Matti Giacomo
L'unico dono
2015/2, p. 14

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Testimoni
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L’unico dono
Delle ribellioni che hanno travagliato la Repubblica democratica del Congo, allora Congo-Kinshasa, la più nota, barbara e sanguinaria è stata quella di Mulele e Sumialot negli anni 1963-1964. A chi la conosce come la ribellione dei simba (leoni), forse, sfugge il sabotaggio della finanza internazionale, di Stati Uniti e Belgio in primis, dell’indipendenza del paese (30 giugno 1960). L’attesa e neonata limpandà (l’indipendenza) aveva davanti a sé un cammino pericoloso, intricato, esposto ad attese irrealizzabili, privo di guide esperte. Ma siccome il Congo era ed è un paese tra i più ricchi di materie prime dell’Africa, in posizione strategica nella geopolitica internazionale, gli usufruttuari del tempo hanno congiurato per mettere il morso al “cavallo bizzarro”. Con il disprezzo della volontà popolare, l’uccisione del primo ministro Lomumba, le secessioni, unite alle connivenze interne, hanno generato l’ingovernabilità, dalle conseguenze avvelenate e velenose.
Il 22 novembre 1963, i vescovi, infatti, hanno denunciato la classe dirigente, a caccia «degli stessi privilegi» degli ex governanti. Deplorano «l’eccessivo tribalismo, che fa torto al paese». L’agenzia DIA traduce: «Così, mentre la popolazione soffre sempre più la miseria e la fame, la classe dirigente "eccede tutti i limiti di un pur ragionevole lusso"».
La situazione, tra giovani delusi, studenti senza prospettive, ex seminaristi, cittadini derubati dei benefici sperati dall’indipendenza, genera i “simba”, i leoni di Mulele e di Sumialot, i vendicatori di Lomumba. 2/3 del paese sono in rivolta. Il Congo è messo a ferro e fuoco. Il 4 agosto 1964, Stanleyville è conquistata dai ribelli e diventa la capitale della Repubblica popolare del Congo. Christophe Gbenie, il presidente.
Da questo momento, nella repubblica, nata dalla rivoluzione alla “cinese”, i missionari sono umiliati, arrestati, liberati e nuovamente imprigionati. Le suore, i seminaristi, gli abbé congolesi non sono risparmiati. L’incertezza pesa sulle attività quotidiane, le minacce di morte sulla vita.
Mentre l’Esercito nazionale congolese (ANC) si riorganizza, appoggiato dai mercenari, i ribelli contano le perdite, attribuendo le sconfitte ai complotti dei missionari che, con le loro phonie,<p> Radio rice-trasmittenti in dotazione alle missioni, ospedali, strutture scuole all’interno del paese. <p/> chiamano americani e belgi a bombardarli. Il lancio, la notte del 24 novembre 1964, di 343 para-commando dell’operazione Dragon Rouge su Stanleyville, libera la rappresaglia dei ribelli. Mentre i paracadutisti evacuano 2.000 bianchi, i simba massacrano una trentina di missionari solo in città.
I Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (dehoniani) hanno pagano un tributo pesantissimo. 10 sono stati uccisi, il 25 novembre ’64, a Kisangani Rive Gauche; il giorno dopo, a Wamba, è massacrato il vescovo mons. Joseph Wittebols con altri 7 dehoniani; il 27, a Bafwasende, altri 9 sono vittime della rabbia dei simba. La serie dei missionari dehoniani uccisi in Congo, dall’indipendenza alla fine del 1964, inizia a Basoko. All’annuncio della morte di Lomumba (13 febbraio 1961), un ribelle spara a p. Tegels, direttore della scuola. Il 3 novembre 1964, p. Bernardo Longo cade trafitto dalle lance a Manbasa. Il 1° dicembre 1964, a Isiro, dopo un lungo e doloroso calvario, è uccisa suor Clementine Anwarite, della Yamaa Takatifu, di cui mons. Wittebols era il maestro spirituale.<p> Dal 1961 alla fine del 1964, le varie ribellioni hanno ucciso in Congo 182 religiosi (114 sacerdoti, 29 fratelli, 38 suore e un seminarista congolese). <p/> Il calvario di altri missionari, sopravvissuti all’inferno, tra cui parecchi dehoniani, finirà il 30 dicembre 1964.
Chi sono costoro?
«Coloro che vengono dalla grande tribolazione». Certo, non si tratta di rivangare il passato né per piangere né per vantarsi, ma di ricuperare una pagina di storia del Congo, una pagina del martirologio della chiesa missionaria. Questa storia, nella sua durezza, insegna che i missionari caduti e quelli usciti vivi dall’inferno, sono testimoni delle chiese che li hanno inviati e, allo stesso titolo, padri e madri delle comunità che li hanno accolti.
In varie parrocchie nell’est del Congo, la croce è raffigurata, componendo i volti dei missionari uccisi, perché, come diceva il cardinale Suenens (Malines, 22.12.1964) «la loro morte violenta partecipa, a un titolo speciale, alla morte redentrice del Salvatore del mondo. È come un seguito sacro del venerdì santo, che vide morire in croce il Figlio di Dio. Riflette i tormenti di quell’unica agonia... ma è ricca delle grazie della risurrezione».
Ricuperare storie d’amore, di un dono unico: la vita, collocandole nella storia di Gesù. I missionari uccisi e quelli sopravvissuti a 5 mesi di tormenti avrebbero potuto mettersi in salvo. Bastava attraversare il fiume, dalla «rive guache à la rive droite».<p> Jules Darmont, sopravvissuto alla strage di 20 religiosi della Congrégation du Saint Esprit (Kongolo, 1° gennaio 1962. Komgolo 1962: http://www.spiritains.org/qui/figures/defunts/kongolo;htm témoignages, sources secondaires/user.skynet.be/kongolo/MASSATEM11 htm;  <p/>Ma, a loro erano affidati alunni, seminaristi, suore congolesi, ammalati. Alle prime avvisaglie di pericolo, quattro Domenicane del rosario, uccise con i dehoniani a Kisangani, si sono consultate e hanno deciso: «La nostra è la strada di Dio e se dobbiamo morire moriremo. Comunque, non possiamo abbandonare la nostra missione».<p> <i>Congo 1964: Recuperando </i><i>nuestra</i><i> </i><i>historia</i><i>.</i> <p/> Erano specializzate in medicina. In ricordo delle proprie consorelle, Pilar Barrero scrive: «Non hanno cercato il martirio, non hanno cercato la morte, amavano la vita. E poiché “non c’è amore più grande che dare la vita per gli amici”, hanno deciso di rimanere per sempre, accanto a uomini, donne, giovani, bambini... del paese che amavano profondamente».<p> Idem. <p/>
Mons. Wittebols era atteso a Roma per la terza sessione del concilio. Decise di restare con i suoi missionari, la sua gente. Ha dato tutto, come i suoi confratelli, caduti con lui o sopravvissuti, ai quali, dopo il ritiro annuale a Bafwabaka, aveva ordinato di rientrare alle proprie missioni.<p> Nel libro, <i>La </i><i>donation</i><i> totale</i>, mons. Wittebols, nel conto, mette il martirio. «<i>la parola "dono" non significa dare qualcosa, ma dare se stessi</i>». <p/>
Tutti, suore e preti, non erano degli sprovveduti. Amavano la vita. Hanno accettato la morte «per il Signore e nel Signore» (Suenens), trattenuti al loro posto dall’amore per le persone che a loro si erano affidate. Martiri. Non sono martiri per la fede. Nessuno ha preteso la loro abiura. Martiri per la fedeltà all’impegno assunto nella chiesa, martiri per amore alle persone con le quali, in Gesù Cristo, erano in cammino.
Giacomo Matti