Crociata Mariano
I religiosi nella Chiesa locale
2015/3, p. 38
La VC si riferisce alla dimensione carismatica della Chiesa. Ma la ripartizione netta tra dimensione istituzionale e carismatica, benché corretta, rimane astratta, poiché alla prova dei fatti non è sempre adeguatamente riscontrata.

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Un problema tornato di attualità
I RELIGIOSI
NELLA CHIESA LOCALE
La VC si riferisce alla dimensione carismatica della Chiesa. Ma la ripartizione netta tra dimensione istituzionale e carismatica, benché corretta, rimane astratta, poiché alla prova dei fatti non è sempre adeguatamente riscontrata.
La maggior parte dei manuali di ecclesiologia, quando pure si occupano della vita consacrata, lo fanno riservandole uno spazio quasi sempre irrisorio, se rapportato alla presenza e all’attività dei consacrati nella vita della Chiesa. La motivazione di tale tendenza va trovata nella convinzione che la vita consacrata non rientri nella struttura gerarchica della Chiesa , con il ministero ordinato posto al servizio pastorale di tutti i fedeli mediante la parola di Dio e i sacramenti. Tuttavia non può essere trascurato che la vita consacrata fa riferimento alla dimensione carismatica della Chiesa e come tale chiede la giusta evidenza in una visione organica di essa. Se pure si vuole asserire che in linea di principio la Chiesa può esistere senza la vita consacrata (e, infatti, sebbene in casi limite, ci possono essere diocesi prive di figure di consacrati), mentre non può mancare di una sola delle sue dimensioni costitutive, nondimeno di fatto la vita consacrata esiste nella Chiesa in forma istituzionalizzata da tempo immemorabile, e soprattutto essa sente di essere stata chiamata a corrispondere in quanto tale alle esigenze essenziali della sequela e della vita cristiana. Si deve perciò dire, con il magistero della Chiesa, che la vita consacrata è necessaria alla vita e alla santità della Chiesa .
Il Concilio Vaticano II segna, oltre ogni dubbio, un punto di passaggio decisivo nella comprensione della Chiesa e della vita consacrata, quest’ultima considerata in quanto vita religiosa. La riscoperta della Chiesa locale portava con sé, tra altri, anche l’effetto di liberare la vita consacrata dall’orientamento alla sola prospettiva universale, ma di vederla riscoprire anche il proprio radicamento storico ed ecclesiale concreto. Da un punto di vista giuridico, non è stato necessario disfarsi della categoria di esenzione; è stato piuttosto superato un isolamento che si traduceva spesso in introversione, separatezza o parallelismo rispetto alla Chiesa locale. Dal punto di vista della spiritualità, il riferimento esclusivo ai fondatori e alle fondatrici si è aperto al più vasto orizzonte ecclesiale, con le sue fonti, la sua tradizione e il germogliare delle sue molteplici esperienze di santità.
Del capitolo VI della Lumen gentium è sufficiente qui richiamare il paragrafo più rilevante dal punto d vista teologico, il n. 44, il quale esplicita la natura della vita religiosa presentando il tema della “consacrazione” nella sua dimensione ecclesiale e apostolica, sottolinea il ruolo di segno assunto dalla vita religiosa e il suo inerire al momento carismatico della Chiesa più che alla sua struttura gerarchica. Non era compito né intendimento del Concilio elaborare una teologia compiuta della vita religiosa; con tale puntualizzazione ne disegna però lo statuto ecclesiologico, con l’inserirla in modo inalienabile nella struttura misterica e carismatica della Chiesa. «La vita religiosa è interamente nella Chiesa, per la Chiesa, della Chiesa» .
Il documento Mutuae relationes è, quanto meno, espressione dell’esigenza diffusamente avvertita di dare forma ai rapporti che l’insegnamento conciliare e l’esperienza successiva avevano fatto emergere come compito corrispondente alla nuova coscienza della Chiesa e degli istituti religiosi. Perciò afferma: «I religiosi […] anche se appartengono a un istituto di diritto pontificio, devono sentirsi partecipi della “famiglia diocesana” e assumersi l’impegno del necessario adattamento» . Viene naturalmente indicata l’esigenza di sottomissione dei religiosi ai vescovi e, di converso, il compito di promozione e di vigilanza da parte di questi ultimi nei confronti della vita religiosa . Anche l’inserimento nell’opera evangelizzatrice della Chiesa è, allo stesso tempo, impegno dei religiosi e responsabilità dei vescovi . Si tratta di un impegno che corrisponde, spesso, ad una appartenenza originaria alla Chiesa locale, nella quale gli istituti religiosi sono nati e dalla quale traggono linfa, fioritura e possibilità di sussistenza.
Ricerca di un modus vivendi condiviso
Il documento si colloca sulla scia di una esigenza pratica di cercare un modus vivendi condiviso, manca invece di un respiro teologico adeguato quanto alla Chiesa locale . Nondimeno, in esso trova posto l’affermazione che «la vita religiosa è un modo particolare di partecipare alla natura sacramentale del popolo di Dio» , da cui segue che i religiosi sono segno e strumento di salvezza non vivendo separati, bensì inseriti appieno nel popolo cristiano, a contatto vivo con tutti nella Chiesa . È questa comunione realizzata all’interno della Chiesa locale che rende possibile e credibile l’apertura alla Chiesa universale e la comunione con essa. In questo senso si esprime Giovanni Paolo II quando dice: «Ovunque vi troviate nel mondo, voi siete con la vostra vocazione, “per la Chiesa universale”, attraverso la vostra missione “in una determinata Chiesa locale”. Quindi, la vostra vocazione per la Chiesa universale si realizza entro le strutture della Chiesa locale. Bisogna far di tutto, affinché la vita consacrata si sviluppi nelle singole Chiese locali, affinché contribuisca all’edificazione spirituale di esse, affinché costituisca la loro particolare forza. L’unità con la Chiesa universale, attraverso la Chiesa locale: ecco la vostra via» . Si tratta, per i consacrati, non solo di vivere nella, ma ancor più della Chiesa locale.
L’apporto dell’esortazione Vita consecrata si colloca su di un piano cristologico-trinitario, che viene a integrare la prospettiva ecclesiologica fino ad allora privilegiata. Sebbene non manchi in essa l’insistenza sulla necessità della presenza della vita consacrata nelle diocesi , tuttavia è significativo che Giovanni Paolo II abbia scelto la pagina evangelica della trasfigurazione per costruirne la trama, perché esprime con tutta evidenza che questa forma di vita va letta innanzitutto in chiave rivelativa più che apostolica e funzionale. I consacrati sono uomini e donne che si lasciano rapire dal fulgore della luce e della prossimità divina. La loro vocazione è totalizzante, perciò vivono con il Signore trasfigurato una speciale intimità dalla quale nasce ogni forma di testimonianza, annuncio e missione apostolica. Nel documento post-sinodale, la vita consacrata è declinata come consacrazione, cioè accoglienza dell’amore eterno e gratuito del Padre, sequela del Figlio fatto uomo e partecipazione alla sua missione nel mondo, e carisma, vale a dire dono dell’azione dello Spirito che fermenta la Chiesa e la storia. Prima di dire che serve per un fine e per una causa, essa viene contemplata nel suo momento sorgivo, nella sua bellezza, nel suo essere «trasparenza trinitaria». Le radici sono piantate in alto, nel cuore stesso della Trinità, che fa della vita consacrata un «puro atto di amore» . Senza questo sguardo profondo, ogni discorso sulla vita consacrata rischia di scivolare, prima o poi, in considerazioni utilitaristiche e pragmatiche che ne snaturano il significato e danno una lettura fuorviante circa la sua presenza nella Chiesa. «È da questa vita “versata” senza risparmio che si diffonde un profumo che riempie tutta la casa. La casa di Dio, la Chiesa, è, oggi non meno di ieri, adornata e impreziosita dalla presenza della vita consacrata» .
Per una figura completa della Chiesa
Alla luce di queste considerazioni, la questione circa il posto della vita consacrata nella teologia della Chiesa può trovare risposta in sintonia con l’indicazione conciliare. Non si tratta, infatti, di trovare una collocazione che modifichi il quadro dottrinale nei suoi tratti essenziali che conosciamo, ma di integrare la dimensione carismatica dell’esistenza ecclesiale e ogni forma radicale di sequela nella figura completa della Chiesa. Il Concilio ha già dato una indicazione decisiva: «Un simile stato, se si tiene conto della divina e gerarchica costituzione della Chiesa, non è intermedio tra la condizione dei chierici e quella dei laici, ma da entrambe le parti alcuni fedeli sono chiamati da Dio a fruire di questo speciale dono nella vita della Chiesa e ad aiutare, ciascuno a suo modo, la missione salvifica di essa» . Un testo che inevitabilmente risente del tendenziale dualismo chierici-laici, ma che nondimeno collega a tutto il corpo ecclesiale la figura della vita consacrata. In una prospettiva innanzitutto cristologica si muove, dunque, Vita consecrata, là dove dice che «la professione dei consigli evangelici è intimamente connessa col mistero di Cristo, avendo il compito di rendere in qualche modo presente la forma di vita che Egli prescelse, additandola come valore assoluto ed escatologico. Gesù stesso, chiamando alcune persone ad abbandonare tutto per seguirlo, ha inaugurato questo genere di vita che, sotto l’azione dello Spirito, si svilupperà gradualmente lungo i secoli nelle varie forme della vita consacrata». Questo sfondo cristologico rende possibile l’affermazione ecclesiologica che viene subito dopo: «La concezione di una Chiesa composta unicamente da ministri sacri e da laici non corrisponde, pertanto, alle intenzioni del suo divino Fondatore quali ci risultano dai Vangeli e dagli altri scritti neotestamentari» .
Su queste basi, la conclusione può ben essere quella che dice come «le varie famiglie religiose, dalla vita monastica alle congregazioni religiose e alle società di vita apostolica, dagli istituti secolari alle nuove forme di consacrazione, hanno avuto la propria origine nella storia, ma la vita consacrata come tale ha avuto origine con il Signore stesso che scelse per sé questa forma di vita verginale, povera e obbediente. Per questo la vita consacrata non potrà mai mancare né morire nella Chiesa: fu voluta da Gesù stesso come porzione irremovibile della sua Chiesa» . Naturalmente il riferimento qui non è alle singole forme o figure, ma al dono complessivo della vita consacrata che il Signore ha fatto alla sua Chiesa e che mai verrà meno. Se anche la vita consacrata non è decisiva per l’esistenza del corpo ecclesiale, essa lo è per la forma che esso è chiamato ad assumere.
La Chiesa locale
Il passaggio da un’ecclesiologia a dominanza universalistica a quella che recupera la dimensione locale o particolare , non è stato privo di influenza sull’evoluzione della teologia della vita consacrata e sul suo rapporto con la Chiesa locale. Tale passaggio ha un’espressione significativa nel testo conciliare di Lumen gentium, secondo cui «le Chiese particolari sono formate a immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e universale» . Il senso di tale proposizione è inteso ad escludere una concezione della Chiesa universale come una federazione di Chiese particolari e, conseguentemente, di ognuna di queste come una sorta di ripartizione amministrativa di quella. Il rischio a cui è andata esposta l’enfasi post-conciliare sulla Chiesa locale riguardava quella che Joseph Ratzinger ha chiamato «orizzontalizzazione» della Chiesa, con la riduzione della communio che la caratterizza in senso egualitario-democratico . Di qui il capovolgimento di prospettiva introdotto dal documento Communionis notio a integrazione della prima, con la formula, speculare e inseparabile da quella conciliare, che dice: «Le Chiese nella e a partire dalla Chiesa» (Ecclesiae in et ex Ecclesia) . Superata la fase più rovente della polemica, l’equilibrio tra le due formule può dirsi raggiunto con il ridimensionamento dell’alternativa circa l’anteriorità o meno della universale rispetto alla particolare (o viceversa), poiché in realtà non esiste un tempo in cui possa esserci anteriorità dell’una rispetto all’altra, dal momento che la comunità del cenacolo e della Pentecoste, la Chiesa di Gerusalemme, è simultaneamente l’una e l’altra, inseparabilmente Chiesa universale e Chiesa particolare, immanenti l’una all’altra e indivisibili in quel momento e per sempre, dopo che quelle particolari cominceranno a moltiplicarsi.
Tale reciproca immanenza è ben espressa dalla figura del vescovo, il quale «rappresenta nei riguardi della Chiesa locale la Chiesa universale, e nei riguardi della Chiesa universale la Chiesa locale. Sicché egli serve l’unità. Egli non tollera che la Chiesa locale si racchiuda in se stessa, ma anzi la apre al tutto e la inserisce nel tutto, di modo che le forze vivificanti dei carismi possano affluire in essa e da essa scaturire. Come il vescovo apre la Chiesa particolare alla Chiesa universale, così egli porta in questa Chiesa universale la voce particolare della propria diocesi, i suoi particolari doni di grazia, le sue prerogative e le sue sofferenze. Tutto appartiene a tutti» . In questa prospettiva i vescovi trovano nei consacrati alleati preziosi perché l’azione pastorale delle diocesi non sia tentata dall’uniformità e si eviti ogni involuzione localistica. Fatto salvo il criterio dell’unità della fede, la Chiesa locale è essa stessa interessata a valorizzare e promuovere i doni di tutti e di ciascuno per la migliore realizzazione della cattolicità. In rapporto all’una e alle altre, la vita consacrata ha un ruolo ineliminabile, nella dinamica trasversale della vocazione alla sequela radicale di Gesù attraverso i consigli evangelici e nel servizio apostolico e pastorale nella comunità concreta in cui è chiamata a incarnarsi attraverso le molteplici forme di presenza nel tessuto ecclesiale, segno e strumento di comunione dentro il vasto respiro della cattolica che si incardina in una porzione particolare come compiuto rispecchiamento e realizzazione della universale, anzi come sua necessaria mediazione.
Religiosi nella Chiesa locale
Se passiamo alla considerazione del rapporto della vita consacrata con la Chiesa locale, dobbiamo innanzitutto tenere presente che una visione generale di tale rapporto non coglie intrecci che invece sussistono nella realtà e chiedono una disamina attenta, sia per quanto riguarda gli istituti religiosi sia per quanto invece attiene alla configurazione sociale e culturale di una determinata Chiesa particolare. In un certo senso, le enunciazioni generali circa il rapporto tra religiosi e Chiesa locale non sono sufficienti e devono cedere il passo per una certa misura alla comprensione e valutazione della situazione specifica di ogni singola Chiesa.
La ripartizione netta, poi, tra dimensione istituzionale e dimensione carismatica della Chiesa, ancorché corretta, conserva una buona dose di astrattezza, poiché alla prova dei fatti non è sempre adeguatamente riscontrata. Bisogna, per esempio, constatare che storicamente si è verificato un lento processo di clericalizzazione della vita religiosa maschile, cosicché già una cospicua parte – se non la totalità – dei membri degli istituti di vita consacrata sperimenta una cumulazione delle due dimensioni, istituzionale e carismatica.
A ciò bisogna aggiungere che i rapporti sono necessariamente caratterizzati dalla figura di vita consacrata di fronte alla quale di volta in volta ci si trova e che nessuna di esse può essere confusamente accostata ad altre, e cioè, per intenderci, l’attività apostolica e l’azione pastorale, la vita contemplativa, la consacrazione secolare . D’altra parte, all’opposto, la dimensione carismatica non è prerogativa esclusiva di alcuni, ma inerisce in varie forme a tutta la Chiesa. È precisamente in questo quadro complesso che bisogna cogliere ed evidenziare la specificità degli aspetti della vita consacrata, e nel nostro caso in particolare della vita religiosa, nel suo rapporto con la Chiesa locale.
Proviamo a prendere in esame tre livelli tipici di rapporto tra religiosi e Chiesa locale, fissando subito come criterio che non si tratta di grandezze analoghe collocate l’una di fronte all’altra, come due poteri che debbano venire a trattativa, anche perché per certi versi rimangono incommensurabili: la vita religiosa è una dimensione importante della Chiesa, questa è, invece, comunque una realtà comprensiva di tante dimensioni tra le quali trova posto anche quella consacrata e religiosa. Il problema del rapporto è dentro ciascuna delle due realtà di cui parliamo, poiché esse hanno originariamente una relazione di mutua interiorità: l’una è interiore all’altra. La vita religiosa è per sua natura dentro la Chiesa, dalla quale nasce e nella quale viene riconosciuta e sviluppa la sua identità e la sua missione. E che ci si debba riferire alla Chiesa locale, lo determina il fatto che, salvo il caso della richiesta di servizi specifici, è sempre in una Chiesa particolare che una comunità religiosa si trova collocata e inserita. Quanto alla Chiesa locale, essa non è la controparte della vita religiosa, ma le appartiene intimamente poiché è come Chiesa, con le sue strutture costitutive (parola, sacramento, ministero), che i religiosi possono rispondere alla loro vocazione e attuare il loro carisma. Pertanto i religiosi non devono andare a cercare la Chiesa fuori della comunità; e nemmeno la Chiesa locale può guardare alla comunità religiosa come a una realtà ecclesiale estranea o parallela.
Vita religiosa e Chiesa locale
La prima condizione del reciproco rapporto, tra vita religiosa e Chiesa locale, è costituita dal riconoscimento della rispettiva identità teologica. Su questo si basano fondamentalmente i diritti e i doveri dell’una rispetto all’altra. L’esigenza di fondo consiste nel comporre la risposta alla propria vocazione e identità in modo da favorire l’analoga risposta da parte dell’altra. Questo richiede conoscenza reciproca e fedeltà all’integra chiamata del Signore, nella quale non può esserci contraddizione e da cui non possono originare contrapposizioni tra religiosi e Chiesa.
In linea generale si deve dire che alla vita religiosa non può essere chiesto di modificare i connotati costitutivi della sua regola e del suo stile, nemmeno per motivi di ordine pastorale. All’opposto, la Chiesa locale non può accettare di vedere affermarsi zone franche di azione pastorale impermeabili alla sua responsabilità di coordinamento diocesano o parrocchiale, poiché in tal caso si introdurrebbero lacerazioni e contraddizioni nel tessuto ecclesiale.
Appartenenza religiosa e ministero presbiterale
Nell’ambito del rapporto tra vita religiosa e ministero presbiterale si coglie forse nella maniera più chiara, ma anche pungente, la difficoltà di comporre esigenze diverse che ricadono sulla medesima persona, con la sua duplice appartenenza, religiosa e ministeriale. Non c’è dubbio che si tratta di una duplicità, poiché il ministero significa essere costituiti sacramentalmente nella figura di pastore – in persona Christi et Ecclesiae – e quindi entrare in uno spazio di relazioni ecclesiali che in qualche modo si sottrae alla competenza delle istituzioni religiose, dal momento che il soggetto ecclesiale proprio in cui si colloca il ministero ordinato è il presbiterio attorno al vescovo. Non esiste, infatti, un presbiterio senza vescovo e senza una Chiesa (una sorta di presbiterio religioso extraterritoriale!), così che non può esserci un presbitero, ordinato al ministero dal gesto sacramentale del vescovo, che possa rispondere ad altri che non sia lui dell’esercizio del ministero stesso. La regolamentazione di tale esercizio si intreccia con le esigenze e la regola della vita religiosa, ma in modo tale che non venga mai meno la comunione nel presbiterio con il vescovo quando è in gioco il servizio pastorale di un presbitero religioso .
Attività apostolica e servizio pastorale
Anche nel campo del rapporto tra attività apostolica e servizio pastorale si rischiano delle confusioni e delle forzature. Confusioni sono quelle che si producono quando un’attività di competenza propria dell’azione pastorale della comunità ecclesiale – pensiamo all’iniziazione cristiana – venga svolta da religiosi come una libera attività apostolica di annuncio e testimonianza. Del resto anche iniziative di proposta formativa, catechetica, incontri di preghiera e di testimonianza devono collocarsi nel quadro di una vita di Chiesa condivisa in piena comunione. Pertanto forzature sarebbero quelle che si verificano quando, in nome dell’esigenza dell’unitarietà dell’azione pastorale della Chiesa, venga di fatto mortificata ogni forma di manifestazione e di condivisione della fede e della vita cristiana ispirata dal carisma della famiglia religiosa . Qui, come del resto in tutti gli altri casi, si tratta di coltivare relazioni e alimentare la comunicazione, e soprattutto di maturare un’attitudine di fondo improntata a volontà di intesa cordiale attorno all’unico bene della missione della Chiesa e della sua condivisione attraverso tutti i carismi di cui lo Spirito la dota. Alla fine tutto si riconduce al perseguimento della gloria di Dio e della salvezza delle anime, volendo fare ricorso a categorie di sapore linguistico tradizionale ma di inequivocabile significato. Per questo, la domanda che solleva il travaglio che attraversa non solo la vita religiosa ma l’intero mondo ecclesiale, riguarda che cosa il Signore chiede oggi per rispondere alla sua chiamata e alle sue ispirazioni. In tal senso l’indizione di un anno della vita consacrata da parte di papa Francesco rappresenta una opportunità irripetibile per «guardare il passato con gratitudine», «vivere il presente con passione», «abbracciare il futuro con speranza» .
La questione delle opere
Quella delle opere è senza dubbio la questione che può diventare più spinosa. In essa si mette in gioco lo specifico del carisma di un istituto e, insieme, un investimento di personale e di risorse a volta perfino senza riserve. Ci sono aspetti che vanno con delicatezza lasciati alla competenza esclusiva dell’istituto con i suoi autonomi organi di governo e sotto la responsabilità superiore della Congregazione competente; nondimeno spesso bisogna fare i conti con l’ambiente, con il territorio e con il tessuto ecclesiale in esso insediato. Certamente il rapporto con la Chiesa locale va coltivato nello svolgimento ordinario delle attività proprie di un’istituzione religiosa. In questo caso si tratta, da parte della diocesi, di assicurare una presenza pastorale che sostenga non solo la comunità, ma lo stesso servizio rivolto, secondo i casi, a bambini, ragazzi e giovani in formazione, o a malati o ad anziani o ad altre categorie di persone; da parte dei consacrati, c’è bisogno, però, di non chiudere l’attività di un’istituzione religiosa al mondo esterno e, con esso, al cammino e alla vita della Chiesa che si svolge nel comune contesto sociale e territoriale. Non raramente si verifica il paradosso che una famiglia religiosa, sviluppatasi in un orizzonte trasversale alle singole Chiese e avendo assunto un respiro realmente cattolico, poi di fatto si rinchiuda nel proprio piccolo mondo religioso reso impermeabile all’ambiente circostante, sia ecclesiale che sociale e culturale.
Proprio questa tentazione di chiusura si fa sentire soprattutto quando – come è frequente di questi tempi – ci si scontra con difficoltà sia di ordine qualitativo che quantitativo, quanto al personale e alla gestione delle opere. Realisticamente, non sempre gli interlocutori diocesani possono essere trovati all’altezza delle questioni in gioco; tuttavia imprescindibile è l’esigenza di non smarrire la logica evangelica ed ecclesiale che deve presiedere a tutte le scelte , tanto più quando si tratta di opere nate dalla carità e dalla generosità del popolo cristiano; e invece capita, purtroppo, – e la cosa non tocca certo solo i religiosi! – di dover incorrere in situazioni nelle quali la logica che domina è quella mercantile se non speculativa, magari con il supporto di qualche cattivo consigliere non necessariamente solo esterno. La transizione in atto va colta come un segno e un appello ad una conversione richiesta a tutti gli attori ecclesiali, non solo dunque quelli religiosi, ma una conversione che, purtroppo, a volte tarda a venire . È importante non rimanere prigionieri delle vicissitudini legate alle opere, perché il rischio è quello di perdere di vista il senso del carisma e della propria vocazione nella Chiesa. In proposito, così si è espresso papa Francesco rivolgendosi ai vescovi italiani: «Promuovete la vita religiosa: ieri la sua identità era legata soprattutto alle opere, oggi costituisce una preziosa riserva di futuro, a condizione che sappia porsi come segno visibile, sollecitazione per tutti a vivere secondo il Vangelo. Chiedete ai consacrati, ai religiosi e alle religiose di essere testimoni gioiosi: non si può narrare Gesù in maniera lagnosa; tanto più che, quando si perde l’allegria, si finisce per leggere la realtà, la storia e la stessa propria vita sotto una luce distorta» .
Motivi di fondo
La consapevolezza che gli ordini e gran parte delle congregazioni religiose sono nati per lo più in un contesto dominato da un’ecclesiologia universalistica, deve rendere compresi della relativa brevità del tempo nel quale ha ritrovato diritto di cittadinanza la Chiesa locale nella sua articolazione con la Chiesa universale e quindi la sua recezione nella coscienza dei credenti. Il carattere prevalentemente societario e gerarcologico di un’ecclesiologia di tipo universalistico conferiva una connotazione soprattutto giuridica all’impostazione dei rapporti tra religiosi e Chiesa locale, così che persiste per forza inerziale la tendenza a privilegiare simile approccio. Senza sminuire il valore e la necessità di una puntuale regolamentazione giuridica, nondimeno l’ispirazione adeguata per un rapporto fecondo va cercata soprattutto in alcuni motivi di fondo.
Il primo di tali motivi è senza dubbio l’identità teologica della Chiesa e, in essa, della vita consacrata. La riscoperta dell’attualità e della vitalità di tale identità si realizza validamente se avviene in un contesto e in un clima di comunione, secondo lo spirito e la natura di quell’identità. Accogliere come dono e coltivare come compito la comunione della vita religiosa nell’orizzonte della comunità ecclesiale racchiude la condizione fondamentale per l’attuazione di un rapporto autentico e pieno dell’una con l’altra. Espressione dell’impegno sincero a fare comunione è la volontà di conoscenza reciproca e di dedizione all’unica missione della Chiesa, l’annuncio e la testimonianza del Vangelo, nel quale i religiosi e tutti i consacrati ritrovano il momento sorgivo e il senso permanente della loro singolare vocazione e del loro comune carisma di consacrazione.
Specialmente un tempo come l’attuale deve vedere convergere l’impegno di tutti, in fedeltà alla propria specifica vocazione, ad adempiere all’unica missione della Chiesa di rendere possibile la fede e l’incontro con Dio. La vita consacrata, e quella religiosa in particolare, ha un contributo specifico da dare al formarsi della coscienza cristiana oggi, poiché attraverso di essa l’essere cristiani dovrebbe apparire nella sua autenticità originaria. In modo particolare, nella vita consacrata risalta la dimensione vocazionale dell’esistenza, così oscurata alle coscienze di oggi e così necessaria al recupero di ogni autentica umanità, anche come premessa di un genuino fiorire dell’esperienza cristiana. Non ultimo, la vita consacrata con il suo coinvolgimento della corporeità – nella pratica dei consigli evangelici – evidenzia la desolazione dell’individualismo e le possibilità di un’affettività autenticamente realizzata attraverso la piena donazione di sé per un amore più grande.
Un’attenzione particolare merita la vita religiosa femminile, alla quale papa Francesco ha riservato parole significative, come quelle che seguono rivolte a un gruppo di vescovi: «Auspico che gli Istituti religiosi femminili possano continuare ad essere, in modo adeguato ai nostri tempi, luoghi privilegiati dell’affermazione e della crescita umana e spirituale delle donne. Le religiose siano pronte ad affrontare i compiti e le missioni anche difficili ed esigenti, che valorizzino le loro capacità intellettuali, affettive e spirituali, i loro talenti e carismi personali. Preghiamo per le vocazioni femminili e accompagniamo con stima le nostre sorelle, che spesso nel silenzio e inosservate spendono la loro vita per il Signore e per la Chiesa, nella preghiera, nella pastorale e nella carità» .
Per la condizione di consacrati e per la sensibilità individualistica oggi dominante, la fraternità in particolare è il segno più eloquente della qualità rivelativa della vita religiosa . «La vita consacrata può aiutare la Chiesa e la società intera dando testimonianza di fraternità, che è possibile vivere insieme come fratelli nella diversità: questo è importante! Perché nella comunità non ci si sceglie prima, ci si trova con persone diverse per carattere, età, formazione, sensibilità… eppure si cerca di vivere da fratelli» .
Tutto questo deve servire a testimoniare, infine, la centralità di Cristo nella vita e nella storia dei credenti come promessa per ogni persona e per l’umanità intera. In tal modo, l’ansia missionaria che accomuna i veri credenti conferirà qualità gioiosa alla comunicazione del vangelo .
✠ Mariano Crociata
Relazione tenuta al Corso di formazione per superiori generali
promosso dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata
(Roma, 11 01. 2015).