Memoria e perdono
2015/9, p. 36
«Perdonare non
significa dimenticare; anzi, se avessi potuto dimenticare,
non sarebbe necessario perdonare. La vera virtù
consiste nel perdonare proprio ricordando, perché perdonare
significa essere liberati dall’ira interiore, dai risentimenti
e dalla ricerca di vendetta che consuma ogni
fibra del mio essere». Il perdonare fa parte di un atto
creativo e creatore che trasforma e trasfigura l’intero essere,
dando origine a una nuova umanità, più sana, libera
e pacifica.
VOCE DELLO SPIRITO
Memoria e perdono
La consapevolezza che il perdono sia una realtà complessa e delicata, non riducibile a una codificazione giuridico-sociale, appare già in un curioso dato statistico: nell'ebraico biblico, che è una lingua molto modesta fatta solo di 5.750 vocaboli, sono ben 8 i verbi messi a disposizione per coprire semanticamente un'esperienza dallo spettro tematico effettivamente variegato e carico di sfumature, iridescenze e sfaccettature. Il modello che viene proposto è di sua natura «estremo», è Dio stesso, ed è offerto in quella che André Gelin ha definito la divina «carta d'identità», presente nell'auto-rivelazione a Mosè citata in Esodo 34,6-7, un passo che segnerà con molteplici riprese la successiva letteratura biblica. È suggestivo notare che al tetragramma sacro del nome divino, YHWH, si accompagni una tetrade di attributi «graziosi»: «YHWH, YHWH, Dio rahûm (tenero, misericordioso), hanûn (longanime, pietoso), lento all'ira, ricco di hesed ed ۥ emet (amore e fedeltà)». Ma l'apice di questa fisionomia è nell'evidente travalicamento della giustizia operata dal perdono amoroso: secondo la mistica delle cifre si dichiara, infatti, che Dio «castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione», ma «conserva il suo amore e perdona la colpa, la trasgressione e il peccato fino alla millesima generazione» (34,7). Ora, il 3 e 4 evocano il 7 della pienezza della giustizia, il 1.000 rimanda all'infinito divino ed è questa la sconfinata misura del perdono che eccede la logica del diritto. Un Dio quindi che non ignora, certo, la giustizia, ma che la invera secondo un canone ulteriore e superiore, quello del perdono che è frutto di amore. E l'amore di sua natura non calcola, ma va oltre e, per ricorrere a una metafora biblica del perdono divino, «getta alle spalle» le colpe. In questa suggestiva rilettura del racconto di Genesi 4,1-16 operata da Jorge Luis Borges, «Abele e Caino si incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano. Sedettero in terra, accesero il fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca, quando declina il giorno. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: "Sei tu che mi hai ucciso o io ho ucciso te? Non ricordo più. Stiamo qui insieme come prima!". Disse, allora, Caino: "Ora so che mi hai perdonato davvero, perché dimenticare è perdonare"».
È interessante notare che il verbo ebraico slh, il termine più comune per designare il perdono, supponga proprio un cancellare il ricordo del male ricevuto; la memoria, liberata dalla reminiscenza del male, non è più un grembo gravido dell'offesa patita così da partorire la vendetta. Il teologo latino-americano Virgilio Elizondo ribalta l'argomentazione: «Perdonare non significa dimenticare; anzi, se avessi potuto dimenticare, non sarebbe necessario perdonare. La vera virtù consiste nel perdonare proprio ricordando, perché perdonare significa essere liberati dall'ira interiore, dai risentimenti e dalla ricerca di vendetta che consuma ogni fibra del mio essere». Il perdonare fa parte di un atto creativo e creatore che trasforma e trasfigura l’intero essere, dando origine a una nuova umanità, più sana, libera e pacifica.
Gianfranco Ravasi
da Grammatica del perdono
EDB, Bologna 2015