Gellini Anna Maria
Due trombe dello Spirito Santo
2015/6, p. 33
Nonostante censure e incomprensioni, hanno servito la Chiesa con sguardo profetico, attenti ai passaggi della storia, alle tensioni politiche, alle disuguaglianze sociali e alle tante povertà. Sono due precursori di papa Francesco.
Mons. Camara e don Mazzolari sulla via della santità
DUE TROMBE
DELLO SPIRITO SANTO
Nonostante censure e incomprensioni, hanno servito la Chiesa con sguardo profetico, attenti ai passaggi della storia, alle tensioni politiche, alle disuguaglianze sociali e alle tante povertà. Sono due precursori di papa Francesco.
La Chiesa brasiliana di Olinda e Recife ha aperto il 3 maggio scorso la fase diocesana del processo di beatificazione di mons. Hélder Câmara. Pochi giorni prima il vescovo di Cremona mons. Lanfranconi aveva comunicato il nulla osta della Congregazione delle cause dei Santi per l’apertura del processo di beatificazione di don Primo Mazzolari.
Mons. Câmara “vescovo della favelas”, don Mazzolari “parroco di frontiera”, con le parole e le opere, sono stati precursori di papa Francesco, esempi viventi di “Chiesa in uscita”; amati dal popolo per la loro fede incarnata nella storia, hanno servito i poveri con passione e coraggio, sempre in difesa delle vittime dell’ingiustizia, della violenza, delle disuguaglianze sociali.
Mons. Câmara
il “ vescovo rosso”
Nato a Fortaleza nel 1909, undicesimo di 13 figli, ordinato sacerdote nel 1931, dom Hélder Câmara è consacrato vescovo nel 1952; nel 1964 – anno del golpe che instaura il regime militare in Brasile – Paolo VI lo nomina arcivescovo di Olinda e Recife, nel Nord-Est, la regione più povera del Paese. Câmara partecipa al concilio Vaticano II, ed è uno dei promotori del “Patto delle Catacombe”, firmato da un gruppo di padri conciliari in maggioranza latinoamericani: una proposta di sobrietà; di rifiuto di privilegi e compromessi con i potenti di turno; di maggior riconoscimento della responsabilità dei laici e del popolo di Dio; di servizio ai tanti tipi di povertà; di impegno per la giustizia e per la promozione umana. Un’unica passione guida mons. Câmara fino alla morte (avvenuta a Recife nel 1999): aiutare concretamente le persone in difficoltà e in sofferenza, dando il massimo impegno per rendere la Chiesa più fedele a quella di Gesù: «Una Chiesa povera per i poveri» dice, anticipando una delle note caratteristiche del pontificato di papa Francesco.
Ben presto dom Hélder viene chiamato il “vescovo rosso": «Quando do da mangiare a un povero mi chiamano santo, ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora mi chiamano comunista».
Servitore
del popolo
Il giorno dell’ingresso ufficiale nella cattedrale di Recife, non vuole essere accolto dentro la cattedrale, ma sulla piazza, in mezzo alla gente. Quella stessa piazza dove un giorno celebrerà la messa dopo una processione popolare: c’era tanta gente in piedi sotto il palco su cui era montato l’altare. Al momento della prima lettura, il cerimoniere invita il vescovo a sedersi sulla sedia a lui riservata. Dom Hélder solleva la sedia e la porta in mezzo all’assemblea a una donna nera povera, con il suo bambino tra le braccia. La invita a sedere, ritorna accanto all’altare e, pazientemente, spiega al cerimoniere: «Sono servitore del popolo non il capo. Non posso stare seduto mentre tutti rimangono in piedi!»
L’impegno di dom Hélder a servizio dei più deboli è quotidiano e instancabile, con prese di posizione coraggiose che gradualmente lo rendono “una figura ingombrante” per i vertici della Chiesa di Roma. Sobrio nel suo stile personale, estremamente sobrio nella sua piccola abitazione vicina alla cattedrale, (dormiva su un’amaca), è amato dalle folle, popolarissimo nelle favelas, tra i più poveri, perché è visto come testimone e messaggero di un’autentica visione cristiana portatrice di speranza sociale.
Mons. Câmara dà voce ai poveri, agli ultimi, a quelli che non hanno diritti nel Brasile dei grandi latifondisti, del capitalismo selvaggio, della dittatura. Nei suoi discorsi va alla radice delle disuguaglianze, per individuare e smascherare le ragioni della povertà. Il suo atteggiamento infastidisce chi vuole assicurare un’attenzione al povero semplicemente in chiave assistenziale evitando coinvolgimenti più impegnativi per cambiamenti radicali. Una frase sintetizza efficacemente il senso profondamente evangelico delle sue battaglie: «La rivoluzione sociale di cui il mondo ha bisogno non è un colpo di Stato, non è una guerra. È una trasformazione profonda e radicale che suppone Grazia divina».
Osare la pace
e la speranza
Nel 1982, dom Hélder Câmara, in occasione del conferimento del premio “Artigiano della Pace” da parte del Sermig, in piazza San Carlo a Torino, pronuncia parole forti in difesa dei “crocifissi” dell’umanità. « Nella misura in cui la violenza si diffonde per il mondo intero e l'odio, oltre che avvelenare menti e cuori, provoca terribili disastri, felice colui che non conserva, dentro di sé, la più piccola goccia di risentimento e adotta, come programma di vita, la preghiera di san Francesco di Assisi: “Signore, fammi strumento della tua pace…”. Noi che vogliamo essere artigiani di pace non dobbiamo perciò aver paura di parlare di argomenti brucianti, di sollevare problemi che tocchino alcuni sul vivo, di rischiare di essere sgraditi e di deludere. Dobbiamo “osare la pace”. Oggi l’umanità è crocifissa tra due estremi, (paragonati ai due bracci della croce): Est e Ovest in permanente tensione e Nord e Sud, con i loro profondi squilibri.»
Insiste poi con forza davanti a quella piazza gremita di gente, che nonostante tutto, «esistono strade che ci portano a sperare contro ogni speranza. Ci sono gesti più espressivi delle parole. Pur essendoci nella parte del mondo nella quale vivo, innumerevoli tristi situazioni da affrontare, non ho alcuna esitazione a consegnare la mia parte del premio a Giovanni Paolo II, perché egli lo destini alla sua amata e sofferente Polonia.» E sa molto bene quanto anche papa Wojtyla non condivida alcune sue linee pastorali; sarà lo stesso papa, nel 1985 in seguito alle dimissioni di dom Hélder per raggiunti limiti di età, a sostituirlo con un vescovo conservatore che metterà a tacere molto dell’operato di mons. Câmara, emarginando i teologi, i preti della diocesi che seguivano la teologia della liberazione, i “collaboratori del vescovo rosso”.
“Ho un sogno”
per la Chiesa
Il vescovo delle favelas chiude l’incontro con il Sermig di Torino confidando un suo sogno: « Noi, della non-violenza attiva, possiamo pensare ad alta voce davanti a tutti, perché non siamo nati per cospirare. Io sogno di vedere la Chiesa di Cristo in America Latina, alimentare nel nostro popolo, attraverso i nostri giovani, la mistica dei figli di Dio e dei fratelli in Gesù Cristo, per creare una autentica integrazione latino-americana, senza imperialismi né esterni, né interni. Dal momento che abbiamo la responsabilità di essere la parte cristiana del mondo povero, chissà che Dio non speri da noi la testimonianza di un continente nel quale, tutti, nella piena conoscenza delle nostre rispettive culture, siamo veramente, un continente di popoli fratelli!... »
Primo Mazzolari
“prete scomodo”
Di famiglia contadina, nato a Boschetto (Cremona) nel 1890, Primo Mazzolari è ordinato sacerdote nel 1914. Dopo una breve esperienza pastorale come collaboratore dei parroci di Spinadesco e Boschetto, allo scoppio della prima guerra mondiale, gli viene affidato il compito di soldato di Sanità all'ospedale militare di Cremona. Chiede poi di andare in prima linea come cappellano. Tornerà nel Cremonese nel 1921, dopo aver seguito, in conseguenza dell'armistizio, il Corpo di spedizione italiano in Alta Slesia.
Tra la poverissima popolazione contadina di Bozzolo e di Cicognara, sull’argine del Po, don Primo si prende cura di ogni persona e di ogni situazione. Assiste alle irruzioni delle bande fasciste di Farinacci e diventa, ben presto, "un prete scomodo": non espone il tricolore in occasione della marcia su Roma; rifiuta di cantare il Te Deum quando Mussolini sfugge all'attentato del 1925; non vuole partecipare alla farsa elettorale del 1929.
La sua coerenza civile e religiosa, le sue omelie e i suoi scritti, rendono don Mazzolari gradito alla popolazione, ma provocano molte incomprensioni tra i confratelli e l'odio dei fascisti. Questi, oltre a sollecitarne l'invio al confino, arrivano a sparare colpi di fucile alla canonica. Don Primo deve poi rendere conto anche al Sant’Uffizio, che lo sospenderà dalla celebrazione della messa e dalla predicazione, quando, nel 1935, pubblica il suo libro Impegno con Cristo, nel quale sostiene una "rivoluzione cristiana" per una convivenza secondo giustizia, in cui realizzare anche l'uguaglianza economica. Dopo l'8 settembre 1943, Don Primo partecipa attivamente alla lotta di liberazione, coinvolgendo i giovani cresciuti secondo i suoi insegnamenti. Arrestato dalla polizia, poi rilasciato, vive in clandestinità fino al 25 aprile del 1945, sottraendosi ai fascisti che avevano deciso di eliminarlo, come avevano fatto ventidue anni prima, nel ferrarese, le squadre di Italo Balbo con il suo amico don Giovanni Minzoni.
Il prete
come buon pastore
Il profilo umano e spirituale di don Mazzolari è caratterizzato da una intensa vita interiore in ascolto di Dio e della sua Parola e da un instancabile incontro con l’uomo, dentro e fuori la parrocchia. Nei gesti e nelle parabole di Gesù, don Primo trova la fonte che origina il “travaglio della sua coscienza” e sostiene le sue scelte che in tante occasioni gli procureranno sofferenza e amarezza. Della sua spiritualità e del suo stile pastorale sono impregnati i suoi scritti, le pagine del diario e alcuni articoli di Adesso, il periodico da lui fondato nel 1949 e censurato dal Vaticano nel 1951. Nel numero di giugno 1949 don Primo scrive: «Non conosciamo più le nostre pecore, non sappiamo chiamarle per nome una a una. Crediamo che possa bastare il generico, mentre c’è un bisogno di essere capiti come siamo e di essere portati a spalla sull’esempio del buon pastore. Ne viene di conseguenza che se non andiamo a cercare le persone dove sono, se non le comprendiamo come sono, se non le amiamo come sono, qualcuna la potremo trapiantare nell’orto del presbiterio, ma la massa resterà fuori anche quando un richiamo spettacolare ce la porterà in processione o in chiesa. La parola è spada e tritolo, che spacca e sommuove, sa urlare e imprecare; è una grazia che bisogna domandare, a costo di finire come di solito finiscono i profeti. Questa parola che non rende, che brucia e consuma chi la porta, è la sola che il popolo può ancora capire, perché l’Evangelo è stato portato sulla terra per essere predicato al popolo».
La Chiesa
è casa
Nell’ascolto della Parola di Dio, Mazzolari rilegge «la più bella avventura», quella del perdono di Dio al figlio prodigo. Proprio la sua rilettura del perdono di Dio gli procurerà non poche sofferenze. Il suo libro, “La più bella avventura” sarà condannato dal Santo Ufficio per «le idee erronee» ma per don Primo segna l’inizio del dialogo con i lontani, sostenuto da una continua distinzione tra errore ed errante, e insegna la tolleranza e la misericordia. Per lui la Chiesa è “la casa” dove Dio torna ad amare continuamente l’uomo e dove si impara che «Dio è amore». La Chiesa come “casa” è vista nelle sue diverse sfumature: «la Chiesa casa del Padre, la Chiesa casa della redenzione, la Chiesa casa della libertà, la Chiesa casa dei poveri, la Chiesa casa della testimonianza».
In questa concezione di Chiesa aperta, attenta e in ascolto, «non c’è spazio né per il clientelismo né per il clericalismo; la sua missione gerarchica, dottrinale e carismatica vi si inizia e vi si fissa, e l’uomo concreto – nome, volto, cuore, fragilità e destino eterno – si innesta e rifluisce nel corpo mistico del Cristo».
Quando nella Chiesa entra una ventata nuova con l’elezione di Giovanni XXIII, le idee di don Primo trovano nuovo respiro. Il 5 febbraio 1959 il parroco di Bozzolo viene ricevuto in udienza privata da papa Roncalli che lo accoglie chiamandolo “la tromba dello Spirito Santo”. Il 12 aprile dello stesso anno don Mazzolari muore, lasciando vivo nella Chiesa il suo dono di profezia e di testimonianza.
Anna Maria Gellini