Tojeira Josè Maria; Beozzo José Oscar
Mons. Romero, martire della fede
2015/3, p. 14
Mons. Oscar Arnulfo Romero fu ucciso in odio alla Fede, il 24 marzo 1980, a San Salvador mentre celebrava messa, e quindi è un martire. Per anni aveva denunciato le ingiustizie e le violenze della polizia e dei militari contro i più deboli.

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Testimoni
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Promulgato il decreto di beatificazione
MONS. ROMERO
MARTIRE DELLA FEDE
Mons. Oscar Arnulfo Romero fu ucciso in odio alla fede, il 24 marzo 1980, a San Salvador mentre celebrava la messa. Per anni aveva denunciato le ingiustizie e le violenze della polizia e dei militari contro i più deboli.
Quando gli Apostoli nei primi discorsi si presentarono ai giudei, dissero di essere dei testimoni della risurrezione: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni” (At 2,32). I primi convertiti erano spesso chiamati, sempre nel libro degli Atti, “quelli del cammino”.
Mons. Romero, in mezzo a gravi difficoltà che lasciavano presagire l’inizio di una guerra civile, accompagnò il popolo del Salvador essendo nello stesso tempo testimone della morte e risurrezione del Signore. “Cristo è presente nel martire”, diceva Tertulliano all’inizio del terzo secolo. E quell’affermazione fu confermata da coloro che hanno contemplato l’itinerario di mons. Romero nei tre anni in cui fu arcivescovo. In effetti, egli era giunto alla sede di San Salvador in una situazione limite. La repressione e la persecuzione politica costituivano il risultato della triplice idolatria che lui stesso denunciava: l’idolatria della ricchezza, del potere e dell’organizzazione politica. Ebbe in sorte di vivere, come disse Giovanni Paolo II, una situazione storica in cui «la guerra dei potenti contro i deboli ha aperto profonde divisioni tra ricchi e poveri». Il dolore della gente gli faceva contemplare Gesù sofferente.
Profeta di denuncia
e di misericordia
La sua passione per la pace e la fraternità lo obbligavano a denunciare tutto ciò che portava allo spargimento del sangue fraterno. Le sue omelie domenicali erano accolte con speranza e ascoltate in tutto il paese attraverso la radio. Per la gente semplice era una figura in cui si vedeva il riflesso del volto del Signore, il suo amore e la sua misericordia.
La gente lo chiamava profeta di giustizia, padre dei poveri, voce dei senza-voce. La sua “parresia” stupiva tutti. Molto dopo la sua morte, Giovanni Paolo II, nell’Esortazione apostolica Pastores gregis, specialmente nei numeri 66 e 67 definiva quale doveva essere l’atteggiamento e il modo di comportarsi del pastore di fronte alle sfide del nostro tempo. Oltre a descrivere la figura del vescovo in circostanze socialmente critiche quale profeta di giustizia, padre dei poveri e difensore dei diritti dell’uomo che assume la difesa dei deboli, afferma testualmente che egli deve farsi “voce di coloro che non hanno voce per difendere i loro diritti”. Ventisei anni prima, mons. Romero aveva detto in una delle sue omelie: «Vogliamo essere la voce di coloro che non hanno voce per gridare contro tanto oltraggio dei diritti umani». E in un’altra omelia, pochi mesi prima della sua morte: «Siamo stati chiamati a difendere i loro diritti e ad essere loro voce» (18 nov. 1979).
Guardando alla problematica dell’America Latina, così chiaramente descritta nel documento di Aparecida, non c’è dubbio che mons. Romero è un vero accompagnatore dei nostri popoli con la vita, la parola e il martirio. La violenza, la disuguaglianza economica e sociale, la corruzione, il traffico della droga, la perdita dei valori continuano ad essere problemi gravi nelle nostre terre. La dignità della persona umana, conformemente all’atteggiamento cristiano verso il prossimo, è con troppa frequenza calpestata, anche dai servizi statali che discriminano la popolazione offrendo migliori o peggiori servizi di base a seconda delle etnie, i livelli economici, culturali, ecc. L’impunità continua ad essere una piaga e le migrazioni si moltiplicano in alcuni dei nostri paesi più poveri. Sostenere l’opzione preferenziale dei poveri continua ad essere una esigenza primordiale della fede cristiana nella testimonianza e nell’accompagnamento dei nostri popoli.
E di quell’accompagnamento mons. Romero continua ad essere un esempio. Martire in greco significa testimone e siamo in molti ad aspettare presto la sua beatificazione come martire. Nel suo “Commento al vangelo di Giovanni” Origene diceva che “chiunque ha dato testimonianza della verità, sia con le parole sia con le opere... deve dirsi martire (testimone); ma tra i fratelli, nel loro affetto verso coloro che hanno lottato fino alla morte per la verità, la consuetudine impose di chiamare martiri (testimoni) solo coloro che diedero testimonianza con l’effusione del sangue e della loro pietà”.
L’arcivescovo salvadoregno unisce nella sua persona i due significati di testimone e martire. La sua pietà lo stimolava a soccorrere i poveri, ad avere un cuore aperto verso coloro che soffrono, e una volontà attenta ad alleviare le sofferenze dei deboli. Se dovette affrontare i potenti non fu in alcun modo per conquistare ambiti di potere, privilegi o favori. Mons. Romero, nella sua umiltà personale e la sua fiducia in Dio imparò presto a servire dal basso, a partire dai bisogni della gente e dalle sofferenze dei poveri. E fu quello stesso stile di vicinanza personale, di servizio umile e di fiducia nella potenza di Dio che agisce sempre con amore, che lo trasformò in un santo dei nostri giorni.
Una santità che mostra
il senso della nostra storia
In effetti, la santità di Romero assomiglia a quella di Gesù, fa un tutt’uno con la sua e si muove sulle sue orme. È una santità che non divide. Al contrario include e invita sempre all’inclusione. È la santità del Padre buono “che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e gli ingiusti”, quella del buon samaritano che si ferma a curare l’uomo ferito, del padre che accoglie con gioia il figlio che dissipò i beni paterni in maniera irresponsabile, ma che ritorna pentito.
Romero, in questo senso, ci aiuta a riscrivere la storia dei nostri popoli non secondo la versione dei potenti, ma a partire dalla resistenza, dall’amore semplice e dalla forza che scaturisce dai valori umani più elementari dei nostri popoli, ricevuti, purificati e trasformati in energia di vita per mezzo della fede cristiana. In una visione miope della persona ci si abitua a pensare e a dire che la storia la scrivono i più forti, i vincitori. Le vittime non contano. In ultima analisi, e in questa storia dei forti, esse sono un avvertimento di ciò che può capitare a tutti coloro che vi si oppongono. Romero ci dice qualcosa del tutto diverso. Ossia che il senso profondo della storia, il progresso verso l’umanizzazione imprimono le vittime per quello spirito profondo che tutte possiedono nella loro ricerca del bene, della giustizia e della libertà. Le vittime illuminano la realtà perché da esse erompe sempre un grido che proclama misericordia, solidarietà, giustizia e indignazione. La santità di Gesù comprende tutte le vittime della storia. Lui stesso si fa vittima per la nostra salvezza. E Romero lo segue in quella dimensione di chi sceglie di farsi vittima con le vittime della storia per mostrare una nuova via di salvezza.
Eusebio di Cesarea, quando scrive quella che è ritenuta la prima storia della Chiesa, mostra nel prologo il contrasto tra due storie. La storia delle “vittorie in guerra”, dei trofei contro i nemici, delle imprese dei generali e degli eroismi dei soldati sporchi di sangue e delle innumerevoli morti” e quella ”delle più pacifiche lotte per la pace dell’anima e il nome di quanti in esse si comportarono valorosamente; più per la verità che per terra patria”. Di questi dice: «si proclameranno pubblicamente, a perenne memoria, la resistenza degli atleti della fede, il loro coraggio, temprato da mille sofferenze... le vittorie contro i nemici invisibili e, al termine, le loro corone”. Romero nella sua fedeltà al popolo sofferente del Salvador è diventato uno di quei testimoni che trascendono non solo il piccolo paese del Centro America, dove prestò il suo servizio, ma la stessa America Latina. Si inserì in quella storia trascendente in cui la vittima trionfa sul carnefice e brilla accanto all’ “Agnello immolato che sta in piedi” come l’Apocalisse definisce il Signore Gesù. Accanto a lui, come discepolo e missionario, continua ad accompagnarci e a infonderci speranza nel cammino pensando che egli, morto con coraggio, continua a trasfondere forza nella storia dei nostri popoli, invitando tutti noi alla coerenza cristiana e a trasformare ogni struttura ingiusta che umilia la dignità umana.
Quando p. Ignazio Ellacuria diceva che “con mons. Romero Dio è passato per il San Salvador” non intendeva esagerare o fare una bella battuta. Diceva una verità fondamentale. Dio cammina con il suo popolo e non solo gli invia dei profeti, bensì dei servitori che attualizzano nella storia, pur essendo deboli e peccatori, ma con la sua grazia, lo stesso Gesù risorto.
Nel 1985 ebbi in sorte di celebrare la Pasqua di Risurrezione nel Salvador, in un rifugio che la Chiesa aveva attrezzato per le vittime e i rifugiati della guerra civile. Domandai alla gente semplice come, secondo loro, gli apostoli avevano vissuto la risurrezione. Una contadina disse davanti alla comunità: “Immagino che avvenne come quando uccisero mons. Romero. In quel momento molti di noi pensavano che non ci fosse più speranza per il nostro popolo. Ma sentendo che mons. Romero era morto per aiutarci e proteggerci, fu come se si accendesse in noi un fuoco che ci diceva di continuare a sperare e a lottare per i diritti e la vita dei nostri figli. Qualcosa del genere dovettero esperimentare gli apostoli”. Con la fede semplice del nostro popolo questa donna stava scoprendo la forza dello Spirito di Cristo che agiva nei cuori deboli degli apostoli.
Mons. Romero continua ad accompagnarci anche ad altri livelli. Uomo pieno di bontà e di compassione verso quelli che soffrono, scoprì subito in quei tempi di violenza, quell’ingiustizia strutturale che secondo la nostra fede possiamo chiamare peccato sociale.
In dialogo permanente
strutturale ed ecumenico
Di fronte a questo genere di peccato è necessario rispondere, per così dire, con la carità strutturale. Egli ha aperto delle strade in quella responsabilità che consiste nello svelare e denunciare quel genere di strutture sociali che emarginano, fanno gli interessi del più forte rispetto al debole, impediscono lo sviluppo delle capacità delle persone. Quando oggi vediamo ancora tra di noi il peso eccessivo di un capitalismo selvaggio e la forza di quell’ “economia che uccide”, come dice papa Francesco, Romero si erge come una luce che illumina il cammino. Non solo per le sue denunce, ma per quella razionalità compassionevole sottostante. La sua figura continua a ricordarci che la disuguaglianza socio-economica è un peccato perché fa soffrire. E ci incoraggia a stare accanto alle cause dei poveri i quali semplicemente anelano e solo aspirano a una società in cui la solidarietà, la dignità della persona e la fraternità possano esprimersi nella libertà delle opzioni personali e nelle decisioni orientate al bene comune. Buon conoscitore della Dottrina sociale della Chiesa, il nostro arcivescovo martire ci invita ad attuarla nella costruzione di società più fraterne e solidali.
Un ultimo aspetto di questo accompagnamento, come testimone del Signore e del suo camminare nella nostra storia, Romero ce lo offre nella sua dimensione ecumenica. Il sacrificio martiriale di questo pastore tanto identificato con “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono,” (Gaudium et spes 1), supera i limiti della nostra Chiesa cattolica. Quando si celebrano i suoi anniversari, vengono anche degli aderenti a numerose altre chiese. La Chiesa anglicana, alcuni anni fa, ha collocato sulla facciata della cattedrale di Canterbury le immagini di coloro che sono stati definiti, e a ragione, i martiri cristiani del XX secolo. Accanto a persone come Dietrich Bonhoeffer o Martin Luther King, c’è mons. Romero. Il pastore semplice del paese più piccolo e tribolato del Centro-America, è posto accanto a uno dei principali teologi della modernità, o a uno degli attivisti religiosi dei diritti umani di maggior fama internazionale. Uniti nel martirio, nella testimonianza di coraggio evangelico e di autentica “parresia”, di fronte alle piaghe del razzismo, della brutalità, della segregazione e dell’esclusione, armati solo della forza della loro fede personale e della Parola del Vangelo. Questi e molti altri si uniscono al grido di tutti coloro che “vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello” (Ap 7,14). Quando il testo dell’Apocalisse dice che per quella stessa ragione “stanno davanti al trono di Dio”, esso invita tutti noi a considerarli come esempio nel cammino, come forza nell’agire, come speranza nella difficoltà e come testimoni del trionfo finale di un amore che, manifestato definitivamente in Cristo e a quanti sono uniti a lui, nessuno e nessuna cosa ci potrà mai strappare.
José M. Tojeira, SJ