Con Gesù compagno di viaggio
2015/4, p. 19
La storia di Teresa di Gesù (1515-1582) continua, a distanza di cinquecento anni (1515-2015), ad attraversare il nostro tempo con i colori forti della sua esistenza e l’audacia della sua esperienza.
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V centenario della nascita di s. Teresa d’ Ávila
con gesùcompagno di viaggio
La storia di Teresa di Gesù (1515-1582) continua, a distanza di cinquecento anni (1515-2015), ad attraversare il nostro tempo con i colori forti della sua esistenza e l’audacia della sua esperienza.
Santa Teresa di Gesù, Teresa de Cepeda y Ahumada, nasce ad Avila (Spagna) il 28 marzo 1515 da Alonso e Beatrice. La sua famiglia appartiene alla piccola nobiltà costruita a forza di commercio e disponibilità di denaro, grazie all’intraprendenza del nonno paterno, Juan Sanchez, un importante mercante di stoffe a Toledo.
Nella Spagna
del Cinquecento
Tutti gli spagnoli, in quei primi anni del Cinquecento, vissero e parteciparono, a titolo diverso, a quel grande fermento ecclesiale, culturale e politico intriso di identità e sospetti. Tutti si sentirono parte di quell’espansione del Regno di Spagna su cui “non tramontava il sole”, sebbene questo comportò una serie ininterrotta di guerre che arricchirono e stremarono la Spagna. Tutti respirarono quel nuovo umanesimo spagnolo fatto di intraprendenza letteraria, nuove e prestigiose università (Salamanca e Alcalà de Henares), fiorente teologia, rinnovamento spirituale, sebbene la dimensione sociale lasciasse già intravvedere un certo decadentismo, probabilmente legato agli eccessi del potere politico ed economico.
Teresa visse respirando quel clima di entusiasmo e di tensioni, dentro una società di garantiti e di esclusi. Introdotta alla preghiera e alle letture dei romanzi cavallereschi, resta affascinata da quel mondo d’amore e d’avventura, è educata a trattare amichevolmente con tutti, ma sa che il “dover piacere” sempre falsa l’esistenza. Quando, dodicenne, Teresa perde la madre, rimane disorientata. Si ammala di una malattia rara, forse in parte psicosomatica. Intanto i suoi fratelli, dinanzi al declino del patrimonio familiare e le scarse prospettive di futuro, iniziano a partire per le Americhe in cerca di fortuna e gloria. Quando parte l’amato fratello Rodrigo, Teresa si decide a fare anche lei la sua scelta e, il 2 novembre 1535, entra nel monastero delle Carmelitane dell’Incarnazione, nella città di Ávila.
La conoscenza sta
tutta in uno sguardo
La sua vita è segnata da un fatto, l’impatto con l’umanità di Cristo, che diventa un punto di snodo fondamentale, il “vivo già fuori di me”, l’evento che traccia come un incrocio esistenziale e ne determina un prima e un poi: il primo segmento va dal 1515 al 1554, mentre il secondo dal 1554 al 1582.
Nel primo tratto del suo cammino, Teresa vive la sua vita in aperto contrasto perché il suo mondo è quello degli indecisi, di chi si sente un’aquila e continua a frequentare praterie, con uno sguardo schiacciato su se stessa, incapace di vedere l’oltre, dentro, senza sapere veramente di sé e di Dio: “Vivevo una vita piena di sofferenze: da una parte Dio mi chiamava, dall’altra io seguivo il mondo”.
Dal 1554 al 1582, Teresa nasce di nuovo, sarà un “libro nuovo”, passa dalla fiducia in se stessa e dalla volontà di fare al confidare in Lui, al lasciarsi fare da Dio. “Confidare”, infatti, è cedere il protagonismo a Dio, aprirsi alla sua azione, alla conversione, alla “resa”.
Teresa approda a questo punto perché, nel suo essere “andariega” (camminatrice, “vagabonda”), sperimenta le stesse ansie e i problemi di coloro che erano in viaggio come lei, la fatica di quella carovana umana di cui Teresa si sente parte, perché lei ha imparato a non viaggiare da sola, a non considerarsi migliore, ma a cercare la luce e amare intensamente le persone. In questo viaggio, Teresa ha imparato a incontrare l’umanità povera e ha scoperto di essere lei stessa spogliata di tutto, solo dopo scrive per coloro che si accalcano intorno a lei. Ora, e solo ora, può raccontarsi perché ha scoperto il principio trasformante della sua vita, perché la prima compassione l’ha sperimentata su se stessa, lasciandosi guardare da un Cristo “muy llagato” (molto piagato), da quel brandello di umanità, devastata per amore dal non amore.
Teresa si sente guardata e ha una visione altra di Dio, di se stessa, degli altri. In questo lasciarsi guardare visse la grazia di cambiare la direzione dello sguardo, con tutto il peso della Sua redenzione per lei, “perché rappresentava bene ciò che sopportò per noi”.
“Conosciti in me”, furono queste le parole interiori che Teresa percepì in quell’impatto con l’umanità di Gesù, le parole che la portarono a comprendere che solo “Cristo svela pienamente l’uomo a se stesso”. Tutta la sua esistenza, da quel momento in poi, ruotò intorno a questa verità che rappresenta come un capovolgimento della concezione greco-occidentale dell’autoreferenzialità dell’io, perché nella antropologia teresiana l’io non si conosce concentrandosi su se stesso, in una forma accanita di perforazione, perché questo produce solitudine, autoreferenzialità, annichilimento; ma nemmeno si realizza questa conoscenza nel considerare semplicemente che “Non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu”, perché non basta affermare la relazione come dimensione intrinseca all’esistenza di ogni uomo se questa visione lo priva dell’apertura alla trascendenza, consegnandolo all’inconoscibilità del “Tu”. Teresa è convinta, invece, che la conoscenza dell’io viene da un “Tu”, da Dio e si riconosce nel “tu” di Gesù Cristo, l’uomo-Dio.
“Conosciti in me”, è l’urgenza che Teresa percepisce nell’impatto con l’umanità di Cristo alla colonna. L’esperienza di lasciarsi guardare da Cristo e iniziare a conoscersi in Lui, ebbe un impatto così forte che fu come la trasfigurazione del desiderio, segnò di fatto il passaggio dal soggetto psichico a quello spirituale (pneumatico), alla nascita dell’uomo nuovo. Teresa avvertì in quel momento il cambio radicale della sua relazione con Dio dove, più che sentirsi cercatrice di Dio, si scoprì incontrata ed amata da Lui, esortata a vivere in modo diverso, “vivo, però non più io, ma vive in me Cristo” (Gal 2,20).
In quell’incontro senza maschere, Teresa sperimentò che ogni storia umana, anche la sua, ha attinenza con la vita di Cristo, perché Dio si è fatto carne (Gv 1,14) ed ha assunto, come Dio, tutta la condizione umana: pianto, dolore, incomprensione, gioia, festa, compagnia. Tutta la polifonia dell’umano è in Dio, da quando l’Unigenito ha assunto la condizione degli uomini; di tutto si è fatto carico, anche di ciò che l’uomo non vede o non vuole vedere: il peccato.
Questo passaggio è fondamentale per capire l’esperienza vissuta e narrata da Teresa nei suoi scritti, dove la storia umana e la storia della salvezza coincidono, a saperne leggere l’intreccio. Ella sa che l’uomo è un essere malato, annichilito, ma ora ha appreso, per esperienza e grazia, che solo quello sguardo d’amore di Cristo lo potrà curare, come ha curato lei, e per questo propone un cammino che apra all’esperienza più alta della dignità e della bellezza della persona umana.
Il cielo
è dentro di te
Tutto il “Castello interiore” è una spiegazione ampia e accurata di come l’uomo possa ritrovare “in Gesù Cristo il nuovo umanesimo”, di come possa venir fuori da quello stato di bestialità in cui si trova, sbattuto fuori di casa, pur essendo proprietario del “Castello”.
Il “Castello” non lo attrae più perché lo ha abbandonato e oscurato, perché preferisce stare “sui camminamenti di ronda”, quasi riducendosi a parlare con le bestie, mentre potrebbe parlare “nientemeno che con Dio”. Dramma nell’uomo è, dunque, quello di essere dimentico della sua bellezza e grandezza, perché non sa più di essere inabitato da Dio e quando gli sovviene il pensiero dell’Eterno, lo pensa distante, contro.
Tuttavia, nonostante questa condizione miserevole, Teresa è convinta che ogni pessimismo sull’uomo, come ogni indebita esaltazione, siano fuori luogo. Il fondamento biblico gli dà certezza che Dio non ce la fa proprio a prendere le distanze dall’uomo, ma continua a “crearlo”, perché se il peccato è stato come una secchiata d’acido sul volto dell’uomo, tanto da renderlo irriconoscibile nella somiglianza, questo però non ha intaccato l’immagine, quell’originaria identità della creatura. Per questa ragione tutto il “Castello interiore” è un percorso mistagogico, didattico, una dettagliata spiegazione di come prenderne possesso.
La sublime avventura proposta all’uomo non è quella di entrare di nascosto nel “Castello”, ma di entrare dalla porta, di lasciarlo illuminare dal sole, di abitarlo fino all’ultima dimora, la “stanza centrale”, dove abita un “re saggio, puro, pieno di ricchezze”, che è all’origine di ogni bellezza, luminosità e calore.
Il “Castello” è detto “interiore” perché tutto al di dentro dell’essere umano, dove l’uomo non è destinato a perdersi o a ritrovarsi sterilmente con se stesso, ma ad umanizzarsi, partecipando a quella Bellezza che è il “Tu” da cui proviene e a cui tende.
In questo cammino, l’uomo sperimenta che non è solo perché c’è un compagno di viaggio, un “intermediario”, che lo invita ad osare l’affascinante pellegrinaggio interiore. Si tratta di Cristo, difensore e tutore della dignità dell’uomo; perché è proprio di Cristo essere il facilitatore del percorso, giammai il controllore: “Non è vile figliola (l’anima) – dirà Cristo a Teresa –, perché è fatta a mia immagine”. Per questo Teresa sostiene che “le cose dell’anima vanno sempre considerate con pienezza, ampiezza, grandezza, senza temere di esagerare, dato che essa ha una capacità che supera ogni nostra immaginazione”, “perché dentro tali spazi ha la sua dimora niente meno che Dio”.
Teresa cerca di rimuovere tutte le difficoltà iniziali e, in maniera geniale, ricorda che la porta del “Castello” non è chiusa, perché nessuno riesce mai a chiuderla definitivamente alle proprie spalle, né Dio mai chiude dall’interno. Non c’è nessun guardiano a negare l’ingresso o a dissuadere l’uomo dal tentarlo anzi, lo stesso Cristo fa il possibile perché ogni uomo osi varcare la soglia.
Ora, però, occorre decidersi. Perché dinanzi a un “Castello” così bello, qual è la nostra anima, “c’è stare e stare”. Tu, come stai? Perché c’è molta differenza tra “stare e stare”. Si può “stare” fuori, gironzolando, guardando, desiderando, senza sapere, rassegnati o da bestie e non entrarci!
Il rimedio a questa condizione di immobilismo e ignoranza, il mezzo adeguato per varcare la soglia del “Castello” è l’orazione, che per Teresa è, principalmente, imparare a “stare” in relazione a se stessi, agli altri, a Dio. Questo mezzo è alla portata di tutti, popolare e, forse, proprio per questo Teresa lo sceglie. Pertanto non occorre complicare le cose, incominciando a distinguere tra orazione “mentale” e “vocale”, “perché dove si ha orazione occorre pure che vi sia meditazione. Non chiamo infatti meditazione quella di colui che non considera con chi parla, cosa domanda e a chi domanda, benché muova molto le labbra”. Questo Teresa lo scrisse in difesa delle donne, alle quali era preclusa l’orazione mentale, perché altrimenti sarebbero rimaste fuori dal cammino interiore, private della loro vocazione e missione, della loro dignità, costrette in quel sub-umano, come qualcuno voleva, soggetti con meno diritti nella società e nella Chiesa, adesso anche dinanzi a Dio.
Teresa riconosce invece che in quello “stare”, espressione dal sapore giovanneo, tutta al femminile, accade una maturazione che è “el proprio conocimiento” (conoscere se stessi), perché è insostenibile e vano entrare nel “Castello” senza aver imparato a “rimanere”.
Lasciamoci condurre ancora da Teresa rileggendo, alla luce della sua esperienza, quanto Papa Francesco ci ha consegnato nell’Evangelii gaudium e quanto la Chiesa italiana ha ripreso nella Traccia verso il Convegno Ecclesiale di Firenze attraverso il percorso delle cinque vie verso l’umanità nuova: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare.
P. Luigi Gaetani, OCD