Chiaro Mario
Un'Africa che cammina
2015/6, p. 25
Con il convegno internazionale intitolato “Africa, continente in cammino” si è cercato di offrire differenti prospettive dal punto di vista della testimonianza, nello spirito del dialogo e della cooperazione, nella consapevolezza che l’Africa è sempre più parte del villaggio globale.
Convegno dei missionari/e comboniani
UN’AFRICA
CHE CAMMINA
Con il convegno internazionale intitolato “Africa, continente in cammino” si è cercato di offrire differenti prospettive dal punto di vista della testimonianza, nello spirito del dialogo e della cooperazione, nella consapevolezza che l’Africa è sempre più parte del villaggio globale.
A scorrere le notizie provenienti dall’Africa, un continente grande tre volte l’Europa, sembra di entrare in una galleria piena di incubi paurosi, rappresentati da migliaia di migranti che trovano la morte sui barconi mentre cercano nuove opportunità di vita, da attentati terroristici a opera di Boko Haram in Nigeria, da esecuzioni di cristiani a opera di fondamentalisti islamici, dalla diffusione di epidemie come quella del virus Ebola ecc. Con tali paure però le società occidentali stanno rischiando di perdere di vista il dinamismo e la qualità del cambiamento del continente “nero”, che intanto è passato dal colonialismo alla nascita di stati indipendenti, dai conflitti etnici all’intervento/ingerenza occidentale, dal recente ingresso nello scenario di nuove potenze economico-politiche alle primavere arabe, dalla crescita della società civile al ruolo delle giovani Chiese. In questo modo l’Africa ha assistito, nell’ultimo secolo, a un’incessante ridefinizione dei parametri della sovranità, della crescita e dello sviluppo. Studi recenti stimano una crescita annua media del prodotto interno lordo del 5% per il prossimo decennio e, nel contempo, si registra l’azione di movimenti che chiedono di ridistribuire queste risorse a vantaggio dei ceti più poveri. Cresce dunque la coscienza di dover iniziare a produrre di più e a godere i frutti di questa produzione, a cominciare dal settore agricolo al quale molti governi riservano appena il 5% degli investimenti, benché sia fonte di vita e di occupazione decente per più della metà della popolazione.
A queste spinte sociali, tese al cambiamento, hanno voluto dare voce e visibilità i Missionari/e comboniani, con un’iniziativa inserita nelle celebrazioni per il 150° anniversario della pubblicazione del Piano per la Rigenerazione dell’Africa”, una visione nata dal cuore di san Daniele Comboni per dare vita ad un’opera di riappropriazione delle risorse, umane e materiali, e delle energie territoriali africane. Con un convegno internazionale intitolato Africa, continente in cammino, si è cercato di offrire differenti prospettive dal punto di vista della testimonianza, nello spirito del dialogo e della cooperazione, nella consapevolezza che l’Africa è sempre più parte del villaggio globale.
Una consegna
per l’Africa
Oggi occorre superare la diatriba tra analisti internazionali ottimisti e pessimisti, per privilegiare un afro-realismo che valorizzi il vissuto della gente, della società civile e delle comunità cristiane: lo hanno affermato di concerto i qualificati relatori che hanno preso parte ai lavori, tra i quali il card. P. Appiah Turkson (presidente del pontificio Consiglio Giustizia e Pace), la parlamentare ghanese Samia Nkrumah (figlia di Nkwame, uno dei padri del panafricanismo), la parlamentare europea Cécile Kyenge, il teologo Martin N’Kafu Nkemnkla, lo scrittore e il regista Cleophas A. Dioma (direttore del Festival dell’ottobre africano).
Raccogliendo tutta la ricchezza di valutazioni e indicazioni, lo storico della pedagogia Fulvio De Giorgi ha parlato di un convegno «che ci ha posti in un crocevia e ci ha chiamati e ci chiama a una svolta. Ci siamo incontrati, ci siamo parlati e abbiamo capito che molte questioni e molti aspetti possono essere ancora approfonditi e discussi, ma una cosa – se c’è stata – non ci può mai più essere: uno sguardo negativo, sfiduciato, dubbioso, catastrofico e triste sull’Africa… Come ci dice papa Francesco nella Evangelii gaudium: «Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri. Questa apertura del cuore è fonte di felicità» (272). Questo è più di un sentimento: è una consapevolezza e, da oggi, da qui, è una consegna».
Con questo spirito, il prof. De Giorgi ha cercato di enucleare le cifre essenziali, le chiavi strategiche di sintesi, partendo sempre dal pensiero di Daniele Comboni: «È il S. Cuore di Gesù che mi ha fatto sormontare tutte le enormi difficoltà per realizzare il mio piano per la rigenerazione della Nigrizia con la Nigrizia stessa». E le parole-chiave per rileggere il convegno sono sembrate proprio queste due: Piano e cuore.
De-colonizzare
i piani di cooperazione
«Siamo chiamati tutti, di ogni continente, a de-colonizzare le nostre speranze, le nostre volontà, i nostri disegni, i nostri immaginari, i nostri sguardi, i nostri piani. E possiamo decolonizzare le speranze, affidandole ad una speranza che è più grande di noi e che ci sorregge nelle nostre fatiche. La de-colonizzazione dello sguardo rende limpido il nostro occhio e ci fa vedere un’Africa che cammina e che cresce (come ha detto la superiora generale delle Comboniane, Luzia Premoli), un’Africa protagonista internazionale, della quale l’Europa può essere partner nei fattori positivi». Diversi qualificati testimoni hanno fatto intravedere «questa New Africa, questo fresco e giovane Rinascimento africano. L’Europa può cooperare a tale rinascimento: una cooperazione significativa, camminando insieme in amicizia. L’Africa degli africani vuole vivere con pienezza la sua vita, accanto a tutti i popoli. Abbiamo allora visto come, superando stereotipi e de-colonizzando lo sguardo, la diaspora e le migrazioni, in tutte le direzioni e a tutto campo, transcontinentali verso tutti i continenti, sono una risorsa. Ciò non significa non vedere che possano essere causate da ingiustizie e squilibri e che si realizzino con grandi sofferenze. Significa però non fissarle per sempre in un orizzonte negativo di morte, ma liberarle e rigenerarle come occasione, come risorsa, come chance per un mondo più plurale e più bello. Le mostre allestite, le proiezioni, i momenti artistici del convegno ci hanno fatto constatare la grande risorsa di bellezza e di creatività estetica che ci viene dalla nuova arte, dalla nuova cinematografia, dalla nuova musica, dalla nuova scultura africane. E la nostra speranza vede così meglio la travatura positiva che si costruisce in un progetto che cresce attorno a noi».
Lavorare intorno a un tale “Piano” richiama anche l’esigenza di “appianare”, cioè colmare i fossati e abbassare i monti mettendo tutti sullo stesso livello. «E qui il discorso si fa esigente. Sappiamo che il discorso di Gesù che Matteo colloca sulla montagna, Luca lo presenta in pianura e con toni più forti (“Guai a voi o ricchi!”). Se siamo sullo stesso piano ci guardiamo direttamente negli occhi: così le ingiuste disuguaglianze diventano evidentemente intollerabili. Entriamo, allora, nella dinamica “appianatrice” del Magnificat: ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Capiamo così che è giusto che gli africani possano controllare le loro economie a beneficio degli africani stessi e che ritrovino la via del panafricanismo. Appianare significa, pure, colmare i fossi, i baratri della corruzione delle élites di governo: riconoscere, cioè, che la democrazia africana deve essere autonoma e nuova, non modellata sulle forme europee, e che, nel suo cammino realizzativo, ci sono luci, ma anche ombre di governi corrotti e dittatoriali, che vi è dunque anche un fallimento delle leadership africane e che, sulla scorta di un nuovo protagonismo positivo delle società africane, bisogna formare i cittadini per migliorare le dirigenze politiche e avere politici disinteressati e anche per avere nei cittadini stessi agenti di trasformazione sociale. “Appianare” significa abbattere le montagne delle inimicizie, degli odi, delle guerre interne, le montagne degli armamenti e cercare sempre tutti di costruire la “strada appianata” della pace e della stabilità. Ecco allora le Afriche, al plurale, verso le quali continua il nostro cammino: l’Africa della giustizia, l’Africa della pace, l’Africa della salvaguardia del creato, l’Africa dei diritti».
«Ma “Piano” ci dice pure che è meglio andare piano (nelle lettere ai suoi missionari, Comboni diceva: “Non abbiate fretta, come altri missionari; voi andate piano, lavorate sul lungo periodo!”). Elogio della lentezza: se vuol dire paziente perseveranza, ascolto vero e discernimento, camminare insieme e non lasciare indietro nessuno. Significa, dunque, una prassi ecclesiologica inclusiva e partecipativa e dal profilo femminile, che si realizza nelle Comunità di base e perciò in una convivialità delle differenze, che supera le ingiuste disuguaglianze. Da più parti si è fatta notare l’importanza della conoscenza storica per superare le ferite delle discriminazioni passate e delle guerre civili più o meno recenti... Ma tutti dobbiamo dirci che, per andare avanti verso strade più pacifiche, occorre parlarsi e cercare insieme una purificazione della memoria e una storia se non condivisa almeno inclusiva dei diversi punti di vista. Ci vuole paziente ricerca, non semplificazioni sbrigative e sommarie: pazienza: andare piano. Anche come Chiesa che riconcilia e che vive come famiglia di Dio dobbiamo, con pazienza, interrogarci sulla storia della salvezza che si dipana nell’oggi di Dio e sulle responsabilità alle quali siamo chiamati».
Ascoltando
il cuore di Cristo
La seconda parola-chiave sottolineata da Fulvio De Giorgi è cuore: il cuore di Cristo. Il cuore ha i due fondamentali movimenti di sistole e diastole. Nel cuore di Cristo questi due movimenti sono l’incarnazionismo e l’escatologismo.
«Da una parte l’Incarnazione: il vangelo che entra e si fa carne di tutte le culture di oggi, per farle fiorire alla liberazione e alla salvezza. Il vangelo entra nei contesti culturali, li assume su di sé: si incultura, si incarna nelle complessità interculturali, nel pluralismo delle identità in evoluzione e dei vissuti, nei confini intellettuali ed esistenziali, nelle culture scartate e degli scartati, nei crescenti meticciati culturali. Oggi il vangelo ha un volto meticcio. E questa incarnazione allora sa scoprire, accogliere e valorizzare tutti i semi del Verbo, ovunque siano: solo così si avrà una vera teologia africana. Una teologia è africana non perché geograficamente si elabora in Africa, ma perché sa accogliere e far fiorire tutti i semi del Verbo sparsi nelle culture e religioni africane viventi, senza escludere nessun territorio culturale, geografico e umano. Questa incarnazione, ovviamente, come ha osservato Cécile Kyenge, celebra il primato della vita. E perciò si oppone e lotta contro il traffico degli esseri umani e contro le nuove schiavitù, cioè contro gli orizzonti di violenza e di morte in cui è Cristo stesso, incarnato nei piccoli, che viene violentato e ucciso. In questa inculturazione col passo dell’incarnazione un grande ruolo e una grande responsabilità ha la comunicazione: i media e il giornalismo. Ciò richiede una crescita in positivo dell’auto-comunicazione dell’Africa e uno sforzo verso l’integrazione digitale-cartaceo dei media missionari e il fare rete, nel rispetto profondo delle persone reali e sempre rendendo visibile e trasparente il positivo che cresce».
Insieme al movimento dell’incarnazionismo, «il cuore di Cristo ha il movimento dell’escatologismo: cioè la capacità di staccarci da ogni ingiustizia, da ogni idolo, da ogni orizzonte unicamente intra-mondano. Noi, tutti, cristiani di ogni paese e di ogni continente, siamo sempre extra-comunitari in questo mondo (siamo nel mondo, ma non siamo del mondo). Senza incarnazionismo il cuore è vuoto di sangue umano, ma senza escatologismo non pulsa di fede ultraterrena. Senza incarnazionismo avremmo una Chiesa senza mondo (che ci porta a un mondo senza Chiesa), avulsa dalle masse umane, senza escatologismo, avremmo una Chiesa mondanizzata e mondana, incapace di essere libera e indipendente per interpellare le masse… Il Regno di cui siamo cittadini, la nostra vera patria, non è di questo mondo».
Alla luce delle prospettive emerse dal convegno dei Comboniani, l’augurio è che papa Francesco, il quale ha annunciato una sua probabile visita nella Repubblica Centrafricana e in Uganda entro il 2015, con la sua capacità di testimonianza e sincerità, con la sua vicinanza ed empatia con i poveri, offra davvero a questo continente uno stimolo straordinario per ripartire dal cuore misericordioso del Signore.
Mario Chiaro