Spirito santo è un compito assolutamente urgente. La crescita nella comunione si realizza in quella più ampia amicizia fra i credenti che si estende verso il passato e verso il futuro per comprendere l’intera comunione dei santi».
Un auspicio che possiamo fare nostro, in vista della prossima SPUC, nella speranza che sia sfruttata appieno anche a livello di chiese locali. Provando a camminare insieme: senza illusioni, ma con la fiducia derivante dalla consapevolezza che si tratta di un itinerario difficile eppure sempre più necessario. In questa direzione si pone papa Francesco quando, nell’esortazione postsinodale Evangelii gaudium (2013), scrive: «Se realmente crediamo nella libera e generosa azione dello Spirito, quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri! Non si tratta solamente di ricevere informazioni sugli altri per conoscerli meglio, ma di raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi» (n.246).
Brunetto Salvarani