Prezzi Lorenzo
Genocidio armeno
2015/2, p. 13
Il patriarca armeno, Karekin II, celebrerà in aprile la canonizzazione del milione e mezzo di vittime del genocidio armeno (1915-1916). Nella coscienza ecclesiale si salda la memoria della vittime col riconoscimento del martirio. I riflessi sul cristianesimo europeo.

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La Chiesa canonizza le vittime
GENOCIDIO
ARMENO
Il patriarca armeno, Karekin II, celebrerà in aprile la canonizzazione del milione e mezzo di vittime del genocidio armeno (1915-1916). Nella coscienza ecclesiale si salda la memoria delle vittime col riconoscimento del martirio. I riflessi sul cristianesimo europeo.
La lettera enciclica del patriarca armeno di Etchmiadzin, Karekin II, del 28 dicembre scorso salda due aspetti fondamentali della storia e della coscienza armena: il riconoscimento del genocidio e l’affermazione del martirio di tutte quelle vittime: «Il centenario del genocidio degli armeni è davanti a noi, e le nostre anime risuonano di una potente richiesta di verità e giustizia che non sarà messa a tacere … un milione e mezzo di nostri figli e figlie hanno subito uccisioni, carestie e malattie; sono stati deportati e costretti a marciare fino alla loro morte… hanno accettato il martirio come santi “per la fede e per la patria”» (AsiaNews, 29 dicembre).
C’è voluto un secolo perché l’incertezza del nome con cui indicare i tragici eventi (Taragrutiun – deportazione; Ciard – massacro; Tzeghaspanutiun – genocidio; fino al più usato Metz Yeghérn – grande male) prendesse forma compiuta per indicare l’essere e la coscienza di una nazione e di un popolo, sposando la dimensione spirituale del martirio collettivo. Lo sradicamento totale degli armeni dall’Anatolia e cioè dalla terra, dagli edifici, dai simboli e dalla cultura proprie si collega all’interpretazione martiriale di altri momenti della storia come le vittime della battaglia di Vardanank del 451 (armeni contro i persiani; sconfitta che segnò l’avvio della resistenza allo zoroastrismo e all’egemonia sassanide). Ancora dieci anni fa Karekin II ricordava «le nostre vittime innocenti», senza però che il loro martirio fosse ecclesialmente riconosciuto.
Abbiamo continuato
a vivere
Si precisa anche la data. La canonizzazione avverrà il 23 aprile 2015 e il 24 aprile diventerà «giornata del ricordo dei santi martiri del genocidio». Il 24 aprile 1915 l’allora ministro della guerra, Enver Pasha, del partito dei Giovani turchi, ordinò di arrestare i dirigenti politici, i capi religiosi e civili, gli uomini d’affari e gli intellettuali. Tutti furono uccisi nei giorni successivi. Il 26 maggio, la «legge provvisoria di deportazione» costrinse gli abitanti dell’Anatolia a incamminarsi in un drammatico cammino di morte verso il deserto della Siria.
L’indicazione precisa delle responsabilità («i turchi ottomani hanno commesso un genocidio contro il nostro popolo», «la negazione criminale della Turchia») dà spazio, tuttavia, a una interpretazione non di vendetta, ma di risurrezione. «Abbiamo continuato a vivere anche se altri ci volevano morti. Tu, o Signore, hai voluto che la nostra gente – condannata a morte da un piano genocida – sia riuscita a vivere e risorgere, in modo da poter presentare questa giusta causa alla coscienza dell’umanità e al diritto delle genti, per liberare il mondo dalla callosa indifferenza di Pilato».
«In ricordo del nostro milione e mezzo di martiri del genocidio, esprimiamo la nostra gratitudine alle nazioni, alle organizzazioni e agli individui che hanno avuto il coraggio e la convinzione di riconoscere e condannare il genocidio armeno. Esprimiamo gratitudine a quei paesi e popoli gentili che hanno accettato i figli della nostra nazione come fratelli e sorelle. Questi esempi di giustizia e di umanità sono pagine luminose nella storia dell’umanità. Essi saranno sempre ricordati e apprezzati per generazioni, e saranno di beneficio alla vita tranquilla, sicura e migliore del mondo».
Popolo
martire
Ed ecco l’appello al «popolo martire» e alla «nazione risorta». O popolo armeno «vivi con coraggio, avanza con sicurezza, con il tuo sguardo rivolto verso l’Ararat (il monte dove secondo la tradizione si custodisce l’arca di Noè, ndr.) che contiene l’arca, e con il cuore incrollabile mantieni alta la tua speranza». «Rendiamo fecondo il centenario valorizzando il percorso di travaglio e rinascita del nostro popolo, durante 100 anni, in modo che i nostri figli – riconoscendo la volontà eroica dei loro nonni e genitori di vivere e creare e i loro sforzi intrapresi per il bene della nazione e della patria – possano creare un nuovo giorno luminoso per la nostra patria e per la nostra gente, dispersa in tutto il mondo. Trasformiamo la memoria dei nostri martiri in energia e forza per la nostra vita spirituale e nazionale e, davanti a Dio e agli uomini, illuminiamo il percorso del nostro giusto cammino per guidare il nostro passo verso la realizzazione della giustizia e delle nostre sacre aspirazioni». L’esplicita dimensione di teologia della storia appartiene alla tradizione cristiana armena, che legge come miracolo insospettato la ripresa della indipendenza nazionale del 1991. Vittime, esecutori, comprimari ed eventi partecipano tutti, anche inconsapevolmente, al disegno salvifico di Dio. L’Armenia è la prima nazione cristiana: nel 301 Gregorio l’Illuminatore battezzò Tiridate III e la sua corte.
All’attuale territorio armeno (29.000 kmq) non appartiene più né il monte Ararat (ora turco), né il Nakhitchevan (ora Azerbaigian) centri nevralgici della coscienza popolare. Nel suo massimo splendore l’Armenia si estendeva dal mar Nero al mar Caspio, con zone che ora appartengono alla Turchia e all’Iran. In compenso la popolazione si è diffusa per il mondo. Ai 3.200.000 abitanti del paese vanno aggiunti il mezzo milione di armeni in Francia, i 2,2 milioni in Russia, l’1,3 degli Stati Uniti ecc.
La tragedia dell’inizio del secolo XIX è un fattore interno alla crisi dell’impero ottomano. Le persecuzioni, le uccisioni, i sequestri si spalmano fra il 1894-1896, il 1909 e il 1915-1923. I processi occidentalizzanti avviati dal sultano Abdul Meghid (1839-1861) e sviluppati da Abdul Hamid II (1879-1909), furono declinati in senso etnico e nazionalistico dai Giovani turchi (1909-1918) e poi da Mustafà Kemal Atatürk (1880-1938). Gli armeni divennero potenziali nemici sia per la diversa religione come per la diversa cultura. All’entrata in guerra contro la Russia nel 1914 l’impero ottomano mobilitò 250.000 armeni. La sconfitta dell’impero ottomano e le spinte del panturchismo fece crescere la paura di una intesa degli armeni con i russi. Il governo li disarmò trasformandoli in battaglioni di lavoro coatto, sotto stretto controllo dell’esercito. La decapitazione delle élites intellettuali ed economiche avviò la mattanza. Solo pochi scamparono: alcuni verso la Russia, altri nascosti da famiglie turche, greche e curde, altri infine si convertirono all’islam.
La discussione
storica
Nessuno oggi mette più in discussione né la brutalità dei fatti né il numero delle vittime. Nella Storia del genocidio armeno di Vahakn Dadrian (Guerrini Associati, 2003)1 se ne dà documentazione incontrovertibile, mostrando l’inconsistenza scientifica e l’indegnità morale del negazionismo statale e governativo turco. La discussione fra gli storici verte se vi sia stata intenzionalità o meno nelle operazioni, se cioè la distruzione della minoranza armena sia stata direttamente voluta e programmata o piuttosto sia stata lo sconclusionato esito della paura del «nemico interno». Lo storico G. Lewy (Il massacro degli armeni, Einaudi, Torino 2006) esclude l’esistenza di un piano specifico per l’annientamento totale degli armeni. Contrariamente a quanto succederà poi per gli ebrei sotto il regime di Hitler, le strutture amministrative e logistiche ottomane non erano in grado neppure di provvedere alle necessità della popolazione turca e neppure a mettere in opera la distruzione degli armeni. Tantomeno a quelle del gruppo armeno. La trasformazione della deportazione in catastrofe sarebbe dovuta esattamente alla disorganizzazione e alla incapacità delle amministrazioni locali. M. Flores (Il genocidio degli armeni, Il Mulino, Bologna 2006) sostiene invece il contrario. Opta cioè per la presenza di un intendimento genocitario. A sua avviso un popolo non ha bisogno di condividere direttamente una decisione, basta che alcune migliaia di persone ne siano convinte e non trovino resistenza negli altri.
Nonostante la volontà ferrea dello stato e delle istituzioni turche, il riconoscimento del genocidio armeno come il primo del secolo XX è ormai largamente accettato. Sono almeno una ventina gli stati che l’hanno ufficialmente riconosciuto. La stessa opinione pubblica turca lascia varchi sempre maggiori per l’ammissione delle atrocità compiute. Vi è in particolare un gruppo di storici turchi, come Taner Alcam, che riconosce la gravità dei massacri. In questo lungo periodo di apnea la memoria si è trasmessa attraverso i ricordi familiari, le ricerche storiche e la vigilanza delle Chiese.
Una lettura
spirituale
Una memoria segnata da una dimensione spirituale e sovra-storica che trova qualche corrispondenza anche negli storici di professione armeni. Non è casuale che V. Dadrian esponga tesi «metastoriche» come l’attribuire il genocidio come elemento direttamente derivante dalla cultura politica dell’islam e dalla sua applicazione nell’impero ottomano, e come l’esito naturale (e inevitabile?) dei rapporti armeno-turchi. Di certo le autorità religiose, armene e non, furono fra le poche a denunciare quanto stava accadendo. È il caso di papa Benedetto XV che nel concistoro del 6 dicembre 1915 alzò la voce in difesa «del popolo armeno gravemente afflitto, condotto alle soglie dell’annientamento». Va ricordata l’omelia del card. G. P. Agagianian che nel 1965 ricordò in duomo a Milano il cinquantesimo del genocidio. E Giovanni Paolo II, nella sua visita in Armenia nel 2001 nel memoriale del tragico evento diceva: «Ascolta, o Signore, il lamento che si leva da questo luogo, l’invocazione dei morti dagli abissi del Metz Yeghérn, il grido del sangue innocente che implora come il sangue di Abele, come Rachele che piange per i suoi figli perché non sono più … Profondamente turbati dalla terribile violenza inflitta al popolo armeno, ci chiediamo con sgomento come il mondo possa ancora conoscere aberrazioni tanto disumane». La Conferenza delle Chiese europee (KEK) ha pubblicato nel 2005 un testo sul genocidio. E ha invitato a proseguire l’opera di ricostruzione della memoria storica, chiedendo al popolo turco di intensificare il cammino di riconciliazione.
In qualche modo il processo di illuminazione e di elevazione culturale che vasti ceti clericali e intellettuali hanno favorito nel popolo armeno l’ha reso non più tollerante verso le discriminazioni della forma ottomana del «millet», cioè della autonomia subalterna delle minoranze religiose non islamiche nell’impero. Più radicalmente, appartiene alla coscienza culturale e spirituale dell’armeno un interpretazione messianica bene espressa dal lamento davanti a Dio di Basilio il sapiente nel XIII secolo: «Ti sei adirato contro gli armeni / come contro gli ebrei di Israele / e tutta l’ira che da te procede / su noi ricade e s’affastella./ Ora se non siamo utili a nulla / se mai abbiamo operato in bene / o se al tuo cuore riusciamo odiosi / e siamo torturati per tuo ordine / Annientateci almeno d’un colpo solo / che il tuo buon cuore ne abbia quiete / o Dio onnipotente e buono» (cf. l’importante studio del teologo armeno R. Siranian, in Regno-att. 4,2007,121).
‘900: secolo
dei martiri
A uno sguardo spirituale la scomparsa armena nei territori turchi e la sua sopravvivenza nella Russia rivoluzionaria e anticristiana fanno risultare sorprendente l’insospettato «miracolo» della risurrezione del popolo e della nazione armeni, con una fioritura scientifica, culturale e demografica di rilievo. Esso «rimane un mistero profondamente inafferrabile che sfugge ogni attesa e comprensione dell’uomo» (ibidem). Alla provocazione «dov’era Dio nei giorni del genocidio?» gli armeni rispondono con una «protesta o querela contro Dio», nei termini di una «ribellione contro l’ingiustizia e l’iniquità degli uomini», piuttosto di un diniego ateistico di Dio e dei suoi attributi. Quanto alla lettura spirituale di quegli eventi l’enciclica di Karekin II tende a superare la tendenza a non parlare, a rimuovere, a fuggire. Premessa di un passaggio più radicale: il perdono.
Il riconoscimento generalizzato di martiri a tutte le vittime del genocidio è una decisione ecclesiale di grande rilievo della maggiore chiesa armena (oltre al catholicossato di Etchmiadzin, vi è infatti quello di Cilicia, la Chiesa armena cattolica e una comunità armena evangelica) che incrocia la coscienza diffusa nelle Chiese cristiane del comune patrimonio martiriale del secolo XIX. I Giovani turchi compirono gli eccidi da atei e per ragioni ideologiche non immediatamente anti-cristiane, ma l’opposizione al cristianesimo fu la ragione pubblica degli eventi. Infatti, il 90% dei convertiti all’islam ebbero salva la vita. I procedimenti di canonizzazione della Chiesa cattolica non avrebbero potuto avere quella conclusione collettiva, ma il riconoscimento del genocidio-martirio offre all’insieme del cristianesimo europeo la consapevolezza del carattere anti-cristiano del primo massacro del secolo, illuminando con la croce l’insieme dei drammi successivi.
Lorenzo Prezzi
Cf. i nove volumi di G. Ruyssen sui documenti conservati in vaticano ed. Lilamé Roma 2014.