Arrighini Angelo
Sinodo, famiglia e giubileo
2016/1, p. 1
Il sinodo sulla famiglia ha trovato ampia eco nell’assemblea. Raccogliendo un’indicazione di papa Francesco e valendosi anche della loro esperienza, i superiori generali hanno auspicato una maggiore sinodalità in una Chiesa sempre più universale che guardi le cose non dal centro ma dalla periferia.

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86ª Assemblea dell’Unione Superiori Generali
ECHI E RISONANZE
DEL SINODO
Il sinodo sulla famiglia ha trovato ampia eco nell’assemblea. Raccogliendo un’indicazione di papa Francesco e valendosi anche della loro esperienza, i superiori generali hanno auspicato una maggiore sinodalità in una Chiesa sempre più universale che guardi le cose non dal centro ma dalla periferia.
Nell’ultima assemblea semestrale (25-27 nov.), sul tema Abbracciare il futuro con speranza. I consacrati con il popolo di Dio in cammino, i superiori generali hanno inteso prolungare la loro riflessione sul sinodo dei vescovi di ottobre dedicato a La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo.
Lo hanno fatto confrontandosi con quattro dei loro dieci delegati ai lavori sinodali: p. Richard Baaobr (Missionari d’Africa), fra Bruno Cadorè (Domenicani), fr. Hervé Janson (Piccoli fratelli di Gesù) e p. Jeremias Schroeder (Benedettini di Sant’Ottilia). In assemblea hanno parlato della loro “esperienza personale”, cercando, poi, di mettere in evidenza quello che a loro avviso poteva essere stato il “punto nodale” del sinodo stesso.
“Essendo questo il mio primo sinodo, ha esordito p. Richard, non sapevo cosa aspettarmi”. È’ rimasto colpito dalle diverse sensibilità e dai tanti problemi sollevati. Se queste diversità sono una ricchezza, possono però diventare fonte di seria preoccupazione. Il fatto comunque che pur tra tante diversità sia stato approvato alla fine un testo con l’esito ormai noto a tutti, “è un segno che lo Spirito di Gesù ha agito e ha accompagnato l’assemblea”.
Per Cadoré è stata un’esperienza stimolante, rappresentativa della diversità ecclesiale, culturale e pastorale da cui provenivano i sinodali. Ha toccato con mano la dimensione universale della Chiesa cattolica. Non è mancata una certa “impazienza” in rapporto al metodo di lavoro che, a suo dire, avrebbe tanto da imparare, ad esempio, dall’esperienza capitolare degli istituti di vita consacrata. Auspicando un dialogo sempre più aperto all’interno della Chiesa, ci si dovrebbe concentrare sulla lettura dei segni dei tempi, anche in una loro piena intelligibilità teologica.
Fr.Hervé ha confessato candidamente la sua difficoltà nel «ritrovarsi in un mondo fin troppo clericale e di cui lui stesso non ha mai avuto una diretta esperienza». I piccoli fratelli di Gesù, come da sempre va ripetendo anche papa Francesco, vivono alle “periferie” del mondo condividendo la condizione sociale di quanti sono “senza nome e senza rilevanza sociale”. Ha apprezzato molto il limite dei tre minuti imposto ai relatori, obbligandoli in questo modo ad andare subito alle cose essenziali. Anche se ha vissuto momenti di “desolazione” in mezzo ai tanti cardinali e vescovi del suo gruppo, non sono mancate stupende esperienze ecclesiali che fanno toccare con mano la sfida della cattolicità della Chiesa nei diversi contesti culturali. Dal momento che il tema del sinodo era incentrato sulla famiglia, la presenza solo di 32 coppie di sposi appartenenti a culture diverse, non era proprio il massimo. È stato, comunque, un “primo passo”. L’eterno problema, semmai, è quello «del nostro posto in quanto religiosi come membri di pieno diritto all’interno di un sinodo di vescovi, val a dire con il diritto di voto», un diritto negato, invece, alle nostre “sorelle religiose”, anche se, di fatto, le “tre suore uditrici” presenti rappresentavano qualcosa come l’83% del complessivo mondo della vita religiosa.
“Fin dal primo giorno, ha detto dal canto suo p. Jeremias, si è percepito che erano in gioco questioni molto serie. Grazie all’intervento “forte e pregnante” di papa Francesco dopo la contestazione del card. Pell sulle procedure sinodali e dopo la messa in guardia di fronte alla “ermeneutica della cospirazione”, il cammino sinodale si è rivelato meno impervio del previsto. I momenti migliori sono stati quelli in cui “abbiamo preso le distanze dalle discussioni procedurali e abbiamo iniziato a parlare dei problemi reali”. L’importanza del documento finale sta nel fatto che ha aperto molte porte senza chiuderne nessuna, lasciando al papa la libertà di poter muoversi come ritiene più opportuno.
Punti
nodali
I “punti nodali” del sinodo? Per p. Richard, è stato quello dei divorziati risposati. Qui si è visto con chiarezza come le aspettative cambino facilmente da un contesto all’altro. Proprio per questa diversità è fondamentale la sinodalità da una parte e il discernimento dall’altra. La relazione finale è sicuramente un documento da far conoscere e su cui lavorare. Non sar�� facile far comprendere ai divorziati risposati che ci può essere una via di uscita dalla loro situazione. Ma fino a che punto sono preparate le nostre comunità cristiane a confrontarsi positivamente anche con queste situazioni?
Per Cadorè, il “punto nodale” è quello della ecclesialità. Attraverso una teologia della comunione, dalla vita dei credenti dovrebbe trasparire la “buona notizia” del mistero pasquale da assumere e vivere in stretto rapporto con le realtà del mondo. Non è possibile progredire nella comunione ecclesiale “esacerbando” le tensioni intraecclesiali. Tanti problemi si potrebbero più facilmente risolvere, guardando alle famiglie come luoghi di mediazione fino a farne le prime “evangelizzatrici”.
Secondo Hervé i “punti forti” sono stati chiaramente sintetizzati da papa Francesco: ripartire da Nazareth, assumere uno sguardo di misericordia su ogni singola persona, puntare su una chiesa pienamente sinodale, favorire il primato dello spirito sulla lettera, decentralizzare il più possibile sulle chiese locali, in uno spirito di comunione “cum Petro et sub Petro”.
Altri aspetti essenziali sono quelli enunciati nel documento finale del sinodo: dall’importanza dell’accompagnamento, del prendersi cura l’uno dell’altro, di uno sguardo sempre più misericordioso e non di condanna, alla necessaria conversione a incominciare da se stessi e al discernimento comunitario dei pastori insieme alle famiglie. Accennando poi ai “casi difficili”, ha auspicato, com’è detto per altro nel documento finale, che nessuna persona sia giudicata, che tutte le porte siano lasciate aperte affinché papa Francesco «possa andare oltre per esprimere parole che diano gioia e speranza a tutte le famiglie ferite e bisognose di essere ascoltate».
Per Jeremias, infine il vero punto nodale del sinodo è quello della sfida della globalizzazione. “Come può la Chiesa conservare la sua unità, come Chiesa universale, di fronte all’enorme diversità culturale?”. Purtroppo c’è una diffusa incapacità di comprensione dello sviluppo storico della Chiesa. La visione storica «permeata dal pensiero giuridico e da una certa metafisica scolastica che si occupa solo di verità eterne astratte», non è più quella di oggi. Papa Francesco in sinodo ha dato delle risposte forti in ordine ad esempio alla inculturazione. «Dobbiamo incarnare i valori della nostra fede, ha aggiunto Jeremias, con più profondità nelle nostre rispettive culture», senza diffidare assolutamente di quanti «stanno camminando nella stessa direzione».
Altre
“voci dal sinodo”
Le testimonianze dei delegati USG, sono state integrate da quelle di altre “tre voci dal sinodo”, e cioè un canonista (il claretiano Manuel Jésus Arroba Condé), una donna (Giuseppina De Simone, docente alla facoltà teologica di Napoli) e un parroco (mons. Saulo Scarabattoli). Padre Manuel (preside della facoltà di utriusque iuris del Laterano) ha precisato in partenza di offrire una lettura – in prospettiva canonistica – dei principali aspetti inerenti alle due assemblee sinodali riguardanti il tema della famiglia nella Chiesa e nella società. Il tutto, ha detto, lo si potrebbe articolare intorno a quattro questioni: l’istituzione sinodale in sé, l’istituzione familiare in generale, il diritto della Chiesa, e, infine, le questioni più strettamente vincolate al matrimonio e ai processi di nullità matrimoniale. Le norme canoniche, ha detto, «dovrebbero essere sempre al servizio dell’abbondanza di vita», andrebbero considerate come strumento per facilitare la vita cristiana e non per complicarla. Secondo il relatore, l’esperienza delle due assemblee sinodali (a cui ha partecipato come esperto) sono una valida dimostrazione di come la disciplina canonica debba e possa essere messa al servizio della vita, dell’evolversi della vita stessa della Chiesa e insieme dell’evolversi delle esigenze della missione rispetto in particolare al tema della famiglia. Sulla famiglia come istituzione di interesse pubblico sociale ed ecclesiale, in una prospettiva giuridica e canonica, «non possiamo dire onestamente che si sia compiuto, con la dovuta energia, il salto di qualità auspicato». Una maggior competenza giuridica, sorretta da analisi interdisciplinari adeguate alle realtà familiari, favorirebbe sicuramente l’emergere di strategie legislative molto più utili. Anche sul piano canonico ha avuto una notevole rilevanza il fatto di aver riconosciuto il ruolo della famiglia non solo come oggetto, ma anche come soggetto dell’evangelizzazione. A proposito dei processi di nullità recentemente riformati da papa Francesco, l’ultimo sinodo si è occupato poco, limitandosi per lo più a ringraziare il papa per aver valorizzato la dimensione pastorale dell’attività giudiziaria.
Introducendosi a parlare della presenza delle donne al sinodo, Giuseppina De Simone ha chiarito subito quello che, a suo avviso, era l’aspetto più importante, e cioè che al sinodo era in gioco non tanto la famiglia, quanto piuttosto la realtà e il modo di intendere oggi la Chiesa. Anche se numericamente poche e solo “uditrici”, le donne al sinodo sono state comunque una presenza significativa. Più che per il ruolo (di religiose, di mogli, di professioniste ecc.), avrebbero preferito essere ascoltate in quanto donne. Nel gruppo degli esperti (a cui era demandata la sintesi dei lavori sinodali), di fatto c’erano soltanto due donne. In base al regolamento le donne e i laici potevano prendere la parola solo quando loro concesso. Ora, in una Chiesa che si riscopre come popolo di Dio in cammino, un regolamento del genere andrebbe ripensato a fondo. Sul quanto, poi, si sia parlato delle donne al sinodo, si potrebbe rispondere anche “molto, ma non abbastanza”. Sulla vocazione della donna nella Chiesa rimane comunque ancora un lungo cammino da fare, non solo da parte della gerarchia, ma anche, e forse anche di più, da parte dei laici. È preoccupante il fatto che l’invito a lasciare le cose come stanno sia venuto in maniera più convinta proprio da parte di alcune coppie di laici. Anche se nella relazione finale solo in un punto (n. 27) si parla delle donne, di fatto però in tutto il testo si fa tesoro della ricchezza che viene dal mondo femminile. La relatrice ha concluso sognando, con papa Francesco, una Chiesa con il volto e la tenerezza di una madre.
La terza voce dal sinodo è stata quella di uno dei due parroci invitati da papa Francesco, don Saulo Scarabattoli, parroco e cappellano del carcere a Perugia. Ha sintetizzato il significato della sua partecipazione al sinodo con tre immagini: un treno, una barca, un arcobaleno. La Chiesa è come un treno – pieno di luce e con aria condizionata – che attraversa la storia e corre sicuro lungo i binari, senza rendersi conto che le case degli uomini, le famiglie in crisi, distrutte, ferite sono fuori… È bello lodare e ringraziare il Signore. Ma «abbiamo parole per curare le famiglie ferite e distrutte?».
La Chiesa è anche quella grande barca che solca i mari della storia. Sul ponte della nave ci sono le famiglie che vivono serenamente affrontando con coraggio le difficoltà quotidiane. Ma sotto coperta ci sono le persone e le famiglie stanche, ammalate, ferite, o addirittura spezzate. Ci sarà mai qualcuno che scenderà fino a loro per tentare di curarle e guarirle? Durante il sinodo si è celebrato il 50° della conclusione del Vaticano II e, insieme, l’inizio dell’esperienza sinodale. Dal “Gaudet mater Ecclesia” di Giovanni XXIII al giubileo della misericordia indetto da papa Francesco è possibile intravedere un grandioso arcobaleno dai colori più diversi. Tutti questi colori si raccolgono alla fine nel bianco di papa Francesco che dal punto più alto della nave scruta l’orizzonte, dando voce a tutti e indicando con sicurezza la rotta verso il Regno di Dio.
La sinodalità
nella Chiesa
Negli ultimi tre anni, ha detto nella sua relazione il segretario generale p. David Glenday, anche solo rimanendo nell’ambito ecclesiale, si sono verificati “eventi epocali”: dal sinodo sulla nuova evangelizzazione, alla “rinuncia” di papa Benedetto XVI, all’elezione di papa Francesco, ai due sinodi sulla famiglia, all’indizione anzitutto dell’anno sulla VC e poi del Giubileo della misericordia. L’atteggiamento dell’USG, in questo triennio, è stato soprattutto quello dell’ascolto di quanto lo Spirito andava dicendo alla VC come “luogo privilegiato” per la rilettura dei momenti critici nell’interazione Chiesa-mondo. La scelta dei temi delle assemblee semestrali sono sempre stati chiaramente ispirati dal desiderio di cogliere il significato provvidenziale degli eventi ecclesiali, privilegiando la dimensione pastorale su quella speculativa e non sottovalutando il fatto dei tanti istituti religiosi impegnati da sempre nelle “zone di frontiera”.
Il segretario generale, con il suo intervento, ha inteso soprattutto sollecitare il confronto fra i superiori generali invitandoli espressamente a interrogarsi non solo sul triennio passato, ma anche a guardare al futuro. Con molta “parresìa”, nei vari gruppi linguistici, sono stati evidenziati, insieme ai tanti aspetti positivi, anche quelli più deboli e lacunosi, senza sottrarsi all’indicazione di alcuni suggerimenti per il cammino futuro. L’ampia sintesi (dei lavori dei gruppi linguistici e dell’assemblea generale) fedelmente elaborata da don Francesco Cereda e da fr. Enzo Biemmi, può essere un sicuro punto di partenza per tutti. Lo è tanto più pensando al titolo di questa convocazione assembleare di novembre, e cioè, “abbracciare, insieme al popolo in cammino, il futuro con speranza”. Un orientamento del genere, senza volerlo, veniva a confermare la proposta – sottoscritta a piene mani in assemblea – dei dieci padri sinodali di suggerire come possibile tema del prossimo sinodo “la sinodalità nella Chiesa, popolo di Dio”. In questo tema, come scrivono Cereda e Biemmi nella loro sintesi conclusiva, «metodo e contenuto vengono a coincidere”. Dandosi uno stile e un metodo realmente sinodali, verrebbe valorizzato «l’apporto di tutte le componenti del popolo di Dio». Il sinodo potrebbe allora diventare «un allenamento per una Chiesa tutta sinodale». Anche se è bene che continui ad essere il “Sinodo dei Vescovi”, tuttavia attraverso un discernimento realmente partecipato, si imparerebbe non solo «a guardare le cose non dal centro ma dalla periferia», ma anche «a superare una certa autoreferenzialità nell’esercizio del magistero». Anche nell’ipotesi che il tema del sinodo sia altro, però non si dovrebbe abbandonare questo obiettivo. Per una ragione molto semplice: «è in gioco un volto di Chiesa allo stesso tempo discepola, missionaria, compagna di viaggio delle donne e degli uomini di oggi. È in gioco anche una forma di esercizio del ministero episcopale, secondo la figura di vescovo vissuta da S. Agostino: “Per voi io sono vescovo, con voi sono cristiano”».
Con questa 86ª assemblea si è concluso anche il mandato triennale del precedente consiglio direttivo (e degli altri organismi USG). Fin dai primi sondaggi era apparsa quasi scontata l’elezione del nuovo presidente USG, per il prossimo triennio, nella persona del ministro generale dei cappuccini, p. Mauro Jöhri. Di fronte ad una manifestazione di fiducia pressoché plebiscitaria, con la massima “disponibilità francescana”, non si è sottratto a questa nuova responsabilità, sicuramente meno gravosa, ha commentato lui stesso, di quella attualmente ricoperta nel suo ordine. Come vicepresidente lo affiancherà il superiore generale dei redentoristi, il p. Michael Brehl. All’interno del nuovo consiglio direttivo, saranno loro ad accompagnare i confratelli generali verso un sempre più urgente e concreto “futuro di speranza”.
Angelo Arrighini