Dall'Osto Antonio
Vita monastica e fragilità
2015/9, p. 22
Di fronte alle difficoltà, ha detto l’abate generale dom Eamon (Ocso), ho l’impressione che ci sia un’incapacità a comprendere che la vita è andata avanti, mentre noi rimaniamo invischiati nel passato. Non dobbiamo quindi dare la colpa della crisi alla modernità.

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Testimoni
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Dom E. Fitzgerald ai cistercensi di stretta osservanza
FRAGILITÀ
MONASTICA
Di fronte alle difficoltà, ha detto l’abate generale dom Eamon (Ocso), ho l’impressione che ci sia un’incapacità a comprendere che la vita è andata avanti, mentre noi rimaniamo invischiati nel passato. Non dobbiamo quindi dare la colpa della crisi alla modernità.
La vita consacrata sta attraversando una fase che viene spesso definita di crisi, ma che forse sarebbe più appropriato chiamare di transizione. Il fenomeno ha dei risvolti che sono ben visibili nelle incertezze e nelle fragilità che caratterizzano attualmente la vita degli istituti e delle comunità. Nessuno escluso. Ne sono toccati anche gli Ordini monastici e le congregazioni di vita contemplativa, che fino a non molto tempo fa erano considerati delle fortezze inespugnabili.
Ma ora non è più così, ha affermato l’abate generale dei cistercensi (Ocso), dom Eamon Fitzgerald, durante l’ultimo capitolo dello scorso anno, parlando delle “fragilità” che l’Ordine sta vivendo e che ha definito “crescenti”. Il riferimento riguarda sia i monasteri delle monache sia quelli dei monaci di cultura occidentale e asiatica. Le conseguenze di queste fragilità si manifestano, ha detto, negli edifici sproporzionati rispetto alla dimensione della comunità; nella scarsità di nuove vocazioni o nella mancanza di perseveranza dei candidati; nella difficoltà a trovare persone per incarichi di responsabilità; nel sovraccarico di lavoro di alcuni e nell’aumentato bisogno dell’aiuto dei laici; nell’impegno accresciuto di assistere i più anziani; nell’impoverimento della qualità della vita comunitaria in materia di liturgia, di risorse per la formazione e della capacità di prendere delle iniziative; nella diminuita capacità delle comunità di formare nuovi membri. «Questi elementi – ha sottolineato l’abate – non sono cambiati dopo l’ultimo Capitolo generale e si può dire anzi che la situazione si è deteriorata, perché siamo tutti invecchiati di tre anni, e se forse siamo un po’ più saggi – almeno lo speriamo – siamo anche più deboli e vittime di una maggiore fragilità». Ciò riguarda anche i numeri. In concreto, ha aggiunto, in questi tre ultimi anni, la percentuale dei monaci e delle monache è diminuita del 4% in ciascun ramo. Inoltre, tra i membri delle comunità più fragili, un numero considerevole è costituito oggi da anziani, e i più giovani hanno una quarantina o una cinquantina d’anni.
Ciò che egli ha visto
e ascoltato
Ma al di là di questi aspetti esterni, dom Eamon ha attirato l’attenzione su ciò che egli ha visto e ascoltato visitando i vari monasteri dell’Ordine.
Il primo aspetto riguarda la stabilità che è uno dei cardini su cui si reggono le comunità. Nell’Ordine, ha sottolineato, esiste una lunga tradizione di fedeltà e di perseveranza, una capacità a sopportare le difficoltà e a continuare a servire senza lamentarsi. Molti anziani danno testimonianza di questo spirito: alcuni vivono una vita pia e serena in infermeria, altri sono ancora attivi e continuano a prestare dei servizi semplici e necessari, dove possono. Altri ancora continuano a occupare posizioni di responsabilità in un’età avanzata. Ma ci sono anche dei casi in cui gli anziani rifiutano di lasciare le loro posizioni perché ritengono che i “giovani” non sono ancora preparati e non hanno sufficiente esperienza. Questo atteggiamento può provocare una emarginazione dell’insieme della giovane generazione considerata come debole. In certe situazioni ciò può minare la fiducia nelle comunità e rendere difficile trovare e accettare un superiore al loro interno.
Un altro aspetto riguarda la mancanza di vocazioni. Ciò può indurre ad aprire le porte ad ogni nuovo venuto, senza un vero discernimento, con delle conseguenze penose. «Spesso, ha sottolineato l’abate, una soddisfazione mal fondata per l’arrivo di un candidato sarà ben presto seguita dalla desolazione di una partenza. Avere dei candidati è una cosa, formarli è un’altra. E in queste situazioni di fragilità, la formazione si rivela spesso inadeguata, non solo in termini di insegnamento, ma soprattutto di direzione: saper dedicare del tempo a qualcuno, ascoltarlo e cercare di comprenderlo, avere il coraggio di lasciarsi interrogare su quello che facciamo e diciamo, ma anche la capacità di interrogare e di porre delle esigenze a un candidato».
Riguardo alla crisi di vocazioni, la prospettiva è seria. «Per molte comunità – ha affermato l’abate Eamon – non si vedono all’orizzonte nuovi candidati e c’è poca prospettiva che le cose cambino. Sono state promosse varie iniziative per favorire le vocazioni, ma i risultati sono stati spesso deludenti...».
Bisogna comprendere
che la vita è cambiata
Di fronte alle difficoltà che oggi si incontrano, ha sottolineato Eamon, alcuni reagiscono attribuendo la colpa alla società contemporanea oppure ai cambiamenti avvenuti nella Chiesa, o anche al declino della vita monastica (“non siamo più quello che eravamo”); altri si consolano dicendo che la vita conosce sempre dei cicli, che la storia monastica mostra che ci sono sempre stati alti e bassi e che le cose si metteranno a posto, che bisogna aspettare tempi più favorevoli. «A volte, ho l’impressione che noi utilizziamo la spiritualità come balsamo sulla nostra sofferenza. Oggi, si sente spesso parlare di kenosi, di umiltà e di piccolezza, di essere poveri, un piccolo drappello, per consolarci della nostra miseria identificandoci a Cristo che soffre fino alla morte. Senza dubbio questi elementi fanno parte del messaggio evangelico, ma a volte ho l’impressione che noi, in questo modo, canonizziamo la mancanza di adattamento, la perdita di zelo per le opere di Dio, un consenso ai comfort del mondo, e lo status quo nell’incapacità a comprendere che la vita è andata avanti e noi rimaniamo invischiati nel passato. Mi sono sentito incoraggiato leggendo un’affermazione in un libro di un benedettino americano, di una ventina d’anni fa. Diceva, a proposito della diminuzione delle vocazioni alla vita religiosa: “Forse la gente non entra più da noi oggi perché i religiosi pensano che la loro vita è in declino e non semplicemente in una fase di transizione”. Credo che questo approccio ci proponga un altro modo di considerare la nostra situazione attuale, una maniera più conforme alla realtà».
Di fronte
ai cambiamenti
Dom Eamon, riferendosi alle cose che ha visto e sentito, ha affermato che è anzitutto necessario tenere presenti alcuni cambiamenti che si sono verificati nella storia contemporanea. Il primo è che il mondo è cambiato. Non bisogna perciò avere nostalgia del passato e nemmeno considerarci come le vittime della modernità. In secondo luogo, che anche la Chiesa sta cambiando: in occidente si riscontra un forte calo numerico e una grande disaffezione tra i fedeli: molte chiese vengono chiuse perché non sono più utilizzate, diminuiscono i preti e i religiosi, i monaci e le monache. «Non siamo i soli – ha commentato l’abate – a subire gli effetti di questa siccità e a dover adattarci a questa desertificazione dello spirito. Inevitabilmente ci sono meno vocazioni alla vita monastica. Ma non dobbiamo considerarci dei martiri».
Sono cambiati anche i rapporti dei monaci con la Chiesa. In passato ci ritenevamo ai margini della società, geograficamente lontani dai luoghi abitati. Eravamo gli esploratori del mondo dello Spirito, stando alla frontiera e mantenendoci a una distanza critica dal mondo... Oggi la Chiesa locale ha un ruolo maggiore e il monastero si trova più strettamente inserito in essa, per delle cose di importanza maggiore o minore. Il posto riconosciuto al sacramento del battesimo ci pone oggi in comunione piuttosto che nella separazione. Il cambiamento e la riduzione della dimensione di molte nostre comunità possono cambiare le nostre relazioni con la Chiesa. Esse diventano meno istituzionali, più legate a relazioni personali piuttosto che formali, come si può vedere vediamo nelle comunità e nei monasteri di dimensioni più piccole».
Cambia anche il nostro posto nella società. Ogni monastero, benché situato in un luogo isolato, ha dei vicini, dei visitatori e un suo posto nella comunità locale. È una necessità ineluttabile. Noi siamo sempre meno autonomi nel mondo moderno... Se è necessario un cambiamento o si profilano dei problemi riguardanti il futuro, possiamo ritrovarci meno liberi di agire o di operare le scelte difficili necessarie».
Cambia anche il nostro modo di guardare il mondo giovanile: «Sappiamo che l’inculturazione riguarda non solo le culture ma anche le generazioni – e la cultura dei giovani, oggi, non è più la nostra, della maggioranza di noi».
Entrare nel mondo dei giovani «è come entrare in una terra straniera». Davanti a come si presentano oggi i giovani: capelli tinti, piercing, tatuaggi, per non parlare del modo di vestire, della musica, ecc., «ci sentiamo forse perduti? O siamo capaci di attraversare la frontiera culturale e di cercare di comprendere il loro linguaggio, di discernere le cose che per loro sono importanti?».
«A volte, ha proseguito dom Eamon, mi dico che molti di noi hanno implicitamente abbandonato al loro destino la giovane e le giovani generazioni. Non ci si attende da esse niente di buono».
Perciò, ha proseguito, «vorrei suggerire un esame di coscienza sul nostro modo di metterci in rapporto con il mondo in cui viviamo, sui presupposti e anche i pregiudizi che possiamo avere nei suoi confronti e quanto la nostra libertà può discernere e comprendere ciò che Dio vuole forse dirci per mezzo di questo mondo che egli non cessa mai, credo, di guidare secondo il suo disegno. Forse ciò che noi chiamiamo tradizione deriva da un attaccamento involontario ai regolamenti umani che ci impediscono di intendere una parola di vita, come si è prodotta 2000 anni fa in Galilea e in Giudea».
«A volte – ha aggiunto – ho l’impressione che ci portiamo dietro un eccesso di bagagli, che si sono moltiplicati lungo i secoli, di regole, di usi, e di quell’insieme di non detto che investe le nostre comunità. C’è un grande rischio di tralasciare l’essenziale. Che cosa vogliamo e che cosa viviamo realmente? Che cosa offriamo alla gente per poter dire loro che queste cose sono importanti per noi ed è la ragione per cui insistiamo su di esse? Che cosa difendiamo?».
Bisogna compiere
dei passi avanti
Di fronte alla situazione di fragilità di tanti monasteri, dom Eamon ritiene che sia giunto il momento di compiere dei passi avanti nel campo della collaborazione tra monasteri come è in parte già avvenuto, per esempio, nella Regione spagnola con la creazione di un istituto medico e la promozione di un programma regionale di formazione per i novizi. Qualcosa del genere è stato realizzato anche in Francia con una stretta collaborazione tra monaci e monache nel campo della formazione dei novizi. Ci sono, inoltre, anche dei monasteri della medesima zona geografica o di una stessa regione o filiazione che stanno esplorando la possibilità di unire le loro risorse, pur continuando a vivere autonomamente.
Concludendo la sua relazione, dom Eamon ha citato l’esortazione di Paolo della prima lettera ai Tessalonicesi: « Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1Ts 5,16-18). Nonostante le difficoltà, oltre agli aiuti per risolvere i problemi e a prendere delle buone decisioni, ha detto, è altrettanto importante «vivere questo tempo, il nostro tempo, viverlo bene e nella gioia del Vangelo, come uomini e donne che accolgono la benedizione delle Beatitudini».
D.