Discernere i tempi
2015/2, p. 40
L’uso del tempo tocca da vicino la vita concreta nei suoi aspetti fondamentali: il lavoro, le relazioni comunitarie, la preghiera, la perseveranza, le età della vita.
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Il buon uso del tempo nella vita spirituale
Discernere i tempi
L’uso del tempo tocca da vicino la vita concreta nei suoi aspetti fondamentali: il lavoro, le relazioni comunitarie, la preghiera, la perseveranza, le età della vita.
Il testo che proponiamo nella versione originale, inviata dagli autori Adalberto Piovano e Manuela Scheiba, è il contenuto del III capitolo del libro Il buon uso del tempo nella vita spirituale della collana diretta dai monaci di Camaldoli, edito da EDB nel 2014 per raccogliere i contributi della II Settimana di spiritualità monastica, svoltasi nell'autunno del 2012 al monastero di Camaldoli, organizzata insieme all'Istituto Monastico del Pontificio Ateneo «S. Anselmo». I relatori intervenuti sono voci autorevoli nell'ambito della riflessione contemporanea sulla spiritualità monastica: don Adalberto Piovano OSB, del monastero di Dumenza, docente all'Istituto di liturgia pastorale «Santa Giustina» di Padova, che ha offerto uno sguardo panoramico sulla tradizione monastica, attingendo in particolare ai detti dei padri del deserto; e suor Manuela Scheiba OSB, del monastero di Àlexanderdorf (presso Berlino), docente all'Istituto Monastico del Pontificio Ateneo «S. Anselmo», che si è soffermata soprattutto sulla Regola di s. Benedetto.
I testi dei loro interventi possono essere un utile strumento di riflessione per monaci e monache, ma anche per chiunque sia alla ricerca di un sapiente uso del tempo nella propria vita.
Il simbolo della scala
Il simbolo della scala, attraverso la sua dinamica, inserisce bene la vita spirituale nella categoria della progressione, della maturazione, legandola a un movimento ascensionale. La faticosa salita verso una cima rievoca immediatamente un linguaggio caro alla tradizione ascetica antica: quello del ponos, dell’esercizio e del lavoro faticoso, dell’impegno ascetico che modella la propria struttura umana rendendola conforme all’icona dello Spirito. In questo cammino è coinvolta la totalità della persona, nella sua concretezza «carnale» e nella sua realtà spirituale, nel tempo e nello spazio; essa è simbolicamente espressa dalle due dimensioni, umana e divina (corpo e spirito, terra e cielo), congiunte dalla scala.
È ciò che la Regula Benedicti 7,8-9 esprime interpretando l’immagine della scala discendente dell’umiltà.
E la scala elevata in alto è la nostra vita presente che il Signore, quando avrà reso umile il nostro cuore, innalzerà fino al cielo. Si può anche dire che i lati di questa scala sono il nostro corpo e la nostra anima. Tra questi lati la divina chiamata ha posto per noi diversi gradi di umiltà e di ascesi spirituale.
Come ci suggerisce il testo di Regula Benedicti, la scala esprime anche la gradualità e l’ordine di un cammino, fatto di tappe e tempi sottoposti a una discretio che tiene conto della soggettività di ciascuno.
C’è un tempo per ogni cosa
Per Giovanni Climaco, questa progressione è proprio un’applicazione del principio di discernimento: «Se vi è un’idea che svolge un ruolo determinante nella pedagogia spirituale (di Climaco), è che c’è un tempo per ogni cosa e che è pericoloso voler ottenere prematuramente ciò che, se si rispetta l’ordine normale, avverrà a suo tempo». Così scrive Climaco, riecheggiando il linguaggio del Qoelet:
«Se vi è un tempo per ogni cosa che avviene sotto il cielo, come dice l’Ecclesiaste, e una di tali cose è la nostra vita religiosa, esaminiamo, se pare bene, e cerchiamo in ogni momento quali azioni siano proprie di ogni tempo. È certo, infatti, che per quelli che combattono, c’è un tempo per l’impassibilità e un tempo per dominare le passioni – lo dico per quelli che cominciano la lotta –, c’è un tempo per le lacrime e un tempo per l’aridità del cuore, un tempo per obbedire e un tempo per comandare; un tempo per digiunare e un tempo per partecipare ai banchetti; un tempo per combattere il corpo, nostro nemico, e un tempo per mettere a morte le passioni; un tempo per la burrasca dell’anima e un tempo per la calma della mente; un tempo per la tristezza del cuore e un tempo per la gioia spirituale; […] un tempo per la preghiera incessante e un tempo per il sincero servizio. Non cerchiamo, ingannati da zelo orgoglioso, di fare prima del tempo le cose che vanno fatte a loro tempo. Non cerchiamo in inverno ciò che è dell’estate, o al tempo della semina, ciò che deve venire nel tempo della mietitura, perché c’è un tempo per seminare le fatiche e un tempo per mietere gli ineffabili doni di grazia. Altrimenti, neppure quando sarà giunto il tempo potremo raccogliere i frutti propri di quel tempo».
A questo testo di Climaco potrebbe fare eco l’inizio del cap. 48 della Regula Benedicti, in cui viene ripreso il criterio del discernimento in relazione al tempo. Per evitare il rischio dell’ozio, cioè di un tempo senza direzione e senza ordine, Benedetto parla di certis temporibus, cioè suggerisce di riservare a ogni tempo una particolare attività, in modo che ogni tempo ha una sua precisa configurazione nella giornata del monaco. Solo così può portare un frutto desiderato e far progredire nella vita.
Applicando questo al cammino spirituale, come già ci orienta Climaco, possiamo individuare alcuni particolari tempi che ciascuno è chiamato a discernere come tappa della sua vita e nella quale è necessario abitare, senza cercare «ingannati da zelo orgoglioso, di fare prima del tempo le cose che vanno fatte a loro tempo».
Discernere il tempo come dono
Nella vita spirituale ogni tempo, qualunque sia la caratteristica o il frutto che esso porta, qualunque sia il modo con cui esso appare nella nostra vita, è un dono. E
il tempo come dono è un sacramento dell’amore di Dio. Anche la successione ordinata del tempo, dunque il tempo misurato, i giorni, i mesi, gli anni, e poi le feste (Gen 1,14-19) e il ritmo feria-festa, corrisponde a un dono di Dio. E al dono si risponde con la gratitudine e la responsabilità. Il tempo visto come dono chiede di esser vissuto non come un caso o una fatalità: esso, anzi, immette la vita nello spazio del gratuito, dell’amore preveniente di Dio. Il tempo è opera di paternità: è il Dio Padre che per amore crea e creando pone l’alterità e la temporalità. Dio, dice Agostino, che «è creatore e ordinatore del tempo non ha creato il mondo nel tempo, ma col tempo» (De civitate Dei XXI,6).
Se il tempo è sempre un dono, allora si deve imparare a riceverlo continuamente, nella pazienza di chi sa accoglierlo ogni giorno e nella fiducia di chi sa attenderlo anche per il domani. Due apoftegmi ci aiutano a questo discernimento del tempo.
Un anziano disse: «Questa generazione non cerca l’oggi, ma il domani».
Pazienza e umiltà
Nella vita secondo lo Spirito, una delle virtù maggiormente necessarie per una autentica maturazione è sicuramente la pazienza. Si accompagna normalmente con l’umiltà, anzi ne diventa uno dei volti in relazione al tempo e alla gradualità di un cammino. Climaco ci ha messo in guardia dal forzare il processo di maturazione spirituale mediante un’impazienza che pretende di ottenere risultati prima del tempo; è estremamente pericoloso voler ottenere prematuramente ciò che, se si rispetta l’ordine normale, avverrà a suo tempo. Sottoporre tappe e tempi di un cammino a un discernimento che tiene conto della soggettività di ciascuno, richiede estrema pazienza. È necessario saper attendere, senza lasciarsi trascinare o in avanti o indietro, senza nostalgie o pericolosi entusiasmi, lavorando e impegnandosi nella vita secondo lo Spirito a partire dai mezzi, dalle occasioni, dalle grazie che ogni giorno ci sono date, nell’umiltà e nel desiderio di raggiungere la meta. La pazienza si nutre di tutte queste cose.
Ma la pazienza, ci ricorda l’apoftegma, si esprime soprattutto nella capacità di vivere il tempo che ci è donato. E il tempo donato è essenzialmente l’oggi. L’anziano si lamenta della generazione di monaci che ha sotto gli occhi: è una generazione, dice, che non cerca l’oggi, ma il domani. La prospettiva che l’anziano ci presenta, potrebbe sembrare un po’ riduttiva, soffocante; non è più stimolante, anche per la vita spirituale, tendere al futuro, guardare in avanti, puntare sempre sulla meta? Di fatto l’abbá del deserto non invita a giocare al ribasso, a accomodarsi in una tranquillità senza progressi. Anzi, un altro detto ci ricorda: «Fu chiesto a un anziano: “Perché sono sempre scoraggiato?” Rispose: “Perché non hai ancora visto la meta”». Ciò che viene suggerito nel nostro detto è proprio la pazienza che ci permette di vivere nell’attesa della meta a partire dall’oggi, l’unico tempo di grazia donatoci e che dobbiamo gestire con responsabilità e umiltà. Nell’oggi ci è data la possibilità di perseverare: rimanere nell’oggi, senza «sognare la vita», fuggendo in qualche modo dalla sua precarietà e fragilità, diventa una reale ascesi che ci tempera. Questa ascesi comporta una rinuncia a tutte quelle illusioni che ci appaiono come alternative al presente; comporta accettare se stessi e l’altro; comporta accogliere le fatiche dei propri impegni e lavori o il peso della comunità in cui siamo inseriti. Questa ascesi abitua e permette di accettare le tappe della propria vita con i loro limiti costitutivi e le loro ricchezze, di assaporarle senza fughe nel passato o nel futuro, senza angoscia o paura. L’ascesi dell’oggi è vera sapienza spirituale. «Se qualcuno perde dell’oro o dell’argento – dice un anziano – potrà ritrovarlo, ma se perde un’occasione, non potrà ritrovarla».
Abba Poemen disse di abba Pior che ogni giorno cominciava.
Anche in questo detto si può notare un richiamo alla pazienza come capacità di cogliere il tempo donato. La parola ypomoné significa letteralmente «rimanere sotto»; è propria di chi, nonostante tutto, rimane saldo sotto i colpi che riceve e che vogliono fargli cambiar luogo, sballottarlo a destra e a sinistra, disorientandolo. Dunque, la pazienza potrebbe suggerire, a quanto pare, una realtà statica della vita: si rimane fermi e si attende. Ma sono tanti i luoghi dove si può rimanere fermi senza muoversi e senza spostarsi. E uno di questi luoghi, anzi il luogo per eccellenza, è il cammino della propria vita, il cammino di conversione, il cammino di sequela del Signore, il cammino sotto la guida dello Spirito. Lo stare fermi si traduce nel non abbandonare mai il tracciato di questa via. Ma su di essa si progredisce, si va avanti, si riprende il passo. E, paradossalmente, la pazienza si trasforma nella capacità di durare nel cammino nonostante gli incidenti del percorso.
Credo sia questo ciò che esprime il detto di abba Poemen parlando della virtù dell’abba Pior. La virtù di questo anziano è la pazienza, ma vista come capacità di ripresa quotidiana, umiltà di colui che si sente sempre principiante e non ha paura di cominciare tutto da capo, nella fiducia che il tempo donato sarà una nuova occasione per riprendere il cammino. Certamente, cominciare ogni giorno può produrre un senso di sconforto o di frustrazione. Ma come: ciò che si è fatto finora non vale nulla? E se comincio ogni giorno, non rischio di non concludere mai? Cosa vuol dire veramente «cominciare ogni giorno»?
Non penso significhi sfiducia in ciò che si fa, ma piuttosto senso dell’inadeguatezza. Alla sera di ogni giorno si prende coscienza che tutto ciò che abbiamo fatto di buono ha il suo valore, ma è anche al di sotto delle esigenze del cammino di sequela. Abba Pambo, in punto di morte, diceva: «Da quando son venuto in questo luogo nel deserto e ho costruito la mia cella e vi ho abitato, non ricordo di aver mangiato pane se non guadagnato con il lavoro delle mie mani, né finora mi sono pentito di una parola che ho detto. Eppure vado a Dio come se non avessi cominciato a servirlo». Uno, a un certo punto (forse un po’ malato di perfezionismo) potrebbe piantar lì tutto, visto che non può mai raggiungere la pienezza. Ma si può anche riconoscere, con umiltà, che ciò che non abbiamo potuto compiere oggi, ci sarà dato di compierlo domani. E così, al mattino del nuovo giorno, si ricomincia a seguire il Signore, a cercarlo, a convertirsi, a amare i fratelli, ecc… Ma credo che pensare il proprio cammino come costellato di tante possibilità di inizio, sia un grande segno di fiducia in Dio. È un’esperienza consolante sapere che Dio mi dà, ogni giorno, la possibilità di rimettermi alla sua ricerca, a seguire Gesù, a vivere nello Spirito. Dopo ogni situazione che sembra troncare e chiudere la strada che si sta percorrendo, ecco un nuovo inizio donato dall’amore di Dio. Questa è la pazienza dell’umile abba Pior, quella pazienza che sa stupirsi di fronte al dono del tempo.
Discernere il tempo della conversione
In questo tempo che ogni giorno ci viene donato c’è un ulteriore discernimento da compiere: esso riguarda la propria conversione. Quel cominciare ogni giorno che caratterizzava il cammino dell’abba Pior non è altro che essere consapevoli che l’oggi è il tempo della propria conversione. Non è senza significato che Benedetto, nel prologo alla sua Regola, citi due testi scritturistici che invitano al discernimento di questo particolare tempo: «È ormai tempo di svegliarci dal sonno» (Rm 13,11) e «Oggi, se ascoltate la sua voce, non indurite il vostro cuore» (Sal 95,8). Anche in questo caso, un apoftegma può aiutarci a comprendere il significato di questo discernimento quotidiano nella vita spirituale.
Abbá Poemen disse: «C’è una voce che grida all’uomo fino all’ultimo respiro: “Oggi
convertitevi!”».
Di fronte alla tentazione che mette alla prova il cuore dell’uomo e lo fa entrare nel crogiolo della lotta spirituale, non si deve mai perdere di vista che essa è una realtà che ci accompagna ovunque e sempre. Ce lo ricorda l’abbá Antonio: «Questa è la grande opera dell’uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio e attendersi la tentazione fino all’ultimo respiro». Tuttavia non si deve mai dimenticare che c’è anche un’altra realtà, profondamente legata all’esperienza della tentazione, che mai ci abbandona: è la possibilità di riprendere continuamente il cammino verso la vita, rialzarci dopo ogni caduta, con umiltà e pazienza, e ritrovare la strada che avevamo smarrito. È il cammino della conversione. «Qualcuno ha generato la morte – ci ricorda ancora Antonio il Grande – ma se egli fa il bene, genererà la vita». A ogni movimento verso la morte, a cui ci conduce il peccato, corrisponde una possibilità di vita e un cammino verso di essa. È questa l’occasione quotidiana che il Signore ci offre, la fiducia che l’amore di Dio ripone in noi, il «sì» della vita che lui ci propone ogni volta che noi scegliamo il «no» della morte generato dal peccato.
E ciò che ci ricorda abbá Poemen: se dobbiamo attenderci la tentazione fino all’ultimo respiro (e con essa la possibilità di scegliere il «no» del peccato), siamo anche invitati ogni giorno a ascoltare una voce che grida all’uomo fino all’ultimo respiro: «Oggi convertitevi!». Ogni giorno questa voce ci parla, ogni giorno ci ridà la fiducia nella vita, ogni giorno ci rialza. È consolante pensare a questa voce che non si stanca, che continuamente parla al nostro cuore, che ci ricorda che possiamo essere diversi da ciò che siamo stati.
Ma c’è un rischio: quello di non ascoltare oggi questa voce, sapendo che domani ritornerà a parlarci. E così rimandare il cammino della conversione. Un’antica versione latina di questo detto suona così: «“Che cos’è la penitenza?”, domanda un fratello all’abba Poemen. E questi risponde: “La penitenza dei peccati è non commetterne più. C’è infatti una voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: Oggi convertiti!”». Convertirsi non è una possibilità che può essere rimandata, ma dev’essere accolta ogni giorno come scelta decisiva, pur consapevoli che tale scelta potrà e dovrà esser rinnovata. Il non decidersi è, in fondo, non solo sciupare un’occasione che il Signore ci dona, ma cadere nella sfiducia di noi stessi. Ciò che dobbiamo guardare per decidere è anzitutto la fiducia che il Signore ha in noi, la possibilità di un cammino nuovo che ci offre. Questo ci dona la forza di rialzarci ora (oggi) e rialzarci ancora se eventualmente cadremo, domani.
Discernere il tempo della tentazione
Il discernimento del tempo della conversione si accompagna al discernimento di un altro tempo, quello della tentazione. Nella tentazione, come spesso ci ricorda la Scrittura e la tradizione spirituale, noi scopriamo ciò che abita il nostro cuore, il suo stato, la qualità dei suoi desideri, se essi sono secondo lo Spirito oppure no. Questo ci permette poi di scegliere la via della conversione, se il nostro cuore è lontano da Dio. Come discernere il tempo della tentazione?
Abbiamo citato più sopra un detto di Antonio che metteva in guardia dalla pretesa di collocare la tentazione in un tempo particolare della propria vita, ben delimitato e facilmente identificabile: siamo chiamati a «attenderci tentazioni sino all’ultimo respiro», cioè a porre continuamente in atto, per tutta la durata della vita, l’esercizio del discernimento per essere pronti a cogliere il tempo della tentazione. A questo riguardo possiamo riprendere il simbolo dei quarant’anni di Israele nel deserto, tempo lungo in cui si susseguono tante prove. Questo simbolo è ripreso anche nel racconto delle tentazioni di Gesù: quaranta giorni nel deserto in digiuno, al termine dei quali Gesù viene tentato. È significativo che l’attacco del tentatore avvenga dopo quaranta giorni di digiuno: è così indicato un tempo che, in qualche modo, è necessario portare a pienezza perché possa avvenire il discernimento. D’altra parte, i quaranta giorni passati nel digiuno si rivelano come un tempo che conduce gradualmente a un limite massimo di resistenza in cui ci si scontra con la propria fragilità, in cui si prende coscienza di ciò che è essenziale alla propria vita, ma anche si diventa oggetto di attacco e di seduzione. Il tempo della tentazione ci coglie sempre impreparati e ci accompagna per tutto il cammino della vita. Ce lo ricorda un apoftegma:
“Un fratello che viveva alle Celle, era turbato dalla solitudine; venne da Teodoro di Ferme e glielo disse. E l’abba gli rispose: «Va’, umilia il tuo pensiero, sottomettiti e vivi con altri». Il fratello tornò dall’anziano e gli disse: «Neppure in mezzo agli uomini trovo pace». Gli disse l’anziano: «Se da solo non trovi pace e con altri neppure, perché sei uscito dal mondo per farti monaco? Non forse per sopportare la tribolazione? Dimmi: da quanti anni hai indossato l’abito?». Gli rispose: «Da otto». Gli disse allora l’anziano: «In verità io ho trascorso ottant’anni nella vita monastica e non ho trovato pace un solo giorno, e tu pretendi di averla dopo otto anni?». Udite queste parole il fratello se ne andò fortificato”.
L’esperienza della dimensione globale che la tentazione e la prova acquistano per il discepolo di Cristo investe spazio e tempo, corpo e spirito, cuore e mente, trasformando l’intera esistenza in luogo di confronto e scontro con il tentatore.
Così afferma Isacco il Siro: «Questo mondo è la palestra della lotta e lo stadio della corsa; e questo tempo è il tempo del combattimento. E il luogo del combattimento e il tempo della lotta non sono soggetti a una legge. Ciò significa che il re non ha posto un limite ai suoi lavoratori, finché non sia finita la lotta e non siano tutti radunati nel luogo del Re dei re. Lì sarà esaminato colui che ha perseverato nella battaglia e non ha ricevuto sconfitta, e colui che non ha voltato le spalle […].
Perciò, nessuno abbandoni la speranza. Solo: non disdegni la preghiera e il chiedere aiuto a nostro Signore. Teniamo bene nell’intelligenza questo: per tutto il tempo in cui siamo in questo mondo e abitiamo in questo corpo, se anche fossimo innalzati fino alla volta dei cieli, non ci è possibile restare senza fatica e avversità, e senza preoccupazione. »
In questa prospettiva si colloca anche il detto di abbá Teodoro. Nella sua risposta a quel fratello pieno di turbamenti e provato dalla tentazione, il saggio abba lo pone di fronte con molto realismo a questa esperienza: la tentazione ti accompagnerà ovunque – sembra dirgli. E di fatto questo apoftegma ci fa comprendere due cose riguardo alla tentazione.
La prima è in riferimento al luogo della tentazione. Ogni luogo e ogni condizione di vita hanno le loro tentazioni. Se per fuggire le prove che si incontrano nella solitudine si cerca la vita comune, anche lì si troveranno tentazioni. Non possiamo illuderci, e lo sappiamo bene: eppure si è sempre un po’ trascinati da questa suggestione. Teodoro non usa mezzi termini di fronte a questa paura della prova: «se da solo non trovi pace e con altri neppure, perché sei uscito dal mondo per farti monaco? Non forse per sopportare la tribolazione?». Bisogna guardare in faccia la tentazione e non fuggire da essa. Questa è la lezione di abbá Teodoro.
Ma c’è anche un altro insegnamento che l’abba ci offre. Ogni età e ogni tempo, ogni stagione della vita hanno le loro tentazioni. Quel giovane discepolo pensava che le tentazioni fossero un tappa legata agli inizi della vita monastica – otto anni sono come una sorta di noviziato. Anche qui abba Teodoro lo disillude: lui, anziano, che ha passato ottant’anni di vita monastica, è ancora tentato, anzi non ha trovato pace un solo giorno.
Siamo riportati al realismo della vita e, in particolare, alla concretezza della vita spirituale. Senza illusioni, ci si deve mettere in cammino, sapendo che le tentazioni (anche se in forme diverse e certamente sempre più capaci di viverle nello Spirito) ci accompagneranno sempre. Come ci ricordava l’abbá Antonio il Grande: «Bisogna attendersi la tentazione sino all’ultimo respiro».
Discernere il tempo della lotta
Nel testo della Scala precedentemente citato, Giovanni Climaco dice: «È certo, infatti, che per quelli che combattono, c’è un tempo per l’impassibilità e un tempo per dominare le passioni – lo dico per quelli che cominciano la lotta». Nel cammino spirituale, proprio a partire dall’esperienza della tentazione, ci si imbatte inevitabilmente nel tempo della lotta: essa è necessaria per purificare il cuore e renderlo terreno che permette la maturazione del frutto dello Spirito. Ce lo ricorda una madre del deserto. Amma Teodora disse: «Lottate per entrare per la porta stretta. È come per gli alberi: se non attraversano gli inverni e le piogge, non possono dare frutti. Così anche per noi, il mondo presente è un inverno. Se non passiamo attraverso molte sofferenze, non possiamo diventare eredi del regno dei cieli».
Dunque, nella vita secondo lo Spirito, diventa fondamentale discernere il tempo in cui si entra nella lotta. E come per la tentazione, anche per la lotta, questo discernimento è continuo. Così scrive Isacco il Siro: «La lotta non termina in un attimo, né la grazia viene tutta intera in una volta e abita nell’anima. Ma un po’ e un po’; ci sarà l’una e l’altra: c’è un tempo per la tentazione e un tempo per la consolazione. Una parte della lotta perdura fino alla morte: non sperare di qui la liberazione piena da essa.»
Riportiamo queste parole di Isacco di Ninive perché ci aiutano a comprendere un aspetto fondamentale della lotta spirituale. Come la tentazione, così anche la lotta che da essa deriva, non è l’esperienza di un momento, non è legata semplicemente agli inizi sempre faticosi di in cammino. Non solo la lotta è necessaria in un itinerario spirituale, ma essa è anche una dimensione che ci accompagna durante tutto il cammino. Credere diversamente, credere che si possa arrivare a un momento in cui si può fare a meno della lotta così da procedere indisturbati e pieni di gioia nella vita spirituale, significa sottovalutare le astuzie del nemico, significa cedere all’orgoglio e all’illusione di aver già raggiunto la meta.
«Una parte della lotta perdura sino alla morte: non sperare di qui la liberazione piena da essa». Così ci mette in guardia Isacco. Perché questa estenuante presenza della lotta? Perché non possiamo aver pace e dover sempre combattere? Isacco non ci dà una risposta chiara a questo interrogativo. La lotta ci accompagna ovunque perché solo così possiamo dare prova di una fedeltà e di una pazienza, e prendere coscienza della nostra fragilità. Anche alle più alte vette dell’esperienza spirituale ci è sempre possibile cadere, sempre siamo attaccati. Anzi, più si progredisce nella vita spirituale, più la lotta si fa pericolosa e sottile.
Ma Isacco, nel nostro testo, ci ricorda anche che, accanto alla lotta, noi facciamo esperienza di consolazione, di gioia, di grazia. A volte lotta e consolazione sembrano alternarsi, rivelando una sorta di pedagogia dello Spirito. Non si può sempre lottare; ma è anche rischioso pretendere di vivere sempre nella consolazione. Le due esperienze, sapientemente dosate, sono ugualmente necessarie alla crescita spirituale: «ma un po’ e un po’; ci sarà l’una e l’altra». In greco si dice: «da questa, quella». Dunque, più che un alternarsi, si sperimenta un profondo legame tra le due esperienze: non ci potrà essere consolazione, se non si farà esperienza di fatica e lotta, perché lo Spirito, come dice la sequenza di Pentecoste, è in labore requies, nella fatica riposo.
Adalberto Piovano – Manuela Scheiba