Chiaro Mario
Mari, muri e infinite barriere
2015/9, p. 28
Sta passando nell’opinione pubblica l’idea che occorra difendersi dai rifugiati piuttosto che difendere i rifugiati. I paesi più sviluppati contribuiscono in maniera determinante a creare le cause salvo poi adottare politiche di respingimento verso gli stessi migranti.
Dossier Caritas e il fenomeno delle migrazioni
MARI, MURI
E INFINITE BARRIERE
Sta passando nell’opinione pubblica l’idea che occorra difendersi dai rifugiati piuttosto che difendere i rifugiati. I paesi più sviluppati contribuiscono in maniera determinante a creare le cause salvo poi adottare politiche di respingimento verso gli stessi migranti.
Per fermare un’ondata immigratoria che ormai spaventa un po’ tutti si arriva a immaginare sempre qualche nuovo baluardo: così l’Ungheria ha iniziato a costruire una barriera lunga 175 km e alta 4 metri presso il confine meridionale con la Serbia. In questo terminale della cosiddetta “rotta balcanica” si stanno infatti riversando decine di migliaia di migranti e profughi diretti verso lo spazio europeo (soprattutto siriani, afghani e iracheni in fuga da guerra e violenze) e lo stato ungherese ha ricevuto più di 50mila richieste di asilo dall’inizio del 2015. Mentre a livello internazionale la violenza del terrorismo colpisce civili inermi, con l’obiettivo di far sentire tutti sotto assedio, la paura e il sospetto moltiplicano dunque i muri, materiali e immateriali, che tagliano fuori le vittime dei nuovi e dei vecchi conflitti. Sta passando nell’opinione pubblica l’idea che occorra difendersi dai rifugiati piuttosto che difendere i rifugiati: perciò si assiste a una intensificazione del controllo delle frontiere, a sospensioni temporanee del trattato di Schengen sulla libera circolazione nella UE, all’inasprimento nelle fasi di identificazione personale e all’accelerazione dei rimpatri.
Record di persone
in cerca di protezione
Il Rapporto annuale delle Nazioni Unite (UNHCR Global Trends 2014) riporta una forte escalation del numero di persone costrette a fuggire dai propri paesi, con quasi 60 milioni di migranti forzati. Negli ultimi cinque anni sono scoppiati o si sono riattivati almeno 15 conflitti: otto in Africa (Costa d’Avorio, Repubblica Centrafricana, Libia, Mali, nord-est della Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e Burundi); tre in Medio Oriente (Siria, Iraq e Yemen); uno in Europa (Ucraina) e tre in Asia (Kirghizistan, Myanmar e Pakistan). Nel frattempo ‒ con il perdurare da decenni di gravi condizioni di instabilità in Afghanistan, Somalia e in altri paesi ‒ milioni di persone provenienti dalle aree suddette continuano a spostarsi finendo poi per essere confinate nelle periferie della società nell’incerta identità di “sfollati interni” o di “rifugiati a lungo termine”. Secondo l’Istituto internazionale di ricerca sui confitti di Heidelberg (Germania), il 2013 è stato caratterizzato dal più alto numero di scontri armati dopo la seconda guerra mondiale: oltre 400.
A livello globale la Siria è il paese da cui ha origine il maggior numero sia di sfollati interni (7,6 mln) che di rifugiati (quasi 4 mln alla fine del 2014); l’Afghanistan (2mln e 500mila) e la Somalia (oltre 1mln) si classificano al secondo e al terzo posto. Va sottolineato poi che nella cosiddetta Ue allargata (28 stati membri, più Norvegia e Svizzera) solo nel 2014 sono state presentate oltre 660mila domande di protezione internazionale: i principali paesi di accoglienza sono stati Germania, Svezia, Italia, Francia e Ungheria. E i dati dei primi cinque mesi del 2015 mostrano che il numero di tali domande tenderà ad aumentare: l’incremento è già del 68% rispetto al 2014.
Caritas Italiana, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato del 2015, con un dossier intitolato Mari e muri. Infinite barriere mortali per i migranti” ha offerto una lettura di questo drammatico segno dei tempi, con uno sguardo particolare sui confini da varcare (“mari e muri”, appunto) e con un focus sulla realtà poco conosciuta riguardante le migrazioni nel Corno d’Africa verso il Golfo di Aden. Per quanto l’attenzione mediatica sia concentrata esclusivamente sul Mediterraneo, le rotte migratorie attraversano ormai diversi mari nel mondo e i tanti “barconi della speranza” percorrono nuove traiettorie: attraverso il Golfo di Aden (Mar Rosso) per raggiungere dal Corno d’Africa la penisola Arabica; nei mari del sud-est asiatico verso la Thailandia, la Malesia o l’Indonesia e nell’Oceano Pacifico verso l’Australia; tra le isole del Mar dei Caraibi, verso gli Stati Uniti; da una sponda all’altra del Mediterraneo cercando approdo nella “fortezza Europa”.
Le rotte
dei disperati
Secondo le stime più accreditate, nel 2014 almeno 348mila persone nel mondo hanno tentato queste traversate per via mare. L’Europa, che confina con importanti conflitti a sud (Libia) e sud-est (Siria/Iraq), è stata destinataria del numero più elevato di arrivi. Sono più di 200mila le persone che hanno attraversato il Mediterraneo nel corso del 2014, quasi tre volte in più rispetto al precedente picco di circa 70mila nel 2011, quando la guerra civile libica era in pieno svolgimento. Durante il 2014 nella regione del Corno d’Africa quasi 83mila persone hanno attraversato il Golfo di Aden e il Mar Rosso sulla rotta che dall’Etiopia e dalla Somalia permette di raggiungere lo Yemen, l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo Persico. Nel sud-est asiatico si stima che siano 54mila le persone che hanno intrapreso queste traversate via mare sempre nel 2014: in molti casi si tratta di persone in fuga da Bangladesh e da Myanmar, intenzionate a raggiungere Thailandia, Malesia o Indonesia.
Nei Caraibi poi sono circa 5mila le persone che hanno preso la via marittima nella speranza di sfuggire alla povertà o in cerca di asilo. Oltre alle traversate via mare continuano ovviamente le migrazioni attraverso i deserti (in Africa e in America), le steppe dell’Asia centrale, i valichi naturali e i muri artificiali che marcano i confini che separano il cosiddetto “primo mondo” (con il suo miraggio di benessere e opulenza) dal sud del mondo (luoghi di esclusione e marginalità).
Come già detto, il Dossier della Caritas focalizza in particolare la regione del Corno d’Africa per indicare una realtà migratoria tanto drammatica quanto poco conosciuta. L’instabilità politica e i conflitti che hanno agitato negli ultimi decenni l’Eritrea e l’Etiopia, la Somalia e il Sudan, la crisi dello Yemen (con la guerra civile tra ribelli Houti e le forze lealiste sostenute dall’Arabia Saudita) hanno portato a un significativo flusso migratorio di profughi e rifugiati verso la piccola repubblica di Gibuti, sulla costa africana del golfo di Aden. In questa regione martoriata da guerre e calamità lo stato di Gibuti, che conta appena 870mila abitanti, a ragione della sua relativa stabilità economica e politica, riceve sia coloro che attraversano il paese per raggiungere lo Yemen (dirigendosi poi verso altri paesi arabi o verso l’Europa) sia coloro che raggiungono il paese come destinazione finale. Secondo le più recenti statistiche, sono presenti quasi 15mila richiedenti asilo e rifugiati, risiedenti presso i campi profughi di Ali-Addé, al confine con la Somalia, e Holl Holl, oppure nella città stessa di Gibuti (sono circa 2.500 i “rifugiati urbani”).
La rotta migratoria principale riguarda, in particolare, il tragitto che dall’Etiopia attraversa Gibuti fino alla penisola arabica. Su questa strada si contano ogni giorno centinaia di persone che, partite a piedi dall’Etiopia, tentano di raggiungere i villaggi di Tadjoura e Obock nella speranza di trovare un passaggio verso lo Yemen. Dietro pagamento, moltissimi giovani dei villaggi di Gibuti conducono nottetempo i clandestini attraverso le piste del deserto, fino ai luoghi di partenza delle barche. Secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ogni anno almeno 100mila migranti, prevalentemente di nazionalità etiope, attraversano Gibuti diretti verso lo Yemen. Per coloro che riescono a raggiungere la costa yemenita, i problemi e le difficoltà tendono spesso ad aumentare. I migranti finiscono infatti nelle mani di gruppi di trafficanti e criminali che pur di ottenere un guadagno sono pronti a commettere qualunque azione: rinchiusi per settimane in mezzo al deserto, finché le famiglie non mandano somme di denaro, i migranti subiscono quotidianamente violenze, abusi sessuali, torture e in alcuni casi uccisioni.
Alla radice
dei fenomeni migratori
Proprio i movimenti migratori nel Corno d’Africa manifestano le nostre responsabilità globali. In primo luogo, la grave siccità in questa regione è strettamente legata al fenomeno del cambiamento climatico, le cui cause derivano dall’inquinamento globale e dall’uso dei combustibili fossili. Come è stato dimostrato, tali fattori risiedono principalmente nei paesi più industrializzati e nelle nuove economie in crescita (sud America, India, Cina) e i paesi del Corno d’Africa ne subiscono le conseguenze più pesanti, anche a causa della mancanza di infrastrutture che permettano di far fronte alla crisi. Inoltre, la crisi provocata dalla siccità si lega ad altri fattori economici e politici, che vanno oltre i confini africani: le politiche economiche degli ultimi anni infatti sono state rivolte a soddisfare gli interessi di grandi compagnie commerciali, principalmente nel settore alimentare e agricolo, che hanno occupato grandi appezzamenti di terreno fertile a discapito della popolazione locale (fenomeno del land grabbing) e hanno attivato strategie di deforestazione e sfruttamento intensivo delle risorse naturali, per una produzione agricola finalizzata all’esportazione. In aggiunta a questo, il mancato intervento dei governi sui prezzi degli alimenti ha contribuito a trasformare la siccità in una catastrofe umanitaria, rendendo irreperibili le due principali fonti di vita: l’acqua e il cibo.
La crisi del Corno d’Africa può essere dunque letta, in tutta la sua durezza e drammaticità, come l’altra faccia della crisi economica e dell’instabilità finanziaria in cui il mondo si dibatte in questi ultimi anni. Una vera e propria crisi di trasformazione degli equilibri geo-politici del capitalismo mondiale, che colpisce il cuore dell’occidente e il cui peso ricade sulle fasce sociali più vulnerabili ed esposte. L’Italia e l’Europa in particolare hanno forti interessi economici in questa regione: basti pensare che la compagnia incaricata di realizzare in Etiopia la “grande diga della rinascita”, molto discussa a causa dell’enorme impatto ambientale e dell’evacuazione armata delle zone interessate dal progetto dei gruppi umani residenti, è italiana.
Un’altra connessione tra i movimenti migratori in questa regione dell’Africa e gli interessi economici europei e internazionali riguarda il business della guerra. Infatti una della cause principali che costringe milioni di persone a spostarsi dai luoghi di origine riguarda i numerosi conflitti armati inter e intra statali. Ricordiamone alcuni: la guerra civile in Somalia da oltre vent’anni; i conflitti interni all’Etiopia e la costante guerra di confine tra Etiopia ed Eritrea; la disputa di confine tra Eritrea e Gibuti; gli scontri armati tra esercito del Kenya e milizie somale islamiste di Al Shabab; i massacri nella zona del Sudan (Darfur, Monti Nuba e Nilo Azzurro) e la sanguinosa guerra civile sud-sudanese; le stragi del Congo e da ultimo gli scontri in Burundi, nella regione dei Grandi Laghi.
Al di là del Golfo di Aden, la situazione non appare migliore, con scontri incessanti in Iraq, Siria e in Yemen, con migliaia di profughi che si stanno riversando sulla costa di Gibuti. Chi trae beneficio da queste guerre e da dove provengono le armi? I più grandi produttori ed esportatori di armi del mondo sono Stati Uniti, Russia, Germania, Cina, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Italia.
In conclusione, si può affermare che i paesi più sviluppati contribuiscono in maniera determinante a creare le cause – ambientali, economiche e politiche – che generano i movimenti migratori di massa, salvo poi adottare politiche di respingimento verso gli stessi migranti che attraversano il mare. Di fronte a questa realtà, il pensiero di papa Francesco coglie tutti gli elementi del problema e sprona a promuovere l’umanità migrante: «Alla globalizzazione del fenomeno migratorio occorre rispondere con la globalizzazione della carità e della cooperazione, in modo da umanizzare le condizioni dei migranti. Nel medesimo tempo, occorre intensificare gli sforzi per creare le condizioni atte a garantire una progressiva diminuzione delle ragioni che spingono interi popoli a lasciare la loro terra natale a motivo di guerre e carestie, spesso l’una causa delle altre. Alla solidarietà verso i migranti e i rifugiati occorre unire il coraggio e la creatività necessarie a sviluppare a livello mondiale un ordine economico-finanziario più giusto ed equo insieme a un accresciuto impegno in favore della pace, condizione indispensabile di ogni autentico progresso. Cari migranti e rifugiati! Voi avete un posto speciale nel cuore della Chiesa, e la aiutate ad allargare le dimensioni del suo cuore per manifestare la sua maternità verso l’intera famiglia umana. Non perdete la vostra fiducia e la vostra speranza!» (Chiesa senza frontiere, madre di tutti; Messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2015).
Mario Chiaro