Salvarani Brunetto
In cammino verso le periferie
2015/2, p. 28
Nell’intenzione degli organizzatori del convegno l’unica prospettiva vincente (e convincente) della missione oggi è quella di una Chiesa in grado di porsi in cammino verso le periferie e in ascolto del Vangelo e dei poveri, come indicato da papa Francesco.

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Testimoni
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IV Convegno nazionale a Sacrofano sulla missione
IN CAMMINO
VERSO LE PERIFERIE
Nell’intenzione degli organizzatori del convegno l’unica prospettiva vincente (e convincente) della missione oggi è quella di una Chiesa in grado di porsi in cammino verso le periferie e in ascolto del Vangelo e dei poveri, come indicato da papa Francesco.
«San Paolo scrive ai Filippesi: “dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso quanto mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Gesù Cristo” (Fil 3, 13). Questa è un’immagine meravigliosa e dinamica. Paolo si protende come un atleta olimpionico in cerca della medaglia d’oro. Essere cittadini del Regno significa vivere questo dinamismo. Il missionario soffre d’incompletezza, è fatto a metà fino a quando verrà il Regno, dove tutti saranno uno. Siamo alla ricerca di quella verità che ora solo intravvediamo. Essere futuri cittadini del Regno, significa essere dinamicamente e gioiosamente incompleti».
Questa riflessione sulla missione nel tempo della globalizzazione, firmata dal domenicano Timothy Radcliffe, potrebbe essere una buona chiave di lettura per il IV Convegno missionario nazionale, svoltosi a dieci anni dall’ultimo appuntamento analogo a Sacrofano (Roma) dal 20 al 23 novembre scorsi, sotto il tiolo evocativo “Alzati, va’ a Ninive la grande città”. Dove il Vangelo si fa incontro. Perché il missionario, pur nell’ammissione delle tante criticità odierne, sa di vivere, nonostante tutto, il dinamismo del Regno: e di farlo in prima linea.
Sfide
cruciali
Si è trattato di un momento importante per l’ancor vasto e variegato mondo missionario italiano, chiamato ad affrontare una serie di sfide cruciali: la faticosa trasformazione del paradigma tradizionale tracciata dal decreto conciliare Ad gentes, la nuova situazione offerta dalla fine del regime di cristianità e la contestuale ipotesi di una nuova evangelizzazione in terre da sempre cristiane e oggi largamente secolarizzate, il complesso rapporto fra missione e dialogo interreligioso, per citare appena le più significative.
Nell’intenzione degli organizzatori – l’Ufficio nazionale per la cooperazione missionaria fra le chiese della CEI, la Fondazione Missio e la Fondazione Cum – l’unica prospettiva vincente (e convincente) è quella di una Chiesa in grado di porsi in cammino verso le periferie e in ascolto del Vangelo e dei poveri (inevitabile cogliere, anche nel linguaggio adottato, lo stile apportato da papa Francesco). Una Chiesa disposta a prendere a modello il profeta Giona chiamato a Ninive, pur con tutte le ambiguità insite in questa figura biblica non priva di contraddizioni, e a mettersi in strada per annunciare, prima di tutto, la misericordia sorprendente di Dio. Una Chiesa capace di ascolto non solo del grido dei poveri – urgenza imprescindibile, rilanciata dal padre della teologia della liberazione, Gustavo Gutierrez, in un intervento assai applaudito – ma pure delle tante espressioni dell’unica fede, che in ogni cultura e continente assume una forma specifica.
L’iniziativa ha registrato un’ottima risposta in termini di presenze: 880 i delegati in sala e un centinaio i missionari collegati via web nel mondo. È un popolo, quello missionario, che conosce sì fatica e stanchezze, al cui interno aumentano i capelli bianchi e le defezioni, mentre, non di rado, serpeggia la sfiducia; ma anche un popolo che non vorrebbe arretrare di fronte al compito affidatogli nell’occasione proprio da Bergoglio: «Vi esorto a non lasciarvi rubare la speranza e il sogno di cambiare il mondo con il Vangelo, con il lievito del Vangelo, cominciando dalle periferie umane ed esistenziali». Una Chiesa in cammino e in ascolto è quella cui il mondo missionario cerca ogni giorno di dar forma, pur facendo i conti con i tanti ritardi e limiti del proprio operare e del contesto in cui siamo immersi. Lo fa, a dispetto della crisi di vocazioni e della diminuzione degli effettivi, sforzandosi di adottare una forma di vita cristiana che intende essere memoria della semplicità e radicalità evangeliche. In realtà, come è emerso bene a Sacrofano, i problemi che si pongono all’interno della vita missionaria non sono poi così estranei ai problemi che la Chiesa stessa si trova a vivere nel mondo accidentato e pluralistico di oggi.
Camminare
insieme...
«La missione abbandona ogni logica di proselitismo per diventare esperienza mistica del Mistero di Colui che nella storia ha lasciato solo delle tracce da ricercare nell’alterità; nei percorsi di trasformazione e liberazione di donne e uomini e di interi popoli, nelle loro sapienze e nelle loro fatiche». Questo il cuore dell’intervento biblico della religiosa domenicana Antonietta Potente, posta significativamente in apertura dei lavori del convegno. Commentando un brano evangelico, la teologa e missionaria in Bolivia ha ricordato che «l’inquietudine sostiene la nostra ricerca degli altri, al di là di ogni confine geografico, culturale, ideologico». Una rivoluzione copernicana della missione, quella che Antonietta suggerisce, che può riassumersi nel ritornello-imperativo camminare insieme: «Di fronte alle ferite della storia, essere missionari oggi significa fare nostre le parole di Maria di Magdala, quel versetto che recita Non sappiamo dove l’hanno posto in riferimento a Gesù Risorto». Perché «un’umile uscita mendicante di ricerca insieme agli altri è l’annuncio più bello che oggi possiamo dare».
Ambrogio Spreafico, vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino e presidente della Commissione episcopale per la cooperazione missionaria tra le chiese, si è invece domandato se la parola di Dio abbia qualcosa da dire in una fase storica piena di violenze e di guerre, o se la pace e il dialogo sarebbero realtà utopistiche e irrealistiche. «La testimonianza dei missionari martiri – ha osservato – è la testimonianza di uomini e donne che non hanno accettato la logica della violenza e non hanno rinunciato ad annunciare e vivere il Vangelo della pace e dell’amore in mondi spesso segnati dalla violenza e a volte ostili...».
Uscire dall’assedio
verso l’ignoto
Il giorno seguente è toccato ad Aluisi Tosolini, dirigente scolastico e redattore di CEM Mondialità: restituire, con un’analisi originale, il quadro delle risposte fornite dai Centri missionari diocesani e dagli istituti missionari nell’ambito della fase preparatoria al convegno. Stando alla quale i protagonisti della missione, soprattutto quelli che vivono in Italia, si sentono minoranza e comunità sotto assedio, come se «il lutto per la fine della civiltà cattolica non fosse stato ancora elaborato»; chi è in missione sul campo percepisce invece l’essere minoranza come una ricchezza e una sfida, piuttosto che un limite o un pericolo. La metafora della comunità sotto assedio conduce a tre diversi comportamenti: il primo è arrendersi, venire a patti e trattare la resa; il secondo è resistere, attrezzandosi per resistere all’infinito, sviluppando vissuti di vittimismo, chiusura, incapacità di cogliere i nuovi contesti e le diverse occasioni di interazione con essi, dogmatismo; ma per Tosolini l’atteggiamento più corretto è il terzo, uscire dall’assedio, di correre il rischio, di camminare su spazi sconosciuti. Trovando il coraggio di affrontare nuove domande e nuove sfide, e lasciando il centro per rischiare la vita nelle periferie. L’invito del papa a recarsi nelle periferie del mondo diventa così, per chi lavora con la missione e nella missione, una spinta ad uscire verso l’ignoto, verso ciò che è percepito come altro da sé: «Per scoprire, forse, che il diverso non è così ostile e che il lontano è più vicino spiritualmente di quanto si creda».
È stata quindi la volta di due sguardi antropologici. Mauro Magatti si è chiesto: una Chiesa che si scopre una grande rete globale, che sta nel mondo con spirito deponente, contro la prepotenza degli apparati, può forse essere questo il senso della missione oggi? Bisogna ridefinire il ruolo della missione nell’era della globalità: «Viviamo un tempo apocalittico per la fede. In realtà c’è anche spazio per il religioso, che spesso però diventa devozionale o fondamentalista». Pertanto, ha suggerito, questo «è il tempo dei testimoni: siamo chiamati a dare testimonianza che l’eccedenza della fede genera vita».
Ma in che modo comunicare la missione? Con il dialogo, il silenzio, «la riduzione di distanze», anche «con i lontani e con chi segue altre religioni». Non solo con le parole, ma con gesti e stile, usando il linguaggio delle beatitudini: «misericordia, pace, persecuzione», ha risposto Chiara Giaccardi.
Una Chiesa
in uscita
Sabato ha avuto luogo l’udienza privata con papa Francesco, nella Basilica di San Pietro. «I poveri sono i compagni di viaggio di una Chiesa in uscita, perché sono i primi che essa incontra, – ha detto il papa ai convegnisti – ma i poveri sono anche i vostri evangelizzatori, perché vi indicano quelle periferie dove il Vangelo deve essere ancora proclamato e vissuto». Tornando sul tema a lui particolarmente caro della Chiesa in uscita di cui ha parlato a lungo anche nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, ha quindi detto: «Gesù stesso fu un uomo della periferia, di quella Galilea lontana dai centri di potere dell’Impero romano e da Gerusalemme. Incontrò poveri, malati, indemoniati, peccatori, prostitute, radunando attorno a sé un piccolo numero di discepoli e alcune donne che lo ascoltavano e lo servivano. Eppure la sua parola è stata l’inizio di una svolta nella storia, l’inizio di una rivoluzione spirituale e umana, la buona notizia di un Signore morto e risorto per noi». Bergoglio ha invitato i presenti «a intensificare lo spirito missionario e l’entusiasmo della missione, senza scoraggiarsi nelle difficoltà, che non mancano mai».
Un discorso denso, che si è ben accompagnato alla relazione successiva, fatta a braccio dal peruviano Gustavo Gutierrez, autentica icona della teologia latinoamericana. Secondo il quale «l’aiuto immediato ai poveri è importante, ma non è l’unica cosa da fare. La povertà è stata creata da noi esseri umani, per questo dobbiamo avere una visione più complessa ed esigente. Oggi essere solidali con i poveri non significa solo aiutarli ma essere contro le cause della povertà».
La povertà ha rappresentato un argomento rilevante per la Chiesa sudamericana, che, tre anni dopo la fine del Vaticano II, l’ha posto al centro della Conferenza del CELAM di Medellin. Certo, la povertà è realtà quanto mai complessa, multidimensionale: l’aspetto economico è importante ma non è l’unico, esistono anche aspetti culturali, razziali, di genere. Inoltre, è necessario tener conto delle cause della povertà: «Per tanto tempo l’umanità e la Chiesa hanno accettato la povertà come un fatto naturale, quasi una fatalità... La povertà, con la sua complessità, è una creazione dell’uomo... Di conseguenza la solidarietà con i poveri e la lotta contro la povertà non sono una questione puramente economica ma una mentalità». Ben sapendo che si tratta di un’operazione per nulla semplice: «Vediamo quanta resistenza c’è al modo di parlare della povertà di papa Francesco – ha sottolineato Gutierrez – perché la povertà non è solo una questione statistica».
Durante l’ultimo giorno del convegno sono risuonate diverse voci, che hanno ripreso l’urgenza di un rinnovamento pastorale più deciso nella direzione della missione, prendendo come riferimento e orizzonte la missione ad gentes. In ogni caso, come ha auspicato in conclusione don Alberto Brignoli, dell’Ufficio della cooperazione missionaria tra le chiese, si può sperare che il cammino compiuto a Sacrofano avrà ripercussioni feconde nella vita quotidiana della Chiesa italiana, in vista dell’appuntamento nazionale di Firenze del prossimo novembre. Pur nella consapevolezza, come direbbe Radcliffe, di essere dinamicamente e gioiosamente incompleti...
Brunetto Salvarani