Italia frammentata
2015/3, p. 28
La società è ferma e i mondi vitali che la fanno camminare sembrano ripiegati su se stessi. Siamo di fronte a «una profonda crisi della cultura sistemica... i singoli soggetti sono a disagio, si sentono abbandonati a se stessi, in una obbligata solitudine».
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Rapporti di Censis e Eurispes
ITALIA
FRAMMENTATa
La società è ferma e i mondi vitali che la fanno camminare sembrano ripiegati su se stessi. Siamo di fronte a «una profonda crisi della cultura sistemica... i singoli soggetti sono a disagio, si sentono abbandonati a se stessi, in una obbligata solitudine».
Un accreditato sociologo come Manuel Castells oggi rilegge le strutture sociali nel quadro di una grande “società in rete”, che passa da un’impostazione verticale delle burocrazie che hanno governato l’umanità per millenni (con eserciti, stati, aziende) verso un’organizzazione a rete. Le reti costituiscono la nuova morfologia sociale e la diffusione della logica di rete modifica in modo sostanziale l’operare e i risultati dei processi di produzione, esperienza, potere e cultura. In un siffatto mondo globale, dove i soldi e le decisioni politiche dipendono da queste reti, la maggior parte di noi si sente perso. Si cerca allora di far riferimento a qualcosa che vada alle radici: questo senso del “chi siamo” nella storia e nella cultura è racchiuso nel concetto di “identità”. L’identità, individuale e comunitaria, è l’àncora che consente di navigare nell’oceano della globalizzazione.
Paese liquido
e disordinato
Guardando con queste lenti l’Italia, va detto subito che la società è ferma e i mondi vitali che la fanno camminare sembrano ripiegati su se stessi. Questa è l’immagine che emerge dal 48° Rapporto Censis. Tra le famiglie e le imprese c’è un atteggiamento attendista, dominato da incertezza diffusa. Manca un orizzonte in cui collocare una possibile azione collettiva. Le famiglie sono a “consumo zero”: mantengono liquidità e depositi, riducono i consumi e rifiutano investimenti in immobili. Ognuno cerca di coprirsi le spalle e così fanno del resto anche le imprese, pronte a ridurre gli investimenti (per alimentare la produzione) e ad aumentare il patrimonio netto. C’è un capitale inagito conservato sotto il materasso e ne fanno le spese giovani e lavoratori: il capitale umano «non si trasforma in energia lavorativa».
Secondo Giuseppe De Rita, presidente del Censis, questo accade anche perché il “sistema di rete” italiano è sgretolato e i nodi decisionali non funzionano. La nostra società è disordinata e fatta di mondi non comunicanti. Per affrontare la lunga crisi economica si è poi arrivati a delegittimare sempre più le varie sedi di confronto e di mediazione. Prevale infatti un orientamento a rottamare la concertazione tra le parti sociali; a mettere in discussione gli apparati di partito sul territorio; a svalutare l’apporto delle lotte sindacali; a guardare con sospetto le proposte delle categorie imprenditoriali; a relegare in secondo piano l’associazionismo e il terzo settore. La volontà politica sembra voler fare a meno della rappresentanza e degli enti intermedi non solo nella dialettica socio-economica, ma anche nei poteri territoriali (vedi delegittimazione o soppressione di Province, Camere di commercio e Prefetture). Invece, pur riconoscendo la debolezza delle figure di raccordo tra politica e società, non si può negare la loro importanza strategica nel costruire quelle “reti” di cui parla il sunnominato studioso Cassels.
La società
delle “sette giare”
Nelle “Considerazioni generali” del Rapporto Censis 2014 si legge che siamo di fronte a «una profonda crisi della cultura sistemica... i singoli soggetti sono a disagio, si sentono abbandonati a se stessi, in una obbligata solitudine». Questa estraneità porta a un fatalismo cinico e a episodi di secessionismo sommerso. La crisi della cultura sistemica accresce la propensione della società a vivere in orizzontale: «non comunicando in verticale, restano mondi che vivono in se stessi e di se stessi. L’attuale realtà italiana si può definire come una “società delle sette giare”, cioè contenitori caratterizzati da una ricca potenza interna... ma senza processi esterni di scambio e di dialettica. Le sette giare sono: i poteri sovranazionali, la politica nazionale, le sedi istituzionali, le minoranze vitali, la gente del quotidiano, il sommerso, il mondo della comunicazione».
Circa la prima giara, i poteri sovranazionali, «la finanza internazionale si regola e ci regola attraverso lo strumento del mercato con procedure che vivono di vita propria, senza innervare una reale dialettica con le realtà nazionali». Le autorità comunitarie, con i vincoli cui sono sottoposti gli Stati (direttive, controlli, parametri, patti di stabilità, fiscal compact), «comportano una crescente cessione di sovranità, che spinge a un crescente egoismo nazionale».
Così la politica nazionale, riconfinata in spazi angusti, rilancia il suo triste primato su una società frammentata e quindi incapace di decisionalità e orientamento: «Su questo vuoto si è costruita un’onda di rivincita sulla rappresentanza, sui corpi intermedi, sulle istituzioni locali, stimolando così una empatia consensuale. Ma il primato della politica rischia di restare senza efficacia collettiva, a causa della perdita di sovranità verso l’alto e non avendo potere reale verso il basso, perché la volontà decisionale e la decretazione d’urgenza supportata dai voti di fiducia non sempre riescono a passare all’incasso sul piano dell’amministrazione corrente e dei comportamenti collettivi».
Mentre la politica attende al suo gioco solitario, le istituzioni vivono una dinamica autoreferenziale: i grandi enti pubblici sono vuoti di competenze ( il funzionamento è appaltato a società esterne di consulenza o di informatica); il personale pubblico (anche giudiziario) sente la tentazione di fare politica o passa ad altri ruoli (di garanzia o di gestione); si assiste al rimpallo delle responsabilità fra le diverse sedi di potere (con decisioni e ricorsi conseguenti). Nel contempo l’inefficacia collettiva contagia anche le minoranze vitali: in particolare i medio-piccoli imprenditori (la forza dell’export nei settori: manifatturiero, agroalimentare, turistico, digitale e terziario di qualità) «preferiscono vivere ancorati alle loro dinamiche aziendali, con una durezza della competizione che alimenta il loro gene egoista, riducendo le relazioni verso l’esterno... si sentono poco assistiti dal sistema pubblico, così aumenta il loro congenito individualismo e si riducono le loro appartenenze associative e di rappresentanza». La gente del quotidiano, dal canto suo, vive la sospensione delle aspettative creando un terreno dove «possono incubarsi crescenti diseguaglianze e imprevedibili tensioni sociali». C’è anche voglia di nuovi diritti individuali (avere un figlio anche in età avanzata, scegliere una dolce morte, usufruire di un matrimonio di tipo paritario), che però «riguardano una minoranza attivista incapace di indurre grandi trasformazioni sociali, come era invece avvenuto negli anni ‘70».
Così è il sommerso a consentire a famiglie e imprese di reggere: «C’è una recrudescenza della propensione di tutti a nascondersi, proteggersi e sommergersi, che riguarda l’occupazione, la formazione del reddito, la propensione al risparmio, anch’esso sommerso, in nero, cash».
I grandi media, ultima giara, sono incardinati al binomio opinione-evento e si allontanano dal rigoroso mandato di aderenza alla realtà e di sua rappresentazione. «I media digitali personali rispondono sempre più alla tendenza dei singoli alla introflessione. La pratica diffusa del selfie è l’evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con esso».
Il capitale sociale
non è movimentato
Le sette giare vanno connesse facendo crescere la politica come funzione di orientamento della società, come arte di guida e di promozione dell’interesse collettivo, evitando il consolidamento della deflazione economica e sociale. De Rita, su quest’aspetto cruciale, richiama le parole del frate francescano Bernardino da Feltre: «Moneta potest esse considerata vel rei vel, si movimentata est, capitale»: se le risorse liquide non si movimentano, restano sterili, sono solo cose. Questo è particolarmente importante dal momento che, con la crisi, l’attendismo cinico degli italiani finisce per patologizzarsi. Infatti, tra i fattori più importanti per riuscire nella vita, il 51% indica una buona istruzione e il 43% il lavoro duro, ma la percentuale italiana è inferiore alla media europea che si attesta, rispettivamente, al 63% per l’istruzione (82% in Germania) e al 46% per il lavoro (74% nel Regno Unito). In Italia risultano molto più alte le percentuali di chi è convinto che servono le conoscenze giuste (il 29% contro il 19% inglese) e la provenienza da una famiglia benestante (il 20% contro il 5% francese). Il riferimento all’intelligenza come fattore determinante per l’ascesa sociale raccoglie solo il 7% delle risposte in Italia, il valore più basso in tutta la UE.
Sotto l’aspetto del capitale umano, agli oltre 3mln di disoccupati vanno aggiunti quasi 1,8mln di inattivi perché scoraggiati; ci sono poi 3mln di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare. Un capitale umano non utilizzato di quasi 8mln di individui. I più penalizzati sono i giovani: i 15-34enni costituiscono il 50,9% dei disoccupati totali; i Neet, cioè i 15-29enni che non sono impegnati in percorsi di istruzione o formazione, non hanno un impiego né lo cercano, passano da circa 1mln 800mila nel 2007 a circa 2mln 430mila nel 2013.
C’è poi il capitale umano sottoutilizzato, composto dagli occupati part-time involontari (2,5mln nel 2013, raddoppiati rispetto al 2007) e dagli occupati in cassa integrazione (con numero di ore passato nel periodo 2007-2013 da poco più di 184mila a quasi 1,2mln) corrispondenti a 240mila lavoratori sottoutilizzati. E ancora, non manca il capitale umano sottoinquadrato, cioè persone che ricoprono posti per i quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore a quello posseduto: sono più di 4mln, il 19,5% degli occupati. Per inciso, il numero di lavoratori nel settore della cultura (304mila, 1,3% degli occupati totali) è meno della metà di quello di Regno Unito e Germania, e di gran lunga inferiore rispetto a Francia e Spagna.
Il Censis infine conferma che, negli anni della crisi, le disuguaglianze sociali si sono ampliate, il ceto medio si è indebolito e le opportunità di integrazione sono diminuite. Grave appare lo slittamento verso il basso delle grandi città del Sud: il tasso di occupazione dei 25-34enni oscilla tra il 34,2% di Napoli e il 79,3% di Bologna; la quota di persone con titolo di studio universitario passa dall’11,1% di Catania al 20,9% di Milano; a Bari solo 2,8 bambini di 0-2 anni ogni 100 sono presi in carico dai servizi comunali per l’infanzia, contro i 36,7 di Bologna; a Palermo ci sono 3,4mq per abitante di verde urbano rispetto ai 22,5 bolognesi; la percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti è al 10,6% a Palermo, mentre arriva al 38,2% a Milano.
Il grande fardello
e il convitato di pietra
A questo quadro ci sembra interessante accostare qualche aspetto della fotografia del Rapporto Eurispes Italia 2015. Otto italiani su dieci ritengono che la situazione economica sia peggiorata nel corso del 2014 e più della metà è convinta che continuerà a peggiorare nel corso di quest’anno. Il 47,2% delle famiglie non arriva a fine mese con proprie entrate e il 62,8% è costretto a utilizzare i risparmi. Il livello di fiducia nelle istituzioni è diminuito per il 70% dei cittadini e quattro italiani su dieci pensano che l’Italia debba uscire dall’euro. Un balzo in avanti ha avuto il consenso nei confronti della Chiesa: dal 49% del 2014 al 62,6% all’inizio di quest’anno (+13,6%); per papa Francesco poi c’è un vero plebiscito: l’89,6% ritiene che egli abbia dato nuovo slancio al cristianesimo.
Dietro queste cifre, il presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara, legge una situazione in cui emergono sia un “grande fardello” che un “convitato di pietra”. Sono due fattori a forte tossicità.
Il grande fardello è «l’apparato burocratico onnipotente e pervasivo in grado di controllare ogni momento e ogni passaggio della nostra vita». «Una burocrazia che ingloba in sé il momento progettuale (preparazione di leggi, misure, regolamenti); organizza i percorsi di approvazione, di emanazione e di applicazione; determina sanzioni; gestisce e distribuisce le risorse, non ha bisogno della politica se non come simulacro, come involucro che serve a salvare la forma». Un esempio viene dalle cosiddette “riforme Bassanini a Costituzione invariata” che, sull’onda di Tangentopoli, hanno trasferito il potere decisionale all’interno degli Enti locali, in capo ai dirigenti, creando centri autonomi di potere e di ricatto.
Il convitato di pietra è la criminalità organizzata. L’Eurispes nel 1993, con Legambiente e Arma dei Carabinieri, realizzò la prima approfondita indagine sulla criminalità ambientale, dal titolo “Ecomafie”, che diede il nome alle attività mafiose svolte in danno del territorio e dell’ambiente. Oggi segnala «un nuovo, grave fenomeno che tocca tutti indistintamente: il cibo e l’alimentazione»: così le agromafie «si sono silenziosamente sedute alla nostra tavola».
Attraverso l’Osservatorio permanente sulle Agromafie costituito con Coldiretti, Eurispes denuncia «l’ipoteca che ormai le mafie esercitano sul settore agroalimentare, uno dei più importanti e decisivi comparti produttivi del paese, pilastro portante del Made in Italy. Produzione, distribuzione, vendita sono sempre più penetrate e condizionate dal potere criminale, esercitato in forme raffinate attraverso la finanza, gli incroci e gli intrecci societari, la conquista di marchi prestigiosi, il condizionamento del mercato, l’imposizione degli stessi modelli di consumo, l’orientamento delle attività di ricerca scientifica e persino alcune scelte legislative». I capitali accumulati sul territorio oggi raggiungono le nostre città, dove vengono rilevati - attraverso prestanome e intermediari compiacenti - imprese, alberghi, pubblici esercizi, attività commerciali di distribuzione della filiera agroalimentare. Oltre al riciclaggio del denaro sporco, si denuncia ora il suo fenomeno speculare: il money dirtying, cioè il processo che spinge i capitali puliti a indirizzarsi verso l’economia sporca. Secondo le stime Eurispes, annualmente almeno un miliardo e mezzo di euro transitano nel settore agroalimentare, come investimento dall’economia sana a quella illegale. Il giro d’affari complessivo delle Agromafie è di almeno 15,4mld di euro l’anno.
Mario Chiaro