Ferrari Matteo
Un anno per ritornare
2015/6, p. 39
L’anno santo dovrà essere un tempo per ritornare a tenere lo sguardo fisso su Gesù, sulla sua umanità, sulle sue relazioni, sui suoi gesti, sulle sue parole. È un tempo per riscoprire che nell’umanità di Gesù si riflette il volto della misericordia del Padre.

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Verso l’Anno Santo della misericordia indetto da Papa Francesco
UN ANNO
PER RITORNARE
L’anno santo dovrà essere un tempo per ritornare a tenere lo sguardo fisso su Gesù, sulla sua umanità, sulle sue relazioni, sui suoi gesti, sulle sue parole. È un tempo per riscoprire che nell’umanità di Gesù si riflette il volto della misericordia del Padre.
La storia dei giubilei, degli «anni santi», nella Chiesa cattolica ha una lunga tradizione. Tutto inizia, con qualche incerto precedente, nel 1300 quando il papa Bonifacio VIII indisse l’anno giubilare con la bolla Antiquorum habet digna fide relatio. La celebrazione dell’anno santo – al passaggio al nuovo secolo, in un primo momento, ogni cinquanta e venticinque anni successivamente – celebra l’incarnazione da una parte e fa riferimento al giubileo biblico (cf. Lv 25,10) dall’altra, anche se di entrambi questi temi non si ha traccia nella prima bolla di indizione di Bonifacio VIII. Elemento fondamentale della celebrazione del giubileo, fin dal primo documento di indizione, è il perdono dei peccati.
Pensando al lungo cammino dei giubilei nella storia della Chiesa cattolica non si può dimenticare che si tratta di una storia fatta di luci e di ombre. Intorno al tema delle indulgenze, ad esempio, si sono consumate lacerazioni dell’unità ecclesiale, incomprensioni e scandali, che anche oggi non terminano di far sentire le loro conseguenze. Di fronte al giubileo si risvegliano – a volte per fondati motivi, altre per radicati pregiudizi – antichi timori e radicate contrapposizioni.
Guardando al giubileo straordinario – l’ultimo anno santo ordinario è stato celebrato nel 2000 da Papa Giovanni Paolo II – indetto da Papa Francesco con la bolla di indizione Misericordiae vultus dell’11 aprile 2015 (= MV), occorre chiederci quale prospettiva assumere per viverlo in modo autentico e per farlo diventare evento di riconciliazione e unità, e non di divisione e discordia.
In primo luogo, occorre sottolineare il fatto che, l’anno indetto da papa Francesco è “straordinario”, perché non si colloca nella ordinaria frequenza degli anni giubilari, ogni 25 anni, per celebrare l’incarnazione del Signore, ma un evento particolare della vita della Chiesa, come il cinquantesimo anniversario della chiusura del concilio Vaticano II. È un particolare da non dimenticare, che il papa richiama esplicitamente e con forza nella bolla di indizione dell’anno giubilare: «L’Anno Santo si aprirà l’8 dicembre. (…) Ho scelto la data dell’8 dicembre perché è carica di significato per la storia recente della Chiesa. Aprirò infatti la Porta Santa nel cinquantesimo anniversario della conclusione del concilio ecumenico Vaticano II. La Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento. Per lei inizia un nuovo percorso della sua storia» (MV 4). Il papa sottolinea come «i Padri radunati nel concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile» (MV 4). Papa Francesco ritiene che, con la celebrazione del concilio, «la Chiesa sentiva la responsabilità di essere nel mondo il segno vivo dell’amore del Padre» (MV 4). In questa prospettiva di «un nuovo impegno per tutti i cristiani per testimoniare con più entusiasmo e convinzione la loro fede» (MV 4), occorre, quindi, leggere il tema della misericordia che il papa ha voluto dare al Giubileo straordinario.
Una seconda pista da seguire per comprendere il significato più profondo dell’anno santo e superare possibili incomprensioni, consiste nella riscoperta delle radici bibliche, che stanno alla base del giubileo. Certo in alcune sue forme, anche legate all’origine stessa del giubileo cristiano, il legame con le origini bibliche dell’anno giubilare non è così presente, tanto che nella bolla Antiquorum habet digna fide relatio di Bonifacio VIII, che indice il primo anno santo cristiano nel 1300, non si fa nessun riferimento al giubileo biblico. Tuttavia non possiamo dimenticare che nella Scrittura, sia nel Primo che nel Nuovo Testamento, possiamo trovare i testi fondamentali per risalire all’origine e al significato più autentico del giubileo. Infatti, solo intorno alle Scritture e a partire da esse possiamo ritrovare la concordia e l’unità, perché ciò che viviamo nell’Anno Santo sia per edificare e non per demolire o creare divisione.
A partire da queste osservazioni iniziali, possiamo allora individuare due percorsi che ci possono condurre a vivere l’anno del Giubileo straordinario della misericordia, così come papa Francesco lo ha proposto al cammino della Chiesa. Innanzitutto, dobbiamo metterci in ascolto delle Scritture, per andare al senso più autentico dell’anno giubilare. In un secondo momento, ci soffermeremo sul tema che il papa ha scelto per questo anno santo straordinario, cioè la misericordia.
In ascolto delle Scritture
Il tema dell’anno giubilare ricorre diverse volte nelle Scritture ebraiche, fino a giungere al Nuovo Testamento. Si possono individuare alcuni testi fondamentali, che diventano per noi come delle tappe che fanno emergere i tratti più significativi del giubileo.
«Proclamerete la liberazione» (Lv 25)
Il testo di riferimento per il giubileo biblico è certamente il capitolo 25 del libro del Levitico. Per ogni riflessione sull’argomento, occorre partire da qui. Ci troviamo in un libro biblico purtroppo poco noto e poco frequentato dai cristiani, perché solitamente considerato – magari senza averlo mai letto e approfondito – un’arida e ormai inutile serie di prescrizioni cultuali. Ma in realtà – a prescindere dal fatto che «l’economia della salvezza preannunciata, narrata e spiegata, dai sacri autori, si trova come vera parola di Dio nei libri dell’Antico Testamento» (DV 14) – il Levitico è un testo molto ricco che non dobbiamo rinunciare a leggere e a conoscere. Basta pensare che proprio a questo testo del Primo Testamento Gesù ha attinto per proporre nel suo insegnamento la seconda parte di ciò che egli propone come primo e più grande comandamento, quello da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti: «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18; cf. Mc 12,30 e Mt 22,39).
Il testo di Lv 25 tratta principalmente dell’anno sabbatico (Lv 25,1-7) e successivamente dell’anno giubilare (Lv 25,8-17). Il resto del capitolo contiene prescrizioni riguardanti le persone e le cose per questi due anni. Riguardo all’anno giubilare, il testo afferma: «Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese, farai echeggiare il suono del corno; nel giorno dell'espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,8-10). L’anno giubilare biblico – sebbene molti siano i dubbi circa la sua reale celebrazione, per diverse difficoltà che essa avrebbe comportato – si celebra ogni cinquant’anni, cioè dopo un ciclo di sette settimane di anni. Al di là della possibilità di realizzazione di una tale istituzione, la prescrizione del giubileo porta con sé alcune sottolineature preziose che potrebbero, e in qualche modo dovrebbero, ispirare il nostro modo di vivere l’anno santo.
Innanzitutto, l’anno giubilare è un dono. È il Signore che sta parlando a Mosè per donare al sua popolo la Torah. Non si tratta, quindi, di un tempo stabilito dall’uomo, ma di un tempo che Dio dona, nella medesima prospettiva dello shabbat, nella tradizione biblica, e di ogni altra ricorrenza del calendario liturgico. Non importa che l’indizione sia fatta da uomini, ciò che conta è che l’anno deve essere «dichiarato santo», cioè «separato», appartenente a Dio. L’anno santo è tempo di Dio e come tale va trattato: un tempo da accogliere e di cui non si può disporre. Si tratta di un tempo che partecipa della santità/separazione di Dio e che è caratterizzato, proprio per questo, come il sabato e come l’anno sabbatico, dalla gratuità. Si tratta perciò di un tempo nel quale è possibile sperimentare l’azione gratuita di Dio nella nostra vita. In questo anno è il Signore che si prende cura della nostra vita.
Il tempo di Dio dell’anno giubilare è caratterizzato, in primo luogo, dalla liberazione (deror). Dio si prende cura della nostra vita liberando. È il tema fondamentale del giubileo, che ritroveremo in altri passi biblici. L’anno santo, quindi, si presenta come un tempo di Dio nel quale sperimentare la liberazione e la remissione. Si tratta di termini importanti che vanno compresi bene e che non possono essere ridotti – anche se questo non è certamente un aspetto da dimenticare, come ricorda il papa stesso in diversi passaggi della bolla di indizione (MV 17.18) – all’aspetto sacramentale. Anzi, proprio perché la celebrazione del sacramento della penitenza porti pienamente i suoi frutti, occorre allargare l’esperienza della penitenza/conversione e della liberazione nella vita della Chiesa.
Il testo del Levitico utilizza una espressione molto bella per definire in cosa consista la liberazione e la remissione nell’anno del giubileo. Si afferma: «Ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10). La liberazione dell’anno giubilare consiste nel rientrare in possesso di ciò che ci appartiene: sia la libertà personale, sia i beni come case e campi. Il testo del Levitico propone una precisa normativa su come tale liberazione debba avvenire. Se un uomo, a motivo della povertà e dei debiti, perdeva la propria libertà o il possesso dei propri beni, nell’anno giubilare avrebbe dovuto ritornare a recuperare la propria libertà personale e i propri beni. Il testo significativamente afferma che ognuno «tornerà in possesso della sua proprietà». Potremmo quindi vedere l’anno giubilare come un tempo donato da Dio nel quale è possibile ritornare in possesso di tutto ciò che è veramente nostro e ci appartiene. Si tratta di un messaggio del giubileo molto attuale. Certo oggi non ci sono, almeno nei nostri paesi, casi in cui si cada in schiavitù per debiti. Ma, se ci pensiamo bene, quante situazioni di schiavitù, per motivi economici e non solo, toccano gli uomini e le donne del nostro tempo? Inoltre, come credenti, spesso dobbiamo renderci conto di esserci allontanati da ciò che di più autentico e vero ci appartiene. Il tempo del giubileo dovrebbe divenire per noi il momento favorevole per ritornare in possesso di tutto ciò che ci appartiene veramente e dal quale ci siamo allontanati. L’anno santo potrebbe essere l’occasione preziosa per tornare in possesso di ciò che è nostro.
Dovremmo allora chiederci: quali sono quelle realtà che come credenti e cristiani ci dovrebbero appartenere e che abbiamo lasciato? E ancora, da quali forme di schiavitù dobbiamo essere liberati? Non dobbiamo poi dimenticare che anche noi possiamo aver reso schiavi o privato altri delle loro proprietà. Come comportarci in queste situazioni?
Il testo di Levitico propone due motivazioni di fondo per la celebrazione del giubileo che trovano il loro fondamento nella creazione e nell’esodo. Una prima motivazione la troviamo in Lv 25,23: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti». Il fondamento delle prescrizioni del giubileo che tutti possano rientrare in possesso delle loro proprietà e terre, non trova unicamente una giustificazione di carattere sociale ed economico, bensì teologico e, di conseguenza, anche antropologico. La pratica del giubileo biblico ha le sue radici nella domanda: chi è Dio e chi è l’essere umano? L’uomo e la donna sulla terra non sono padroni del creato, ma destinatari di un dono da parte di Dio. Questo ci dicono i racconti della creazione, che troviamo nel Libro della Genesi. In particolare, il secondo racconto della creazione (Gn 2,4b-25) ci mostra come Dio abbia creato per primo l’essere umano, per farlo destinatario di tutti i suoi doni. In questo principio troviamo una legge fondamentale del nostro rapporto con la terra, con le cose e con l’altro che sta di fronte a me (cf. Gn 2,20). L’anno del giubileo ci ricorda che siamo «forestieri e ospiti» nel mondo, non perché la nostra vera patria sia un’altra, quella del cielo, come a volte si è insegnato, ma perché tutto ciò che abbiamo è dono di Dio e come tale va riconosciuto. Questo ci può portare ad un rapporto più autentico con noi stessi, con gli altri, con il creato e con Dio. Il giubileo quindi può diventare una scuola di umanità, per diventare uomini e donne consapevoli di non essere “proprietari” assoluti della terra, degli altri e di noi stessi, bensì destinatari di un dono gratuito da parte di Dio.
Non possiamo non ricordare a questo proposito un passaggio del Nuovo Testamento nel quale ricorre un vocabolario molto simile: «Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all'anima» (1Pt 2,11; cf. anche Eb 11,13). «Forestieri e ospiti», «stranieri e pellegrini», sono termini che possono caratterizzare l’esistenza del credente nella sua modalità di vivere nel mondo. Essi non invitano al disimpegno in vista di un’altra patria che sarebbe più vera, ma ci spingono ad una corretta visione di noi stessi, del mondo e di Dio. La nostra patria non è un’altra, è la terra, ma dobbiamo viverla consapevoli di essere stati destinatari di un dono. Anche questa, in fondo, è la prova del credente che l’anno santo ci invita ad attraversare per convertire il nostro sguardo.
La seconda motivazione viene ricavata dal racconto dell’Esodo e riguarda il tema della libertà, della remissione dei debiti e dell’affrancamento di chi è caduto in schiavitù. Il testo afferma: «Essi (i tuoi fratelli) sono infatti miei servi, che io ho fatto uscire dalla terra d'Egitto; non debbono essere venduti come si vendono gli schiavi» (Lv 25,42). Se la motivazione proposta a partire dalla creazione riguarda principalmente la proprietà della terra, quella che si ricava dall’esperienza della liberazione dalla schiavitù in Egitto riguarda invece principalmente le persone e la loro libertà e dignità personale. Anche in questo caso la motivazione è di carattere teologico: il tuo fratello non va reso schiavo perché è stato liberato da Dio. Ma potremmo anche ampliare la prospettiva, rivolgendo lo sguardo su noi stessi, come accade per il comandamento riguardante il sabato (Dt 5,15): poiché tu sei stato liberato da Dio, non puoi rendere schiavi il tuo fratello o la tua sorella. Anche in questo caso l’anno giubilare diviene una scuola di umanità nella quale riscoprire le ragioni della nostra e altrui dignità e libertà. Anche nel Nuovo Testamento troviamo la ferma convinzione di essere stati liberati. Qui si parla soprattutto della liberazione dalla schiavitù del peccato. In particolare, possiamo ricordare un passo della lettera ai Romani: «Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia» (Rm 6,17-18).
Come abbiamo visto, il testo del Levitico che istituisce l’anno giubilare è molto ricco di spunti per vivere oggi l’anno santo. Certo tutte le indicazioni che troviamo riguardanti la pratica biblica del giubileo vanno oggi riportate alla esperienza personale e comunitaria e all’epoca in cui viviamo. Cosa significa per noi oggi parlare di remissione dei debiti, di affrancamento da ogni tipo di schiavitù, di riappropriazione di tutto ciò che ci appartiene e che abbiamo perduto? L’anno del giubileo può diventare un tempo favorevole per riflettere su queste e altre domande, per condurci a vivere con maggiore autenticità la nostra fede cristiana.
Un ultimo aspetto dobbiamo ricordare. Sia riguardo all’anno sabbatico del settimo anno, sia per quanto riguarda l’anno giubilare del cinquantesimo anno, in Lv 25 Dio si fa garante. Il tempo dell’anno sabbatico, «un riposo assoluto per la terra» (Lv 25,4), e del giubileo, nel quale le terre dovevano ritornare ai proprietari e gli schiavi essere liberati, è un tempo benedetto da Dio. Per questo motivo nulla mancherà a chi vivrà nella fiducia questi anni che la Parola di Dio prescrive. L’anno santo è, quindi, un tempo donato, ma appunto, come ogni dono, va accolto con fiducia. Ritornare in proprietà di ciò che è nostro, lasciare le nostre e altrui schiavitù può e deve comportare la disponibilità a lasciare le nostre false sicurezze e ad abbandonare l’idea di essere noi a garantire la nostra vita e a pensare alla nostra esistenza. L’anno giubilare, con tutto ciò che comporta di più vero, è un tempo garantito da Dio e dalla sua benedizione: «io disporrò in vostro favore la mia benedizione» (Lv 25,21). Un anno per fidarsi di Dio quindi, abbandonando le nostre leggi e le nostre scelte sempre condizionate da precauzioni troppo umane, che possono diventare semplicemente scuse per non ascoltare la Parola del Signore e lasciare che sia essa a rinnovare la nostra vita.
In ascolto dei profeti
Oltre al testo del Levitico, troviamo nel Primo Testamento altri riferimenti al giubileo o ad aspetti ad esso legati in alcuni testi profetici. In particolare Isaia e Geremia. Caratteristica comune di questi testi è quella che in entrambi ricorre il termine liberazione (deror), che abbiamo incontrato in Lv 25,10. Il termine ricorre inoltre, in riferimento all’anno giubilare, anche nel Libro di Ezechiele (Ez 46,17).
Il primo testo profetico, citato anche nella bolla di indizione del Giubileo della misericordia da papa Francesco (MV 16), lo troviamo nel libro di Isaia. Un testo che ritroveremo nel Nuovo Testamento sulle labbra di Gesù. Si tratta di Is 61,1-3, da molti inteso come il racconto della vocazione del profeta: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l'anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell'abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto. Essi si chiameranno querce di giustizia, piantagione del Signore, per manifestare la sua gloria» (Is 61,1-3). A questo testo profetico, al di là dei dibattiti riguardanti l’identità della figura a cui si riferisce, possiamo porre la domanda: chi sono i destinatari principali dell’annuncio di liberazione del giubileo?
Il compito del personaggio che sta parlando consiste nel proclamare «un anno di grazia (razon)». I destinatari sono «gli afflitti di Sion», quindi gli abitanti di Gerusalemme. Immediatamente prima e subito dopo Is 61 troviamo due testi dedicati allo splendore di Gerusalemme (Is 60.62). Tuttavia in questo annuncio che riguarda Gerusalemme vengono coinvolti tutti i popoli. I destinatari sono: i poveri, coloro che hanno il cuore spezzato, gli schiavi, i prigionieri, gli afflitti. Tutte queste figure, a cui il servo consacrato dal Signore viene inviato, potrebbero essere raccolte nella categoria di «povero», che nella Bibbia non ha un significato solamente sociale ed economico, ma soprattutto religioso. Il «povero» è colui che non ha nulla da rivendicare da Dio come diritto, ma tutto da ricevere come dono. Per questo egli si trova nella condizione favorevole per accogliere la «gloria»/presenza di Dio che si manifesta. Non si tratta di una accettazione di queste condizioni umane, viste come se fossero positive. Al contrario! Da esse occorre liberare gli uomini e le donne afflitti. Tuttavia sono i primi destinatari dell’annuncio dell’anno di grazia del Signore, perché la loro situazione di povertà umana, sociale e politica, li pone nelle condizioni favorevoli per stare davanti a Dio nella disposizione giusta. È importante notare che l’anno di grazia di cui il servo del Signore deve farsi annunciatore attraversa tutte le possibili «povertà» che raggiungono gli uomini e le donne di ogni tempo. Si va dalla condizione economica dell’indigenza a quella esistenziale di chi ha il cuore spezzato; da coloro che si trovano in carcere a chi ha perso la propria libertà ed è schiavo. La liberazione (deror) di cui parla il testo riguarda quindi ogni situazione umana. L’anno di grazia annunciato in Is 61 ci spinge, quindi, a guardare a tutte le forme di liberazione di cui gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno. L’anno giubilare dovrebbe condurci soprattutto a questo: a porre attenzione ad ogni forma di povertà che segna la nostra vita e quella degli uomini e delle donne del nostro tempo.
È un annuncio, quello del giubileo, che in primo luogo riguarda la Chiesa, come il testo di Isaia si rivolge a Gerusalemme e al popolo di Dio. Tuttavia non è un anno in cui la Chiesa deve chiudersi in se stessa e guardare alle proprie povertà e mancanze di libertà. L’abito nuovo che il Signore le dona è al servizio dell’umanità intera e delle povertà che affliggono il mondo oggi.
La figura del consacrato del Signore di cui parla il libro di Isaia può riferirsi ad un personaggio singolo, ma può rimandare anche ad una realtà collettiva. È l’intero popolo, in questo caso, ad essere chiamato e inviato a portare un lieto annunzio (evangelo) ai poveri e a proclamare un anno di grazia. Ognuno di noi, quindi, può sentire rivolta a sé questa missione di annunciatore di libertà. In questa prospettiva il giubileo non è unicamente qualcosa da vivere per sé o per la vita della Chiesa, ma è una missione che come singoli e come comunità riceviamo dal Signore. La missione di «portare una parola e un gesto di consolazione ai poveri, annunciare la liberazione a quanti sono prigionieri delle nuove schiavitù della società moderna, restituire la vista a chi non riesce più a vedere perché curvo su se stesso, e restituire dignità a quanti ne sono stati privati» (MV 16). La domanda che potremmo portare con noi nell’anno giubilare riguarda anche questa missione che esso comporta. Siamo pronti, come il profeta, alla domanda del Signore «Chi manderò e chi andrà per noi?», a rispondere «Eccomi, manda me!» (Is 6,8)?
Il secondo testo profetico lo troviamo nel libro di Geremia (Ger 34). Si tratta di un racconto che si situa durante l’assedio di Gerusalemme da parte dell’esercito babilonese, forse in occasione di una interruzione dell’assedio (cf. Ger 34,21-22). Si parla di una alleanza che Sedecia, ultimo re di Gerusalemme prima della caduta definitiva della Città in mano babilonese, avrebbe stretto con tutto il popolo. Il patto prevedeva la liberazione (deror) di tutti gli schiavi, come prescritto dalla Legge del Signore. In un primo tempo tutti i notabili di Gerusalemme aderirono, secondo quanto ci dice il testo, al comando del re di liberare gli schiavi appartenenti al popolo ebraico, ma successivamente ritornano sui loro passi e «ripresero gli schiavi e le schiave che avevano rimandato liberi e li ridussero di nuovo in schiavitù» (Ger 34,11). Allora il Signore rivolge la sua parola al Profeta perché la riporti al popolo. Nelle parole della profezia emerge che il comando di liberare periodicamente tutti gli schiavi, contenuto nel “patto” concluso dal Signore con i padri al tempo della liberazione dall’Egitto (cf. 34,13-14), non fu mai in realtà osservato e che neppure ora, che il re aveva promosso la liberazione, tale azione era andata a buon fine. Per questa disobbedienza alla parola del Signore, l’esercito babilonese sarebbe ritornato per assediare e distruggere la città. Ormai l’esilio è un passaggio obbligato per purificare il popolo dalle sue false sicurezze e ricondurlo all’obbedienza al Signore e a ciò che veramente è essenziale per la sua vita.
Questo testo di Geremia ci mostra un volto essenziale del giubileo biblico: la sua gravosità. Il giubileo è un tempo sì gratuito, ma al contempo gravoso. Si può cercare di fuggire davanti al tempo che Dio ci dona per la liberazione, perché questo comporta anche delle inevitabili rinunce. Il giubileo, se lo vogliamo vivere veramente, ci richiede di rinunciare sia ad essere che a rendere schiavi. Perché, in fondo, sia la condizione della schiavitù che quella di chi rende schiavi crea in qualche modo sempre una dipendenza. A lungo andare è comodo sia rendere schiavi che esserlo. Il giubileo per questo richiede di rinunciare alle nostre comodità e alle nostre abitudini per entrare in logiche di autentica liberazione.
Questo testo di Geremia ci ricorda un tratto fondamentale del nostro modo di vivere il giubileo. Non dobbiamo dimenticarlo, diversamente rischieremo di vivere apparentemente con molta devozione questo tempo, ma di ricevere la medesima parola di condanna che il profeta è inviato a portare al popolo. Non si può limitare ad una confessione e a un viaggio a Roma, ciò che il tempo esigente del giubileo richiede.
«Oggi si è compiuta questa scrittura». Il Nuovo Testamento
Nel Nuovo Testamento abbiamo un riferimento fondamentale all’anno giubilare nell’episodio del vangelo di Luca che riporta la narrazione della visita di Gesù nella sinagoga di Nazaret all’inizio del suo ministero (Lc 4,16-21). Entrato nella sinagoga in giorno di sabato Gesù è invitato a leggere e gli viene dato il rotolo di Isaia. Il brano che Gesù trova per la lettura della liturgia sinagogale è Is 61,1-3, il medesimo testo sul quale ci siamo già soffermati (cf. MV 16). Egli, alla luce di questa parola profetica legge la sua missione e la sua esistenza e vi trova un vero e proprio programma di vita. Potremmo leggere tutta la vita di Gesù narrata dai Vangeli e in particolare dal Vangelo di Luca alla luce di questo testo di Isaia. Gesù «ha fatto» la parola di Dio.
Gesù con la sua vita di uomo è divenuto questo annuncio di «un anno di misericordia». L’introduzione della bolla di indizione del giubileo della misericordia sottolinea molto bene questo aspetto, che riprenderemo anche in seguito. Di fronte alla parola di Isaia, Gesù può affermare «oggi si è compiuta questa scrittura» (Lc 4,21). È importante sottolineare che della liberazione annunciata da Isaia «Gesù è, per la comunità cristiana, il soggetto che l’annuncia e l’instaura attraverso il suo dire e il suo agire, cioè attraverso la sua prassi messianica». Per questo motivo il brano del vangelo di Luca è «un testo capitale che costituisce il vero ponte tra il giubileo ebraico e il giubileo cristiano: perché in esso confluisce il primo e ad esso rimanda il secondo» (C. Di Sante).
A partire da questo testo del vangelo di Luca, che, come abbiamo detto unisce giubileo ebraico e giubileo cristiano, possiamo dire che al centro dell’anno giubilare sta il termine «liberazione» (deror), che unisce tra loro tutti i testi dell’Antico e del Nuovo Testamento che abbiamo preso in considerazione. A partire da questo elemento comune possiamo dire che «il giubileo introduce nella logica umana, che è la logica del determinismo, la logica divina che è logica dell’evento e della grazia dove l’orizzonte escatologico, cioè ultimo, non è più il possedere ma il donare, non il condannare, ma l’accogliere e il perdonare» (C. Di Sante).
Il discorso di Gesù nella sinagoga di Nazaret è carico di significato per la nostra esistenza cristiana e per il nostro modo di comprendere e di vivere il giubileo. Infatti, come afferma il papa, «la predicazione di Gesù si rende di nuovo visibile nelle risposte di fede che la testimonianza dei cristiani è chiamata a offrire» (MV 16).
«Misericordiosi come il Padre». Il tema del giubileo straordinario
La seconda prospettiva nella quale comprendere l’anno santo indetto da papa Francesco riguarda il tema da lui scelto: la misericordia. In realtà, come possiamo ricavare dal percorso biblico fatto fin qui, il tema della misericordia appartiene al senso più autentico del giubileo in quanto tale. Infatti, il concetto di liberazione e di riscatto è intrinsecamente legato al tema della misericordia. Tanto che in Isaia e nel Vangelo di Luca si parla di annunciare un «anno di grazia/misericordia» (Is 61,2; Lc 4,19).
Il papa afferma che il “motto” dell’anno santo sarà «misericordiosi come il Padre» (MV 13.14). Nella prospettiva che egli pensa per il modo di vivere l’anno giubilare ci sono quindi due linee, attraverso le quali guardare alla misericordia, che sono presenti anche nella Bibbia. Misericordia è innanzitutto una caratteristica di Dio e del suo volto, ma diviene anche impegno per il credente, che ha sperimentato su di sé la misericordia del Padre.
Partire da Cristo
La prospettiva che il papa propone per comprendere il tema dell’anno giubilare è, innanzitutto, cristologica. Egli afferma: «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi» (MV 1). Questa apertura della bolla di indizione del giubileo viene sviluppata successivamente con l’invito a tenere sempre lo sguardo fisso su Gesù (cf. MV 8), infatti, «la sua persona non è altro che amore, un amore che si dona gratuitamente. Le sue relazioni con le persone che lo accostano manifestano qualcosa di unico ed irrepetibile. (…) Tutto in lui parla di misericordia» (MV 8).
L’anno santo dovrà, quindi, essere per la Chiesa innanzitutto un tempo per ritornare a tenere lo sguardo fisso su Gesù, sulla sua umanità, sulle sue relazioni, sui suoi gesti, sulle sue parole. È un tempo per riscoprire che nell’umanità di Gesù viene raccontato il volto di quel Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18).
Naturalmente, come si vede bene nella bolla (cf. MV 8-9), questo può essere fatto non in astratto, ma attraverso un assiduo e profondo contatto con i Vangeli e con l’intera Sacra Scrittura, che diviene in questo modo come la tabella di marcia del nostro cammino nell’anno giubilare. Il papa afferma: «Per essere capaci di misericordia, quindi, dobbiamo in primo luogo porci in ascolto della parola di Dio. Ciò significa recuperare il valore del silenzio per meditare la Parola che ci viene rivolta. In questo modo è possibile contemplare la misericordia di Dio e assumerla come proprio stile di vita.
La misericordia: nome di Dio e nome dell’uomo
Il tema della misericordia va compreso a partire dalla Bibbia. L’uso del termine hesed, che in molti casi nella Bibbia in greco viene tradotto con “eleos/misericordia” nelle Scritture ebraiche indica la relazione tra due soggetti legati tra di loro da un rapporto di alleanza e rappresenta un concetto biblico fondamentale. Il termine può essere tradotto con “amore”, “favore”, fedeltà”, “grazia”, “bontà”, “benevolenza”. La hesed è innanzitutto un attributo di Dio, che troviamo espresso nel testo fondamentale di Es 34,6: «Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso (rahum) e pietoso, lento all'ira e ricco di amore (rav hesed) e di fedeltà (‘emet), che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”» (Es 34,6-7; cf. MV 1). Amore e misericordia è il nome stesso di Dio. Tutti gli attributi che vengono usati per indicare Dio in questo testo hanno a che fare con l’ambito dell’alleanza, quindi della relazione che lega Dio al suo popolo.
Nella traduzione italiana (CEI 2008) il termine “hesed” viene tradotto con “amore”, mentre l’attributo divino “misericordioso” in ebraico è reso con l’aggettivo “rahum”, derivante da “rehem”, termine che indica le viscere materne e che può essere anche tradotto con “compassionevole”.
La grazia e bontà di Dio in questo testo, più volte ripreso nel Primo Testamento (Nm 14,18; Gio 4,2; Gl 2,13; Sal 103,8; Sal 11,4; Sir 2,11), precede la sua giustizia e la supera. Se Dio non lascia senza punizione il peccato e «castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione», egli tuttavia «conserva il suo amore per mille generazioni». L’amore di Dio, nel contesto del rapporto di alleanza che egli stringe con il suo popolo, assume la sfumatura di fedeltà e affidabilità e, proprio per questo, spesso si accompagna al termine “‘emet”, verità, fedeltà, affidabilità.
Se nel Primo Testamento la misericordia appartiene innanzitutto a Dio e indica il suo amore fedele, essa tuttavia diventa di conseguenza anche parametro di comportamento per l’uomo e la donna. Il comportamento di Dio, il suo modo di entrare in relazione di alleanza con il suo popolo, diventa un richiamo per la vita dei credenti. Troviamo qui un chiaro esempio di come nella Scrittura l’imperativo venga sempre dopo l’indicativo. Infatti, prima il credente sperimenta il volto misericordioso di Dio e solo successivamente è chiamato a comportarsi di conseguenza. Gesù stesso nel vangelo di Luca rimanda a tale principio, quando afferma «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Il papa nella Bolla di indizione del giubileo sottolinea questo aspetto con forza: «in questo anno santo potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. (…) In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta» (MV 15). In queste parole del pontefice, non possiamo non riconoscere l’icona biblica del buon samaritano di cui ci parla di vangelo di Luca (Lc 10, 29-37), attraverso la quale Gesù ribalta la prospettiva del suo interlocutore: si passa dal «chi è il mio prossimo» a «di chi tu sei prossimo». Questo passaggio è anche ciò che ognuno di noi deve vivere, celebrando l’anno santo della misericordia.
Fuggire dalla misericordia: il caso di Giona
Ma dalla misericordia si può fuggire. Ce lo mostra in modo molto eloquente e provocatorio la figura del profeta Giona. Egli fugge dalla «misericordia di Dio». Infatti, una volta compiuta, controvoglia perché costretto da Dio, la missione di predicare a Ninive, la città nemica e peccatrice per eccellenza, e dopo aver visto la conversione dei niniviti e la conversione di Dio, egli afferma: «Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!» (Gio 4, 2-3). La figura di Giona dovrebbe spingerci ad interrogarci. Giona infatti potremmo essere noi. Il giubileo straordinario della misericordia può portarci anche a fuggire perché chiusi, come Giona, nel nostro risentimento.
Il profeta Giona ci rivela un aspetto importante della celebrazione del giubileo. Come in precedenza Geremia ci ha mostrato che si tratta di un anno esigente, così Giona ci dice che potremmo anche cercare di fuggire davanti alla misericordia di Dio.
Tutto si riassume nella misericordia
Nella tradizione ebraica si afferma che tutta la Torah è racchiusa dalla misericordia, poiché il Signore all’inizio riveste Adamo ed Eva di tuniche di pelli (Gn 3,21) e alla fine offre una sepoltura a Mosè (Dt 34,6). Così anche nel vangelo di Matteo, se l’inizio del ministero pubblico di Gesù è segnato dalla beatitudine dei misericordiosi, alla fine, nell’ultimo dei cinque discorsi, quello escatologico (Mt 24-25), troviamo la parabola del giudizio universale (Mt 25,31-46). Nell’ultimo discorso di Gesù nel vangelo di Matteo, il discorso escatologico del capitolo 25, il richiamo ad un comportamento misericordioso, ad immagine di quello di Dio, è il decisivo richiamo a convertirsi alla logica del Regno, alla misericordia. La benedizione è per coloro che nel povero, nel carcerato, nell’affamato… hanno riconosciuto la logica del Regno: «Benedetti perché l’avete fatto a me!».
Il papa nella bolla di indizione richiama proprio la centralità delle opere di misericordia: «è mio desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina» (MV 15).
Conclusione: straordinario e ordinario
Un anno straordinario, certo. Tuttavia un anno fatto di cose ordinarie. È importante sottolineare questo aspetto. Siamo spesso malati di straordinarietà, andiamo in cerca di cose straordinarie. Ma sappiamo bene che ciò che conta è l’ordinario e, al servizio di questa ordinari età, è comprensibile l’anno giubilare. Diversamente non servirebbe a nulla.
L’anno santo, indetto da papa Francesco, non deve essere qualcosa di “straordinario”, ma un aiuto a vivere l’ordinarietà. La misericordia per i credenti nel Dio di Abramo, di Isacco e Giacobbe, nel Dio dei Profeti e nel Dio di Gesù, non è qualcosa di straordinario, ma di ordinario e, allo stesso tempo, anche l’ascolto della parola di Dio nelle Scritture sante. Facciamo in modo che l’anno del giubileo possa essere al servizio dell’ordinario che conta e non dello straordinario che passa e non mette radici.
Matteo Ferrari,
monaco di Camaldoli