Chiaro Mario
Una nuova alleanza per il clima
2016/1, p. 10
Dopo 13 giorni molto intensi, COP 21 ha varato un accordo definito «differenziato, duraturo, equilibrato e giuridicamente vincolante». Significativi segnali di assenso sono venuti dai negoziatori di Cina, India e Brasile, e da due grandi esportatori di greggio: Arabia Saudita e Venezuela.

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XXI Conferenza a Parigi sui cambiamenti climatici
UNA NUOVA ALLEANZA
PER IL CLIMA
Dopo 13 giorni molto intensi, COP 21 ha varato un accordo definito «differenziato, duraturo, equilibrato e giuridicamente vincolante». Significativi segnali di assenso sono venuti dai negoziatori di Cina, India e Brasile, e da due grandi esportatori di greggio: Arabia Saudita e Venezuela.
Si è di recente tenuta a Parigi (30 novembre ‒ 11 dicembre) la XXI Conferenza delle Parti (COP 21), nell’ambito della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC), con l'obiettivo di concludere un accordo vincolante e universale sul clima. La Convenzione dell’ONU riconosce infatti l’esistenza di un cambiamento climatico causato dall’attività umana e attribuisce ai paesi industrializzati la responsabilità principale nella lotta contro questo fenomeno. La Convenzione nasce dal Summit della Terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992 ed è stata ratificata da 195 nazioni (con l’aggiunta dell’Unione europea), con l’obiettivo di stabilizzare progressivamente i livelli di emissioni di gas serra. La conferenza COP 21 si inserisce nel processo innescato dall’incontro del 1997 che ha prodotto il cosiddetto Protocollo di Kyoto, che aveva stabilito di ridurre l’emissione di sei gas a effetto serra di almeno il 15% rispetto ai livelli del 1990. Nel frattempo però solo alcuni firmatari (tra cui la UE) hanno rispettato gli impegni presi, mentre soprattutto grandi nazioni si sono defilate: così gli Stati Uniti non hanno mai ratificato il trattato, il Canada e la Russia si sono ritirati, la Cina (in testa ai paesi inquinatori) non aveva obblighi perché considerato un paese in via di sviluppo, i grandi produttori di petrolio non sembrano interessati a collaborare!
Le cause
del riscaldamento globale
È riconosciuto che alcuni gas presenti nell’atmosfera terrestre agiscono come il vetro di una serra: catturano il calore del sole impedendogli di ritornare nello spazio. Molti di questi gas sono presenti in natura, ma l'attività dell'uomo aumenta le concentrazioni di alcuni di essi nell’atmosfera, in particolare: l’anidride carbonica (CO2), il metano, l’ossido di azoto, i gas fluorurati. In particolare la CO2 è responsabile del 63% del riscaldamento globale causato dall'uomo: la sua concentrazione nell’atmosfera supera attualmente del 40% il livello registrato agli inizi dell'era industriale. Gli altri gas serra vengono emessi in quantità minori, ma catturano il calore molto di più della CO2: così il metano è responsabile del 19% del riscaldamento globale, l’ossido di azoto del 6%.
Occorre richiamare allora alcune principali cause dell’aumento delle emissioni: la combustione di carbone, petrolio e gas; la deforestazione (con abbattimento degli alberi cessa l’effetto di assorbimento dell’anidride carbonica); lo sviluppo dell’allevamento di bestiame (con produzione di grandi quantità di metano durante il processo di digestione); l’uso di fertilizzanti azotati (creazione di emissioni di ossido di azoto). Tutto questo comporta che l’attuale temperatura media mondiale sia più alta di 0,85ºC rispetto ai livelli della fine del 19° secolo. Ciascuno degli ultimi tre decenni è stato più caldo dei precedenti decenni, da quando sono iniziate le prime rilevazioni nel 1850. I più grandi esperti di clima a livello mondiale ritengono che le attività dell'uomo siano quasi certamente la causa principale dell’aumento delle temperature osservato dalla metà del 20° secolo. Un aumento di 2 gradi centigradi rispetto alla temperatura dell’era preindustriale viene considerato dagli scienziati come la soglia oltre la quale vi è un rischio di gran lunga maggiore che si verifichino mutamenti ambientali pericolosi e potenzialmente catastrofici a livello mondiale. Per questo motivo, si riconosce la necessità di mantenere il limite di riscaldamento sotto i 2ºC.
In vista di tutto ciò, vanno sempre però ricordati i principali punti di frizione tra le nazioni concernenti la responsabilità storica del riscaldamento globale e la ripartizione degli obblighi. I paesi emergenti sostengono che la responsabilità sia soprattutto dei paesi industrializzati e si rifiutano di subire le stesse limitazioni. Da parte loro i paesi ricchi sostengono che la divisione tra paesi industrializzati ed emergenti non è più valida: in questo momento infatti la Cina è al primo posto tra i paesi inquinatori, seguita dagli Stati Uniti, dall’India e dalla Russia.
La posta in gioco dei negoziati rimane sempre più quella di limitare le emissioni di gas a effetto serra senza limitare il diritto allo sviluppo dei paesi emergenti. Ricordiamo inoltre che in concomitanza di CPO 21 Oxfam (una delle più importanti confederazioni internazionali nel mondo specializzata in aiuto umanitario e progetti di sviluppo) ha lanciato l’allarme sugli enormi costi per i paesi in via di sviluppo, con un aumento medio delle temperature previsto di 3 gradi centigradi. Per l’esattezza se non verranno mantenuti gli impegni sul taglio delle emissioni in atmosfera, sarà di 790 miliardi di dollari il costo che i paesi in via di sviluppo dovranno sostenere per adattarsi agli effetti di un clima sempre più fuori controllo da qui al 2050. Una cifra alla quale si aggiungono le perdite che le economie di queste nazioni accumuleranno ogni anno, stimate in ben 1.700 miliardi di dollari.
L’accordo
di Parigi
In questo panorama complesso e conflittuale, dopo 13 giorni molto intensi, COP 21 è riuscito comunque a varare un accordo di 31 pagine che il ministro francese degli esteri Laurent Fabius ha definito «differenziato, duraturo, equilibrato e giuridicamente vincolante». Significativi segnali di assenso sono venuti dai negoziatori di Cina, India e Brasile, come pure da due grandi esportatori di greggio come Arabia Saudita e Venezuela.
Riassumiamo i punti principali dell’intesa sottoscritta dai 195 paesi che hanno preso parte alla conferenza. L’articolo 2 dell’accordo fissa l’obiettivo di restare «ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali», con l’impegno a portare avanti sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi. L’articolo 3 prevede che i paesi «puntino a raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più presto possibile», e proseguano rapide riduzioni dopo quel momento per arrivare a «un equilibrio tra le emissioni da attività umane e le rimozioni di gas serra nella seconda metà di questo secolo». In base all’articolo 4 poi, tutti i paesi dovranno preparare, comunicare e mantenere degli impegni definiti a livello nazionale, con revisioni regolari che rappresentino un progresso rispetto agli impegni precedenti e “riflettano ambizioni più elevate possibile. Le nazioni che hanno presentato impegni fino al 2025 dovranno comunicare entro il 2020 un nuovo impegno, e a farlo poi regolarmente ogni 5 anni”; i paesi che già hanno un impegno fino al 2030 dovranno comunicarlo o aggiornarlo entro il 2020. La prima verifica dell’applicazione degli impegni è fissata al 2023, i cicli successivi saranno quinquennali.
L’articolo 8 è dedicato in particolare ai fondi destinati ai paesi vulnerabili per affrontare i cambiamenti irreversibili a cui non è possibile adattarsi. Il testo riconosce l’importanza di interventi per incrementare la comprensione, l’azione e il supporto, ma non può essere usato come «base per alcuna responsabilità giuridica o compensazione». L’articolo 9 chiede ai paesi sviluppati di fornire risorse finanziarie per assistere quelli in via di sviluppo, in continuazione dei loro obblighi attuali. Si sollecita fortemente a stabilire un percorso concreto per raggiungere l’obiettivo di fornire insieme 100 miliardi di dollari ogni anno da qui al 2020, con l’impegno ad aumentare in modo significativo i fondi per l’adattamento. L’articolo 13 infine stabilisce che, per creare una fiducia reciproca è stabilito un sistema di trasparenza ampliato, con elementi di flessibilità che tengano conto delle diverse capacità.
In un mondo sconvolto da conflitti, e dove c’è uno scarso progresso verso la governance globale, la firma su un tale accordo unanime è un fatto positivo. Ponendo come limite i 2 gradi centigradi e indicando la soglia desiderabile di 1,5 gradi, si riconosce che l’unico percorso possibile per salvaguardare la sicurezza del pianeta è la riduzione totale delle emissioni di gas serra: significa che dobbiamo andare verso un mondo in cui i combustibili fossili non possono essere più parte del nostro pacchetto energetico.
Secondo un recente rapporto della Banca Mondiale, le conseguenze dei cambiamenti climatici potrebbero portare alla povertà estrema oltre 100 milioni di persone nel mondo entro il 2030 se non verranno subito approntate a livello politico internazionale delle misure efficaci in diversi settori strategici (come ad esempio l’agricoltura). Il documento evidenzia che sconfiggere la povertà (il primo degli Obiettivi di sviluppo sostenibile adottati dall’Onu) sarebbe impossibile senza affrontare i cambiamenti climatici: il modo migliore di procedere è quello di progettare e realizzare soluzioni che pongano fine alla povertà estrema e stabilizzino il clima, secondo una strategia integrata.
Il contributo
dei credenti
Durante la conferenza COP 21, le religioni hanno unito le forze con quelle dei movimenti di cittadini chiedendo di raggiungere un accordo che tenga l’innalzamento medio della temperatura atmosferica sotto i 2°C. Per la Chiesa cattolica si è espresso, tra gli altri, anche il cardinale brasiliano Claudio Hummes: «Il surriscaldamento globale è presente sin dall’inizio dell’età industriale, e sta distruggendo il pianeta. Questo non è solo un problema ambientale ma anche sociale. E questo è il motivo per cui la Chiesa cattolica è chiamata alla sfida di sostenere un pianeta vivo: come ci ricorda la Laudato si’, tutto è connesso». Il card. Hummes a Parigi era presente in qualità di presidente della Rete delle Chiese Pan-Amazzoniche (REPAM), un’organizzazione che riunisce le diocesi cattoliche del bacino del Rio delle Amazzoni (in otto paesi diversi: Brasile, Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana e Suriname). Il presule è convinto che all’origine del deterioramento ambientale vi sia la profonda connessione fra la nostra dipendenza dal carburante fossile, il cambiamento climatico e il pervadente consumismo della nostra società, che porta a ulteriore impoverimento e degrado. Occorre dunque cambiare il nostro sistema economico-finanziario e il ruolo dei cristiani in questa trasformazione sociale significa non distruggere il creato di Dio, ma curarlo, perché è la nostra casa comune.
Su questo impegno ecologico per la casa comune vale la pena richiamare in conclusione quanto ha lucidamente scritto papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: «Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti. Esso, a livello globale, è un sistema complesso in relazione con molte condizioni essenziali per la vita umana. Esiste un consenso scientifico molto consistente che indica che siamo in presenza di un preoccupante riscaldamento del sistema climatico. Negli ultimi decenni, tale riscaldamento è stato accompagnato dal costante innalzamento del livello del mare, e inoltre è difficile non metterlo in relazione con l’aumento degli eventi meteorologici estremi, a prescindere dal fatto che non si possa attribuire una causa scientificamente determinabile a ogni fenomeno particolare. L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano (n. 24)… I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità. Gli impatti più pesanti probabilmente ricadranno nei prossimi decenni sui paesi in via di sviluppo. Molti poveri vivono in luoghi particolarmente colpiti da fenomeni connessi al riscaldamento, e i loro mezzi di sostentamento dipendono fortemente dalle riserve naturali e dai cosiddetti servizi dell’ecosistema, come l’agricoltura, la pesca e le risorse forestali. Non hanno altre disponibilità economiche e altre risorse che permettano loro di adattarsi agli impatti climatici o di far fronte a situazioni catastrofiche, e hanno poco accesso a servizi sociali e di tutela. Per esempio, i cambiamenti climatici danno origine a migrazioni di animali e vegetali che non sempre possono adattarsi, e questo a sua volta intacca le risorse produttive dei più poveri, i quali pure si vedono obbligati a migrare con grande incertezza sul futuro della loro vita e dei loro figli. È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa. Purtroppo c’è una generale indifferenza di fronte a queste tragedie, che accadono tuttora in diverse parti del mondo. La mancanza di reazioni di fronte a questi drammi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile (n. 25)».
Mario Chiaro