Nicolini Zani Matteo
Luoghi di incontro e dialogo
2015/4, p. 40
Indirizzando il 21 novembre 2014 una lettera alle religiose e ai religiosi in occasione dell’anno della VC, papa Francesco ha dedicato parole incoraggianti e responsabilizzanti al dialogo interreligioso monastico nel quadro della vita religiosa delle comunità cristiane.

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MONASTERI E dialogo interreligioso
Luoghi di incontro
e dialogo
Indirizzando il 21 novembre 2014 una lettera alle religiose e ai religiosi in occasione dell’anno della VC, papa Francesco ha dedicato parole incoraggianti e responsabilizzanti al dialogo interreligioso monastico nel quadro della vita religiosa delle comunità cristiane.
Non possiamo poi dimenticare che il fenomeno del monachesimo e di altre espressioni di fraternità religiose è presente in tutte le grandi religioni. Non mancano esperienze, anche consolidate, di dialogo intermonastico tra la Chiesa cattolica e alcune delle grandi tradizioni religiose. Auspico che l’Anno della vita consacrata sia l’occasione per valutare il cammino percorso, per sensibilizzare le persone consacrate in questo campo, per chiederci quali ulteriori passi compiere verso una reciproca conoscenza sempre più profonda e per una collaborazione in tanti ambiti comuni del servizio alla vita umana. Camminare insieme è sempre un arricchimento e può aprire vie nuove a rapporti tra popoli e culture che in questo periodo appaiono irti di difficoltà.
Queste parole ci interpellano innanzitutto a “valutare il cammino percorso” per poter discernere “quali ulteriori passi compiere” nel campo del dialogo interreligioso monastico, un cammino che ha il suo punto di partenza, il suo motore principale in quell’evento ecclesiale che è stato il Concilio Vaticano II.
Oggi infatti non potremmo nemmeno pronunciare questa espressione “dialogo interreligioso monastico” se il Concilio Vaticano II non avesse aperto la via a quello straordinario cammino di riflessione teologica e di pratica di dialogo che, seppure a fatica e non senza contraddizioni e battute d’arresto, ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni. Questa “novità” che è stato il Concilio Vaticano II rendeva nuovamente trasparente il vero volto della Chiesa: un volto, come quello del suo Signore, sempre rivolto verso un “tu”, sempre aperto a un altro da sé da cui attende una risposta d’amore; una Chiesa che desidera far risplendere il volto di un Logos che è sempre un dia-Logos, una “Parola tra” Dio e l’uomo, una Parola che «era presso Dio» (Gv 1,1) ma che «venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14) e che instancabilmente cerca un dialogo con l’uomo.
Il Concilio Vaticano II ha in questo senso ringiovanito, rinfrescato, reso più trasparente il volto della Chiesa proprio perché ne ha liberato, ritrovandole nella loro freschezza, le fonti “tradizionali” di cui vive. Ha rivitalizzato la Chiesa, non perché ha creato una Chiesa nuova rompendo con la tradizione, ma perché ha rimesso in moto quelle dinamiche vitali insite nella fede e nella vita cristiana che, nella sua natura e nelle sue forme, porta in sé – oserei dire – il “germe”, il “gene” del dialogo.
In questo contesto la vita monastica, che nient’altro è che una particolare forma di vita cristiana, di esplicitazione dell’unica vocazione battesimale, non poteva non “vibrare all’unisono” con questa riscoperta del volto dialogico della vita cristiana e, di conseguenza, riscoprire che anch’essa porta in sé il gene del dialogo, che anche il proprio vero volto è quello di un corpo comunitario che non teme, bensì accoglie con spirito di ringraziamento, l’alterità – di qualsiasi natura, compresa dunque anche l’alterità religiosa e spirituale – e con essa si pone in dialogo.
Questo intervento vuole dunque testimoniare come la riflessione teologica conciliare in tema di dialogo interreligioso e la prassi pastorale che ne è scaturita, abbiano risvegliato e approfondito una riflessione spirituale e una pratica esperienziale anche in campo monastico, facendo del cuore del monaco un “luogo” di incontro interreligioso e del monastero uno spazio di ospitalità interreligiosa.
La Chiesa si fa dialogo
Il Concilio apriva la strada, pertanto, a quel processo di riformulazione dell’identità cristiana in un contesto culturale, sociale, religioso nuovo, in cui – tra le altre cose – un aspetto emergeva con preponderante evidenza: il pluralismo, in diverse e variegate forme, tra cui quello religioso. E il Concilio affermava una volta per tutte la risposta della Chiesa, della comunità cristiana, e dunque anche della comunità monastica, al pluralismo: «la Chiesa si fa colloquio», si fa dialogo, desiderosa, in obbedienza alla volontà di Dio, di “sporgersi” fuori dai propri confini per incontrare chi, su cammini diversi dello Spirito, cerca di scrutare il mistero dell’uomo e di Dio; la Chiesa «nulla rigetta di quanto è vero e santo» nelle altre religioni, e anzi «esorta i suoi figli affinché con prudenza e carità … sempre dando testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e sociali che si trovano in esse».
La dichiarazione conciliare Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (28 ottobre 1965), frutto di un lungo e laborioso lavoro teologico, ha aperto e orientato la Chiesa verso orizzonti nuovi, gli orizzonti del dialogo interreligioso, e ha definitivamente sancito la «scoperta del sacramento dell’alterità». Al cuore di questo documento vi è un’affermazione dalla portata straordinaria dal punto di vista teologico e spirituale: la profondità spirituale dell’altro, qualora «vera e santa», cioè autentica, mostra «un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini». Come dunque non porsi in ricerca, in contemplazione di questi raggi della Verità? E, in particolare, come i monaci non potevano (e non possono) non sentire qui un appello a scrutare quei raggi per arrivare forse un giorno a fare l’esperienza del grande padre Benedetto, quella di contemplare la varietà del mondo e delle esperienze spirituali nella luce di un unico raggio di sole?
Il dialogo si fa condivisione spirituale
Significativo è ricordare che questo clima ecclesiale aperto al dialogo era stato in realtà già preparato proprio dal movimento missionario monastico precedente il Concilio e, in particolare, dalle esperienze indiane di alcune grandi figure quali Jules Monchanin (Svami Paramarubiananda, 1895-1957) e Henri Le Saux (Svami Abhishiktananda, 1910-1973), che ebbero notevole influenza sulla teologia di Karl Rahner, Henri de Lubac e Yves Congar, dai quali le affermazioni riguardo alle religioni non cristiane contenute nei documenti conciliari sono in gran parte debitrici.
Il mondo monastico, nel suo slancio missionario, aveva iniziato a interrogarsi sullo stile di presenza dei monasteri in terra di missione e, in particolare, sul rapporto con gli esponenti delle altre religioni là incontrate. Un organismo nato negli anni ‘60 per aiutare le nuove fondazioni monastiche, l’AIM (Aide à l’implantation monastique, oggi Alliance Inter-Monastères) organizzò due congressi monastici, uno a Bangkok (Thailandia) nel 1968 e uno a Bangalore (India) nel 1973, in cui i monaci cominciarono a percepire più chiaramente che non può esservi missione senza dialogo con le altre religioni. Per molti dei partecipanti fu il primo concreto contatto con monaci di altre tradizioni religiose, in particolare induisti e buddhisti.
Tra i partecipanti del congresso di Bangkok vi furono anche Thomas Merton (1915-1968), accidentalmente morto proprio durante la conferenza, e Jean Leclercq (1911-1993), che per la prima volta incontrò il monachesimo buddhista e si prese a cuore la causa dei contatti intermonastici. In quest’occasione il card. Amleto Giovanni Cicognani, segretario di Stato, fece pervenire, da parte di Paolo VI, un telegramma ai superiori dell’ordine benedettino per sottolineare l’importanza di un dialogo con le religioni dell’Asia, nello spirito del Vaticano II. Il messaggio dice:
“Sua santità, incoraggiando paternamente superiori monastici riuniti Bangkok studio problemi monachesimo Estremo Oriente, considera con favore questa occasione avviare o approfondire contatti con monachesimo non cristiano nello spirito recenti documenti conciliari”.
Meno spettacolare di quello di Bangkok, il congresso di Bangalore offrì però ai partecipanti la possibilità di una pratica effettiva di dialogo con monaci non cristiani e di esperienza delle loro vie meditative, tanto che l’abate Cornelius Tholens non esitò a definirlo «pentecoste del mondo monastico».
Il successo di quell’incontro spinse il card. Sergio Pignedoli, presidente dell’allora Segretariato per le religioni non cristiane (creato nel 1964 da Paolo VI, l’attuale Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso) a scrivere nel giugno 1974 una lettera ufficiale all’abate primate dei benedettini, Rembert Weakland. Questa lettera, composta insieme al segretario mons. Pietro Rossano, invitava i monaci e le monache a sviluppare il dialogo interreligioso all’interno delle diverse famiglie monastiche, in quanto il monachesimo – si dice nella lettera – «può essere come un ponte tra la spiritualità cristiana e le altre spiritualità».
Ci vollero alcuni anni per organizzare la nuova struttura di comunione e di dialogo. L’AIM organizzò vari incontri, di cui due molto importanti nel 1977, uno negli Stati Uniti (Petersham) e uno in Belgio (Loppem), da cui nacquero due sottocommissioni interne all’AIM, con l’incarico specifico di occuparsi del dialogo interreligioso: una per l’America del Nord e il Canada (MID = Monastic Interreligious Dialogue) e una per l’Europa (DIM = Dialogue interreligieux monastique). Questo permetteva di far crescere nei monasteri l’interesse e la sensibilità per il dialogo interreligioso, visto come un’attività a servizio delle comunità. Il 1978 ha segnato dunque l’inizio vero e proprio del DIM, anche se inserito nell’AIM.
Successivamente, nel 1994, il congresso degli abati della confederazione benedettina riconobbe il DIM come segretariato a se stante, distaccandolo dall’AIM, con i seguenti scopi: a) sostenere l’impegno dei monaci e delle monache che si applicano al dialogo con le altre religioni; b) promuovere incontri con i monaci che professano questo stile di vita nelle altre religioni; c) promuovere riflessioni teologiche e spirituali, e programmare esperienze di condivisione di vita.
Il DIM è oggi presente in quattro aree continentali: America settentrionale, Europa, India e Sri Lanka, Australia. In Europa vi sono otto commissioni ripartite secondo criteri linguistici o territoriali, le quali comprendono un numero variabile di persone-contatto, che tengono vivo l’interesse del dialogo interreligioso monastico nelle rispettive comunità di appartenenza. La commissione italiana ha sede ad Assisi, nel monastero benedettino di San Pietro e ha un suo sito internet quale organo di informazione e di collegamento.
Se il dialogo è al centro della riflessione magisteriale dal Concilio in poi, il dialogo intermonastico inizia a essere esplicitamente evidenziato come un contributo proprio al dialogo interreligioso solo negli anni successivi al Concilio. Nella sua allocuzione del 1984 al Segretariato per le religioni non cristiane, Giovanni Paolo II ha dichiarato:
«Tutti i cristiani sono chiamati al dialogo. Se la specializzazione di alcuni è assai utile, l’apporto di altri è un contributo notevole. Penso in particolare al dialogo intermonastico e di altri movimenti, gruppi e istituzioni».
Due documenti successivi del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso (Dialogo e missione, 1984 e Dialogo e annuncio, 1991) hanno definito più precisamente tale contributo in rapporto ad altre tre: accanto a un dialogo della vita, a un dialogo delle opere e a un dialogo degli scambi teologici, vi è un dialogo dell’esperienza religiosa, in cui «uomini radicati nelle proprie tradizioni religiose condividono le loro ricchezze spirituali, per esempio per ciò che riguarda la preghiera e la contemplazione, la fede e le vie della ricerca di Dio o dell’assoluto».
Tale accento posto sul dialogo dell’esperienza spirituale fu anche il frutto di un’evoluzione nella comprensione del dialogo interreligioso monastico all’interno del DIM stesso. A partire dalla fine degli anni ‘70 tale concezione del dialogo prese le distanze dal suo obiettivo strettamente missionario, per allargarsi a orizzonti più profondi e disinteressati, a servizio della Chiesa universale e della vita monastica stessa. Questo iniziò a risultare chiaro in un testo non pubblicato del 1979 dell’abate Tholens:
«Si abbandona la via apologetica e missionaria comune, e si apre una nuova prospettiva: non quella di un nuovo metodo missionario, ma quella di vivere insieme ai membri di altre religioni e di condividere quello che abbiamo in comune!»
Il mondo monastico prese progressivamente coscienza del suo ruolo privilegiato nel dialogo in profondità. Laddove un dialogo condotto unicamente a livello dottrinale e teologico ha molte possibilità di finire in un vicolo cieco, la capacità dei monaci di dialogare a un livello profondo con le altre spiritualità dimostra che l’esperienza spirituale è un terreno favorevole e fecondo per un dialogo riuscito. Come confermava mons. Rossano in un suo scritto del 1981:
«Tutto quello che può servire per l’edificazione, tutto ciò che può aiutare ciascuno a raggiungere le radici dell’esperienza dell’altro e il punto da cui è partito […], tutto questo può far parte di un dialogo fecondo che soltanto i monaci sono in grado di fare con i loro fratelli, gli “spirituali” non cristiani. Ed è un grande servizio che possono recare alla Chiesa e al mondo».
E l’Italia? La prima esperienza che in Italia segnò l’apertura dell’ambiente monastico al monachesimo non cristiano fu un convegno interreligioso sulla vita monastica, organizzato all’abbazia benedettina di Praglia dal 3 all’8 ottobre 1977, per iniziativa dell’Istituto studi asiatici del PIME (Pontificio istituto missioni estere) e dei monaci di Praglia. Si trattava di un’iniziativa assai originale di dialogo interreligioso, tale da dover essere considerata la prima del genere in Italia, in quanto non veniva organizzato «uno dei numerosi confronti teologici tra cristianesimo e religioni in non cristiane», bensì «un’esperienza di vita comune tra monaci orientali – buddhisti e indù – e qualificati monaci cristiani», un incontro «non finalizzato al confronto teologico, ma voluto principalmente per avvicinare forme così diverse di vita, di preghiera, di meditazione, eccetera, allo scopo di far prendere coscienza a tutti delle ricchezze spirituali che vi si racchiudono».
In seguito e come conseguenza di questo convegno, gli stessi organizzatori promossero una nuova iniziativa: la visita, nel 1979, ad alcuni centri indù e buddhisti in India da parte di un piccolo gruppo di monaci cristiani italiani. Uno dei partecipanti, il monaco silvestrino Antonio Iacovone, così concludeva il suo diario di viaggio:
«Orizzonti sconfinati si sono aperti nel mio animo. Il mondo misterioso e affascinante del monachesimo non cristiano dell’oriente lo abbiamo appena sfiorato, l’“impressionante patrimonio” religioso dell’India non cristiana lo abbiamo appena intravisto; ma nell’India non cristiana ci è parso molte volte di scorgere quegli “innumerevoli germi del Verbo” e quella “autentica preparazione evangelica” di cui parla la Evangelii nuntiandi. Che a portare a compimento quei germi e quella preparazione evangelica, lo Spirito non voglia servirsi anche e in modo speciale del monachesimo cristiano più genuino? Il dialogo iniziato lascia bene a sperare.
Un altro dei partecipanti, l’abate generale dei monaci benedettini silvestrini Simone Tonini, che in Italia si è mostrato per molti anni uno dei monaci più aperti al dialogo interreligioso a causa della presenza di fondazione monastiche silvestrine in India e Sri Lanka e personalmente più coinvolto in esso, a poca distanza avrebbe partecipato a un’altra esperienza interreligiosa; un’esperienza, per utilizzare le sue stesse parole, che andava «molto più in là» ed era «assai più profonda di quel pur indimenticabile viaggio» in India. Questa volta si trattava dell’incontro in Giappone con il monachesimo buddhista zen, attraverso la partecipazione al secondo scambio spirituale tra monaci cristiani europei e monaci zen giapponesi, avvenuto nell’ottobre del 1983.
Nel frattempo un primitivo interesse per il dialogo interreligioso monastico in Italia si registra altresì, a partire dagli anni ‘80, grazie agli impulsi dati da alcuni monaci stranieri residenti a Roma, nelle diverse curie generalizie delle congregazioni benedettine: tra essi va almeno menzionato padre Mayeul de Dreuille, monaco dell’abbazia francese de La Pierre-qui-Vire. La commissione italiana è nata ed è stata riconosciuta ufficialmente il 10 novembre 1995, in occasione dell’incontro della CIM (Conferenza italiana monastica) a Collevalenza, che nominò coordinatore padre Cipriano Carini (rimasto in carica fino al 2010). Attorno a lui si è via via formato un piccolo gruppo di monaci e monache italiane che ha contribuito al dialogo sensibilizzando le comunità, organizzando convegni monastici interreligiosi, promuovendo visite e incontri interreligiosi.
Gettando lo sguardo all’evoluzione del dialogo interreligioso monastico, due aspetti hanno progressivamente assunto un posto rilevante nella prassi dialogica dei monaci.
Primo aspetto, l’esplorazione, ed eventualmente l’assunzione, di pratiche di meditazione orientale, lo yoga, il vipassana e lo zen in particolare. Il contatto con altre spiritualità diverse da quella cristiana aveva infatti inevitabilmente condotto alcuni monaci a spingersi fino al confronto con certe pratiche di meditazione orientali: questione molto complessa e articolata, su cui non possiamo soffermarci qui. Desidero solo sottolineare come nei primi anni ‘90 il DIM ha dato un significativo contributo alla riflessione su questo tema, elaborando il documento Contemplazione e dialogo interreligioso. Riferimenti e prospettive tratti dall’esperienza dei monaci (1993).
Secondo aspetto, legato al primo: la condivisione di vita e l’esperienza intermonastica concreta. I monaci sono coscienti che non vi può essere vero incontro con le forme di vita, le spiritualità e le pratiche meditative orientali senza svilupparne una conoscenza pratica. Si fa strada così, nel DIM, la consapevolezza della necessità di sviluppare la dimensione dell’ospitalità intermonastica, ospitalità data e ricevuta. Iniziano così, dal 1979, programmi di scambio con monasteri giapponesi e, dal 1982, con monasteri tibetani, che permetteranno a diversi monaci e monache europei e americani di sperimentare il dialogo non solo a livello di un semplice scambio intellettuale, bensì anche a livello di esperienza vissuta, di vita condivisa. Il dialogo interreligioso monastico è, in essenza, un dialogo di vita, non soltanto di teorie, poiché coinvolge l’esperienza esistenziale di coloro che ne prendono parte. Non è un’opera, un’attività che si aggiunge alle altre ma una condivisione di vita, cioè una condivisione di se stessi.
Il dialogo monastico è una condivisione silenziosa e orante dei rischi, delle tentazioni, delle gioie e delle sofferenze di altri monaci nella loro ricerca dell’Assoluto. È questo atto comune di condivisione che chiamo “dialogo dell’immersione contemplativa”.
Il monastero si fa spazio per il dialogo
Superfluo ricordare in questa sede la centralità, anzi l’intima connessione tra vita monastica e ospitalità. Il modello di quest’ospitalità è biblico: il riferimento “antico” è Abramo, che offrendo ospitalità ai tre viandanti stranieri a Mamre accolse il Signore stesso (cf. Gen 18,1-16; Eb 13,2); il riferimento “nuovo” è Cristo stesso, come ben afferma la Regola di Benedetto:
«Tutti gli ospiti che arrivano siano accolti come Cristo, perché egli stesso dirà: «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25,35). A tutti si renda l’onore dovuto, «soprattutto ai fratelli nella fede» (Gal 6,10) e ai pellegrini. Quando dunque viene annunciato un ospite, gli vadano incontro il superiore e i fratelli con tutte le premure richieste dalla carità … Si adori in essi [gli ospiti] il Cristo, perché è lui che viene accolto … [I fratelli] dicano questo versetto: «Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, in mezzo al tuo tempio» (Sal 47,10).
L’ospitalità preserva il monastero dal divenire autoreferenziale, autosufficiente, ripiegato su di sé. L’ospitalità rende il monastero un luogo di incontro di cercatori di Dio: il monaco e l’ospite; ne fa una tappa nel cammino comune verso il Regno, in cui il monaco si fa vicino a tanti compagni di strada, accettando di condividere il tratto di strada che essi vorranno, senza trattenere nessuno.
Questo è lo stile dell’ospitalità che in monastero cerchiamo di praticare e che può divenire un “modello” per l’ospitalità come forma fondamentale del dialogo, anche quello interreligioso. Praticando l’ospitalità, l’estraneo da potenziale nemico (hostis) diventa ospite (hospes), e dunque potenziale amico e compagno di strada: dunque l’ospitalità è un luogo di conversione reciproca, di “rivoluzionaria” trasformazione interiore, che ci conduce tutti – ospitato e ospitante – su nuovi e più fecondi cammini dello spirito.
Il monaco è colui che fa della sua vita una continua conversatio morum (cf. RB 58,17) e un’incessante conversatio cordis, una quotidiana ricerca di conversione della propria condotta e del proprio cuore, insieme a una grande umiltà, quella propria del cercatore. Come monaci coinvolti nel dialogo interreligioso ascoltiamo con orecchio attento la lezione di Panikkar a questo proposito:
«Il dialogo richiede di per sé una specie di conversione interiore […] Lotto per la verità e posso anche credere di aver trovato la verità nella mia religione. Ma non sono il solo cercatore della verità. Se sono umile nella mia ricerca – cioè onesto –, non solo proverò rispetto per la ricerca degli altri, ma persino mi unirò a loro, non solo perché quattro occhi vedono meglio di due, ma per un motivo più profondo: gli altri non sono semplicemente cercatori di verità, ma fonti di conoscenza».
«Sì, da Dio abbiamo ricevuto anche gli altri, anche i cercatori che camminano su altre vie religiose, e noi cristiani andiamo verso gli uomini di altre religioni con simpatia e desiderio di ascoltare e di imparare. E così impariamo che convertendoci agli altri ci convertiamo ancora nuovamente e sempre al Vangelo.
Se l’ospite è sempre, in un modo o nell’altro, un inviato di Dio, lo è ugualmente per la sua esperienza religiosa … L’incontro con un rappresentante di un’altra religione in un ambiente spirituale può stimolare la nostra stessa fede. Sì, il nostro Dio ha qualche cosa da dirci per mezzo di uomini e donne di altre religioni».
L’ospitalità nei confronti di monaci di altre tradizioni religiose è un mutuo arricchimento attraverso la condivisione dei rispettivi tesori spirituali. Questo è ciò che il DIM vive da alcuni anni, attraverso l’esperienza di scambi monastici con monaci di altre tradizioni religiose. Dal 1979 il DIM europeo ha organizzato, in collaborazione con l’Istituto di studi zen dell’Università Hanazono di Kyoto, degli “Scambi spirituali est-ovest” tra monaci cristiani europei e americani e monaci zen giapponesi, con la possibilità di soggiorni monastici di alcune settimane in monasteri cristiani in Europa e in monasteri zen in Giappone.
Ricevendo nel settembre del 1987 un gruppo di monaci zen che vennero in Europa per il terzo scambio spirituale con monaci cristiani, papa Giovanni Paolo II si rivolgeva ai monaci che avevano la Regola di Benedetto come riferimento sottolineando come proprio l’ospitalità monastica e, attraverso di essa, un “profondo scambio a livello spirituale”, siano i contributi specifici dei monaci al dialogo interreligioso.
Spererei che questi incontri continuino nel futuro […] Sono felice che una Commissione per il dialogo monastico interreligioso porti avanti questo lavoro in stretto contatto con il Segretariato per i non cristiani. Il vostro contributo specifico a questa iniziativa non consiste solo nel mantenere in vita un dialogo esplicito, ma anche nel promuovere un profondo incontro spirituale, poiché la vostra vita, dedicata in modo speciale al silenzio e alla preghiera, è una testimonianza di vita comunitaria. Molto potete fare attraverso l’ospitalità. Aprendo le vostre case e i vostri cuori, […] voi seguite bene la tradizione del vostro padre spirituale, san Benedetto. Con i vostri fratelli monaci che vengono da oltre oceano e da altre tradizioni religiose voi applicate il bel capitolo della Regola sull’accoglienza degli ospiti. Facendo così offrite uno spazio in cui può avere luogo un incontro di menti e di cuori, un incontro caratterizzato da un condiviso senso di fratellanza nella famiglia umana, che apre la strada di un dialogo sempre più fecondo».
L’ultima edizione di tali scambi, la dodicesima, si è tenuta in settembre 2011 in Giappone; vi ha partecipato un piccolo gruppo di monaci e monache, tra cui anche chi scrive.
Dopo che nel 1987, per la prima volta, un monastero italiano – quello di Camaldoli – ospitò tre monaci zen giapponesi facenti parte di un grande gruppo giunto in Europa per il già menzionato terzo scambio spirituale est-ovest, nel 2003 un gruppo di monaci e monache zen giapponesi è venuto anche in Italia, ospitato nei monasteri di Praglia, Camaldoli, Noci e San Giulio d’Orta (no). Questa pratica di ospitalità interreligiosa sta dischiudendo alle nostre comunità monastiche nuovi sentieri di comunione spirituale prima imprevisti…
A conclusione, ripeto semplicemente l’augurio che l’abate primate Jerome Theisen esprimeva al nascente gruppo del DIM italiano vent’anni fa:
«Mi auguro che anche per l’Italia il lavoro progredisca e che i monasteri si aprano a un lavoro univoco che possa progredire nel tempo e portare quei frutti nati dallo Spirito, che semina con infinita larghezza in ogni uomo e in ogni comunità».
Matteo Nicolini-Zani
monaco di Bose
coordinatore DIM Italia