Cozza Rino
Nuovi interpreti della fantasia di Dio
2015/3, p. 26
Se per un Istituto le sue “conquiste” si risolvessero oggi in sconfitte del carisma evangelico, e non ci fosse la capacità di reinvestimento, bisognerebbe domandarsi se il suo carisma sia ancora vivo.

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Domande che vengono oggi dalla base
NUOVI INTERPRETI
DELLA FANTASIA DI DIO
Se per un Istituto le sue “conquiste” si risolvessero oggi in sconfitte del carisma evangelico, e non ci fosse la capacità di reinvestimento, bisognerebbe domandarsi se il suo carisma sia ancora vivo.
«Come rispondere con sapienza evangelica alle domande poste oggi dall’inquietudine del cuore umano?». È la domanda suggerita dal documento sinodale (VC 81) attraverso cui intende dire che il modo datoci per essere fedeli all’eterno è quello di essere fedeli al tempo, letto con gli occhi del cuore. Teilhard de Chardin diceva: «una religione che sia giudicata inferiore al nostro ideale umano, per quanti miracoli vanti, è una religione perduta».
Le giovani generazioni di religiosi/e quali domande pongono all’Istituzione a partire da questa sensibilità?
«Sento di rado, nei nostri ambienti, riportare questa espressione del Papa: “Per favore non si parli di carisma se questo non è profetico”» (p.E.C.).
Il carisma è profetico se offre i mezzi di esprimere con la propria vita l’amore eterno che è Dio, presente alla radice di ciascuno. L’insistenza del Papa è data dalla consapevolezza che per la VR in questo principalmente sta l’identità, da riscontrarsi in tutto ciò che “è” e che “fa”. Oltre a ciò, oggi in particolare, diversamente da un tempo, «i religiosi sono profeti se la loro vita mostra una “umanità riuscita” con ruolo simbolico, critico, trasformatore dentro la società, sottolineando nella Chiesa la dimensione evangelica con il vivere in modo vibrante e significativo le caratteristiche del vero carisma, cioè la spontaneità creatrice, il vigore e la fortezza, l’audacia nelle iniziative, la docilità attiva nello Spirito, la retta autonomia e libertà di fronte ad ogni legalismo, un certo tono di novità, di originalità, di entusiasmo e di giovinezza dello spirito, spinta vitale e slancio apostolico».
«I religiosi sono consapevoli di stare giocando, talvolta, a fare i profeti»? (Fr.S.V.).
«Tra le tentazioni che ci presenta il demonio – dice il Papa – c'è quella di giocare ai profeti senza esserlo. Però non si può giocare in queste cose. Io stesso ho visto cose molto tristi al riguardo».
I più avveduti se ne sono accorti e ne stanno soffrendo. Scrive sr.(…): «Amo la vita, amo Dio, amo il suo amore, amo la gente ma non riesco più a trovare il senso di questo nostro modo di vivere e di operare come religiose».
In un convegno diocesano (Cism-Usmi) un provinciale disse: «Ha un bel da dire il Papa che non è profezia investire il carisma in ONG … ma questi sono gli unici spazi che ci rimangono». Si intravvede qui la propensione di molti a credere che la salvezza del carisma passi attraverso la salvezza delle attuali “strutture di servizio”, senza rendersi conto che oggi la maggior parte di esse sono risposte a quei bisogni che troverebbero uguale risposta da parte di uno stuolo crescente di soggetti eroganti servizi.
Il verbo messo al centro di varie riflessioni del Papa è uscire, quale invito a prendere atto che la Chiesa, in tutte le sue formulazioni, è attualmente prigioniera di se stessa: «Preferisco una chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere al centro e che finisce in un groviglio di ossessioni e di procedimenti».
Uscire «per portarsi nelle periferie esistenziali» possibili anche nel cuore delle città. Queste parole del Papa sembrano l’eco di quelle di un altro gesuita, il teologo brasiliano J.Sobrino il quale da decenni va dicendo che oggi lo “spazio” dei religiosi è di stare vocazionalmente «in frontiera, in periferia, nel deserto», vale a dire ove nessuno vuole starci, portatori di progetti di società accoglienti dove ognuno trovi un posto, partecipi, si assuma responsabilità, riesca a far appassionare ad una scelta di solidarietà, porti avanti dei progetti che sono propri perché proprio è il territorio entro cui si manifestano i bisogni.
Ma i religiosi hanno preso coscienza di questa “mistica” dell’azione educativa e sociale o pensano che la salvezza venga dal continuare in quello che sempre hanno fatto?
Al giorno d’oggi – scrive il sociologo G.Sarpellon – nel settore dei servizi sociali (area privilegiata da Istituti religiosi) si sta creando una “deriva lavorista”. Per un verso è un fenomeno naturale: nel momento in cui si creano delle formule per rispondere ai bisogni in un settore ad alta intensità di lavoro, come è ora il settore dei servizi sociali, è ovvio che quando la formula si espande ci sia un forte incremento della componente lavoro. Ma l’impresa di lavoro che parte dal bisogno del lavoratore creerà prima o poi un modello d’impresa sociale che è soprattutto un modello di impresa di lavoratori, che nei momenti di difficoltà è tentata di sostituire la solidarietà allargata con la solidarietà chiusa, facendo sì che prima ancora di preoccuparsi dei bisogni altrui si senta l’esigenza di affermare i propri e di difenderli ad ogni minaccia di cambiamento. Si finisce con il perdere di vista il destinatario della risposta, a vantaggio esclusivo degli addetti, affievolendo in tal modo la “cultura della solidarietà”.
«Ho l’impressione che nelle Congregazioni i livelli intermedi di governo si siano ridotti ad essere fabbriche di soluzioni giuridiche e prassi “politiche” con predominio dell’aspetto amministrativo su quello pastorale» (p.G.B.)
In un momento in cui il protagonismo europeo della VC sta terminando, è inevitabile lo “spaesamento”, spesso riscontrabile nell’incapacità a livello di governo di nuove interpretazioni del carisma. È ciò che avviene quando c’è crisi di leadership, di persone, di progetti, di linguaggi. In tale condizione agonica, di lotta, di paura, è più facile essere disponibili a percorrere strade aperte a qualsiasi involuzione, a scelte deboli, «specie – scrive un lettore ben informato – se in mano a manager autoreferenziali con attitudini imprenditoriali». È sotto gli occhi di tutti che la conclamata “fedeltà creativa” nei fatti si esprime prevalentemente in interventi di sopravvivenza, ma non diprogresso” se questo termine significa avvicinarsi al luogo ideale dove dovremmo essere.
Lo spaesamento è inoltre riscontrabile anche nel capovolgimento di senso di alcuni termini chiave a fondamento della irrinunciabile corresponsabilità all’interno di ogni sistema partecipativo. Ad esempio il significato di sussidiarietà è oggi capovolto dal suo significato originario e viene usato nel senso di “il governo si sostituisce a “o prende il posto”. Sta dunque avvenendo che chi vive all’interno di molte opere, compreso il responsabile, si ritrova nei panni di impotente spettatore. Ed è così che l’eccessiva centralizzazione, con il suo funzionalismo manageriale, anziché aiutare, complichi la vita e la sua dimensione missionaria. Le giustificazioni certamente ci sono ma non sufficienti ad ovviare al fatto che ai Religiosi privati della cittadinanza attiva non rimanga che lasciare che tutto succeda.
«Ho quarant’anni e nel bilancio della mia vita mi rendo sempre più conto che faccio fatica a vivere in questo “sistema di vita religiosa”» (Sr. D.Z.).
È qui indicato il pericolo di far passare la VC da “ideale di vita” a “sistema istituzionale”. Con il termine “sistema” si intende quel complesso di norme, prassi, condotte, che regolano una data organizzazione. Ma è l’ideale di vita e non il “sistema” ad infondere “vivacità”, quella che ha capacità di incidenza nel territorio, di provocatorietà, di capacità di appello, di convocazione.
L’idea di sistema è prevalente quando manca il coraggio di rivedere consuetudini «non direttamente legate al nucleo del Vangelo», o quando la comunità, disarticolata dalla dimensione apostolica diventa un gruppo di “eletti” che guardano a se stessi.
Logiche di sistema – dice ancora il Papa – si nascondono inoltre «dietro il fascino di poter mostrare conquiste sociali o in una vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche o in attrazione per le dinamiche di autostima e di realizzazione autoreferenziale; quando non c’è più fervore evangelico ma il godimento spurio di autocompiacimento egocentrico».
Anche la vita fraterna può essere ricondotta a “sistema” se vissuta all’interno di una atmosfera di regressione in cui le persone sono trattate da infanti, cioè secondo l’etimologia della parola, da persone che non hanno voce, per il fatto che predomina sulla persona l’uniformità rispetto alla molteplicità, l’obbedienza rispetto alla partecipazione.
«Le comunità unificate (o accorpate) sono in risposta al bisogno delle persone o a esigenze del sistema?» (Fr.I.S.).
È questo il sentire di un numero crescente di Religiosi/e che temono che «questo avvenga – scrive fr.(…) come una operazione di magazzinaggio da parte di chi pensa alla comunità come struttura o contenitore», piuttosto che una fraternità a misura di “vite” segnate da una età che non le agevola.
Un altro, a firma di altri quattro, scrive: «una provincia religiosa che si configuri come impresa sociale saprà prendere le distanze dalla mentalità aziendale portata a considerare l’anzianità come prodotto difettoso da giustificarne il confinamento
Ma oggi la comunità è concepibile solo a partire dall’essere modello di relazioni, possibili dove si trovino persone con cui stabilire un dialogo, intrattenere rapporti positivi, una comunicazione franca, un riconoscimento, una dimensione familiare. Se la conquista dell’umanità di ciascuno di noi è avvenuta nelle relazioni e grazie alle relazioni con gli altri, quando questa umanità viene messa in discussione dal decadimento fisico e dalla malattia, è solo in ambienti ad alta sensibilità relazionale che essa può essere tutelata.
Come sarebbe bello e profetico elaborare delle fraternità che «possano aprire la strada a una interpretazione dell’anzianità, non solo in termini di declino e di degrado, ma come un diverso modo di essere dell’umanità»?.
Per concludere penso opportuna una domanda: se per un Istituto le sue “conquiste” si risolvessero oggi in sconfitte del carisma evangelico, e non ci fosse la capacità di reinvestimento, non sarebbe da domandarsi se il suo carisma sia ancora vivo?
Rino Cozza csj