Cencini Amedeo
Rapporto tra VC e misericordia
2015/12, p. 38
Il Giubileo: un tempo di grazia per esaminare quanto in noi, sul piano individuale e comunitario, nella nostra storia e nel nostro operato non esprime misericordia o non la esprime sufficientemente come il nostro normale modo di essere.
Alla radice dei nostri carismi
RAPPORTO
TRA VC E MISERICORDIA
Il Giubileo: un tempo di grazia per esaminare quanto in noi, sul piano individuale e comunitario, nella nostra storia e nel nostro operato non esprime misericordia o non la esprime sufficientemente come il nostro normale modo di essere.
L’indizione dell’anno giubilare della misericordia è senz’altro un momento di grazia per la chiesa intera. Qualcosa che fa parte di quel processo di rinnovamento che papa Francesco ha nella mente e nel cuore, e che freme per metter in atto. Qualcosa anche che riguarda molto da vicino la vita consacrata (VC). Non è senza senso che l’anno della VC sia seguito proprio da questo anno della misericordia, come se il primo rinnovamento cui sono attesi consacrati e consacrate fosse proprio quello della misericordia. In ogni caso sembra evidente la connessione tra VC e misericordia. E proprio questo nesso vorremmo tentare di scrutare in questa riflessione. Non senza aver prima visto brevemente il senso della misericordia in se stessa, o nell’economia divina.
1.1 Dio non è misericordioso, è misericordia
Anzitutto c’è da chiarire un equivoco molto diffuso: la misericordia non è solo un attributo divino, uno dei tanti, come un aggettivo che qualifica la persona e l’agire divini, specie in talune occasioni, come fosse qualcosa di eccezionale, in risposta al male dell’uomo. Lo stesso s.Tommaso, per altro, insegna che fra tutti gli attributi divini il “più divino” – quello che denota maggiormente la realtà divina – è la misericordia. E giunge ad affermare che la giustificazione d‘un peccatore è atto più grande dell’atto della creazione dell’universo.
Tutto questo è così vero che potremmo forse andare oltre, per dire che “è venuto il tempo di renderci conto che quando si affronta questo argomento non ci si intrattiene dottamente su uno dei tanti attributi di Dio, ma si sta tentando di accostarsi con riverenza al suo stesso mistero, alla sua natura profonda. Dio non ama, è Amore. Dio non è misericordioso, è Misericordia”. O come dice m. Canopi: “Misericordia non è soltanto una parola del Vangelo: è la persona stessa di Gesù Cristo; è l’amore del Padre, tenerissimo e compassionevole, che si è fatto prossimo all’uomo fino ad assumere un corpo, un volto, un cuore d’uomo”.
Che la misericordia non sia solo un aspetto dell’amore di Dio, ma il suo stesso essere ce lo svela e conferma la Scrittura. A partire dalla creazione, come dice s. Ambrogio: «leggo che (Dio) ha creato l’uomo e che a questo punto si è riposato, avendo un essere a cui rimettere i peccati». Ovvero, quando decide di creare, Dio decide che esista un universo espressivo della sua misericordia come della sua identità più profonda, la cifra del suo mistero.
A Mosè, poi, che gli chiede il nome Dio risponde all’inizio: “Io sono colui che sono” (Es 3,14); subito dopo, però, si descrive come colui che “fa grazia” e “ha misericordia” (Es 33,19), quasi che la grazia e la misericordia si sostituiscano all’essere di Dio, o a sottolineare che l’essere di Dio è fare grazia e aver misericordia. Ma poi si autoproclama, in termini ancor più espliciti, come “il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34,6).
Se questo è quanto ci rivelano le Scritture sante, già a partire dalla prima rivelazione nel Testamento antico, è limitativo proporre di fatto l’immagine d’un Dio che… solo ogni tanto è misericordioso, esattamente quando si trova dinanzi al peccato dell’uomo pentito; nemmeno, rigorosamente parlando, è corretto identificare la misericordia con il perdono (che è sì elemento costitutivo della misericordia, ma non la esprime nella sua totalità di senso), o connettere l’idea della misericordia, quasi una risposta automatica da parte di Dio, alla presenza del male. Queste interpretazioni riduttive rientrano in una certa concezione teologica o, in ogni caso, non riescono a scalfire quella immagine in cui Dio, alla fine, risulta simile a un giudice umano che premia i buoni che sono fedeli e punisce i cattivi ostinati o pretende il loro pentimento, o che amministra una giustizia in base a meriti e demeriti, o si compiace di chi gli obbedisce e rimprovera chi non gli dà ascolto, al punto che per esser misericordioso deve per forza chiudere gli occhi o (far finta di) non vedere, o – al contrario – deve attendere scuse e penitenze del trasgressore per ristabilire una certa giustizia... Ma per annunciare un Dio (o dio) così non c’era bisogno che il Figlio di Dio s’incarnasse! Una divinità così concepita, infatti, è semplice proiezione d’una idea terrena di giustizia, che controlla occhiuta la condotta umana, tiene conto rigoroso del merito acquisito, o recuperato, e agisce di conseguenza.
Ma non è certo il Dio di Gesù, quello raccontato dal Vangelo. E che emerge in particolare da alcune… strane parabole: quella del padre che corre incontro al figlio che ha sperperato i suoi averi e gli organizza una festa senza che il giovane gli chieda perdono (cf Lc 15,11-32); o la parabola del padrone che dà “ingiustamente” la medesima paga, promessa agli operai della prima ora, a quelli che hanno lavorato di meno (cf Mt 20,1-16); o la parabola dell’uomo giusto, perfettamente osservante e digiunante (anche più del prescritto), la cui preghiera non sale gradita a Dio, a differenza dell’invocazione del peccatore pubblico che commuove il cuore dell’Eterno (cf Lc 18,9-14); o la parabola del vignaiolo che convince il padrone ad aver ancora pazienza un altro anno con quel fico che sfrutta il terreno senza dare alcun frutto (cf Lc 13,6-9); o la rivelazione davvero inedita d’un Padre-Dio nient’affatto serioso e solenne, ma che addirittura fa festa nel suo cielo, e mai gode così tanto come quando un solo peccatore si converte, mentre non provocano alcuna festa i 99 giusti, che non hanno bisogno – così ritengono – di convertirsi. Per non dire della parabola finale, quella più straordinaria e rivoluzionaria, il punto più alto della rivelazione del Dio-Misericordia, quando Gesù sulla croce svela il cuore del Padre regalando il paradiso a un ladro di professione, uno che ha rubato tutta una vita, e che un istante prima di morire gli chiede d’esser da lui ricordato nel suo regno (cf Lc 23,39-43). Quale cristiano non è rimasto mai “scandalizzato” da queste parabole?
In tutte queste parabole, segnala Bianchi, «Gesù ‘evangelizza Dio’, nel senso che svela che il suo Dio, non quello fabbricato dalle religioni, è Vangelo, buona, bella, gioiosa notizia per tutti, in particolare per i peccatori». Poiché è «Padre col cuore di Madre, Custode della vita, viscere di misericordia, tenerezza infinita e infinita pazienza. Non può non essere se non Misericordia». Ovvero la Misericordia non è solo una sua caratteristica, o qualcosa che Dio mette in atto solo in determinate circostanze, come fosse quasi un’eccezione, con determinate persone, o una benigna straordinaria concessione. No, è il suo essere, la sua natura più profonda, il suo mistero, il suo nome, la sua gioia più intensa.
1.2 La vita consacrata, espressione della misericordia divina
Potremmo dire che proprio per questo è nata la VC: non per manifestare la misericordia dell’Eterno come una sua qualità, ma per manifestare che l’Eterno è Misericordia, dunque per recuperare questa idea biblica originaria del Dio-misericordia, per ricordare al mondo e alla Chiesa che questa è l’icona, la rivelazione unica e verace del Dio di Gesù Cristo, ricco di misericordia e tenerezza, la sua identità e verità.
Ecco perché è importante questo Giubileo della misericordia, perché ci riconduce alla verità profonda del nostro essere consacrati, perché in questo tempo di crisi d’identità torniamo all’essenziale spogliandoci di tutte quelle incrostazioni e ambiguità che hanno contribuito a deformare il senso profondo della consacrazione a Dio.
Sarebbe già un grande obiettivo cui tendere in questo tempo perché sia davvero tempo di grazia: esaminare quanto in noi, individualmente e comunitariamente, nella nostra storia e nel nostro operato non esprime misericordia o non la esprime sufficientemente come il nostro normale modo di essere. Se è, infatti, vero quanto abbiamo or ora precisato (Dio non è misericordioso, ma misericordia), anche la VC è chiamata a esser misericordia, non solo a dirla e manifestarla in qualche modo e ogni tanto. Cosa può voler dire questo in concreto?
2.1- Movimento discendente: non solo “opere di misericordia”
L’espressione “opere di misericordia” sa un po’ di catechismo moraleggiante. In realtà sta a dire una caratteristica particolare e storica della VC. Vi sono infatti due dinamismi tipici dell’essere consacrati: uno discendente, l’altro ascendente. Il primo, quello discendente, indica la VC nella sua origine da Dio, dall’esperienza profonda della sua misericordia, che si traduce spontaneamente in opere di misericordia. Così è stato nella nostra storia, storia di credenti, a partire dai nostri fondatori e fondatrici, profondamente toccati dall’esperienza del Dio-misericordia, e dall’esigenza interiore di manifestare tale misericordia per chi ne aveva più bisogno, in un mondo – ieri e oggi- spesso senza pietà. In tal modo sono nate tantissime opere, tante – potremmo dire – quanti sono gli istituti religiosi, ognuno con una sua caratteristica “misericordiosa” specifica, ovvero con una sua propria sensibilità per particolari categorie di persone, bisognose in modo diverso di attenzione e cura, dai bambini abbandonati agli adolescenti deviati, da chi era ed è senza possibilità d’istruzione a chi è privo di protezione, da chi è più tentato di non sentirsi amato a chi è più provocato dal demone della disperazione, dai malati ai poveri, dai peccatori incalliti a chi sta aprendosi a un cammino di grazia, da chi è dimenticato da tutti a chi ha smarrito la propria dignità… Quante opere di natura medico-assistenziale, culturale, educativa, rieducativa, sociale…, spesso realizzate con grande coraggio e creatività, rispondendo a una reale e sofferta necessità sociale, sovente anticipando i tempi e sostituendosi allo stato sociale! E sempre riuscendo a dare, in tal modo, la certezza d’un amore che viene dall’alto, più forte d’ogni sventura.
Cosa sarebbero stati la Chiesa e il mondo, almeno in certi ambienti e momenti, senza l’apporto della VC, di tanti consacrati e consacrate?! Davvero la VC è stata come un grande deposito di grazia e misericordia cui in tanti hanno attinto gratuitamente.
Dovrà continuare la VC in questo servizio della misericordia? Sembra proprio di sì. Ma con alcune attenzioni.
Punto di partenza
La prima di queste attenzioni è nei confronti della radice o della fonte da cui deriva tutto questo operare, e che deve emergere sempre più chiara e nitida. La VC, ripete spesso papa Francesco, non è una ONG, i consacrati/e non sono semplici operatori sociali, ma credenti che hanno sperimentato l’amore misericordioso dell’Eterno. È questo stesso amore che li spinge ora ad agire, è la passione per Dio che li anima, è il desiderio di condividere questo stesso amore che li mette sulle tracce del povero e dell’abbandonato.
Perché questa sottolineatura che a qualcuno potrebbe sembrare scontata? Perché oggi non è più così scontato che l’opera di misericordia “dica” Dio, non è più così evidente la fonte da cui deriva l’azione misericordiosa che la VC mette in atto; quel che facciamo sembra non esser più trasparente, né è più immediatamente letto come espressione della caritas dell’Eterno. Forse lo era un tempo, ma oggi non è più così, sia perché la cultura di questi tempi è sempre meno disposta a leggere il Trascendente nascosto nelle nostre vite o sotteso alle realtà di questa terra, sia perché noi stessi rischiamo oggi, in tempi così confusi e opachi, di essere meno trasparenti e capaci e liberi di lasciar intravedere Dio in quel che facciamo, o di coniugare amore divino e umano, innamoramento di Dio e passione per l’uomo. Non basta più fare e fare, occorre porre ogni attenzione perché quel che facciamo sia leggibile e di fatto letto come espressione della misericordia divina. E se questo è un tempo in cui i grandi discorsi non convincono più nessuno, dobbiamo trovare il modo di… far parlare ciò che noi facciamo, perché tutto in noi indichi la fonte di ogni cosa e d’ogni amore. Anche per questo è indispensabile essere misericordia, e non solo fare “opere di misericordia”.
Creatività e genialità
La misericordia è «l’amore che va oltre la giustizia», non si ferma ai meriti dell’altro o semplicemente al dovuto, all’orario d’ufficio o alla competenza professionale nel servizio prestato, ma si muove in uno spazio senza confini, aperto alla creatività geniale di chi è mosso da un grande amore. Quello stesso amore che ha mosso i nostri fondatori e fondatrici. E che costituisce la sostanza della nostra vocazione. Ci si consacra a Dio per l’esperienza di questo amore in eccesso, e se davvero è un amore eccessivo, come un torrente in piena che straripa ed esonda, tale amore si effonde su altri, su molti altri, e per mille rivoli e canali. È la creatività profetica dell’amore misericordioso. La misericordia è geniale per natura sua, vede ove altri non scorgono niente; inventa e crea ove chi non ama s’accontenta di ripetere; intuisce e apre vie inedite ove la strada sembra chiusa e il realista torna indietro rassegnato (e tranquillo); rende possibile ciò che al mediocre pare irrealizzabile; ha il coraggio d’affrontare le sfide ove il prudente batte in ritirata. Soprattutto chi ha sperimentato misericordia su di sé come amore senza merito e senza misura, non è trattenuto da alcuna paura personale (di complicarsi la vita), né si chiede se l’altro sia degno delle sue attenzioni, e nemmeno pretende tutte le sicurezze e garanzie per agire. Per questo diventa creativo e originale. E a volte sembra pure folle ed eccessivo nel suo agire. Come è di ogni profeta.
Piccolo è bello
Altra attenzione importante e strettamente consequenziale: ciò che è importante non è l’opera, le sue dimensioni, la sua (e nostra) visibilità, il numero degli utenti, il ritorno d’immagine su di noi e le nostre istituzioni o la nostra fama sociale (o ecclesiale)… Non siamo chiamati a diventare grandi agli occhi del mondo, a competere con altri e prevalere, a divenire tanti e importanti, ma a esser segno della tenerezza dell’Eterno, dell’attenzione al povero, all’orfano, alla vedova, al disabile, al migrante, al disperato, al malato… Tenerezza e misericordia sono qualità relazionali che – per definizione – si giocano preferenzialmente nel rapporto con il singolo, nel gesto discreto di accoglienza dell’altro, nella parola, nello sguardo, nella carezza…, senz’alcun bisogno di riconoscimenti sociali, e con l’unica preoccupazione che quel gesto sia parola, sguardo e carezza di Dio! Non abbiamo né oro né argento, ma possiamo “dire” Dio, il Dio-misericordia, e donarlo all’umanità con la nostra umanità.
Come ci siamo lamentati e ci stiamo lamentando di non poter più gestire le cosiddette “grandi opere” (grandi scuole, grandi strutture assistenziali, grandi eventi celebrativi, grandi numeri, grandi risultati, grande peso politico ed ecclesiale…) a causa della crisi vocazionale! E se questa, invece, fosse una benedizione? E ci servisse per liberarci dalla mania diabolica e imbecille della grandeur o di quello “spirito mondano” (così spesso denunciato da Francesco) che è allergico per natura sua alla misericordia, e per recuperare un certo stile misericordioso, tipico della VC, fatto di piccolezza, umiltà, discrezione, povertà, comprensione, semplicità…?
2.2- Movimento ascendente: il volto misericordioso del Padre
L’altro dinamismo fondamentale della VC, perfettamente complementare a quello discendente ora visto, è il dinamismo ascendente. Se col primo movimento la VC esprime la benevolenza misericordiosa del Padre Dio, col secondo manifesta quel desiderio profondamente radicato nel cuore umano: vedere il volto dell’Eterno Misericordioso. Che è l’unico reale desiderio presente in ogni vivente (anche di chi non lo sa) e, assieme, la fonte d’ogni spiritualità. Se grazie al dinamismo discendente la VC ha dato vita a un meraviglioso servitium caritatis, col dinamismo ascendente essa diventa magistra spiritualitatis, con così tante scuole di spiritualità quanti sono i carismi (senza contare solo quelli considerati classici, come quello benedettino, domenicano, francescano…), ognuno capace di delineare un tratto del volto misericordioso del Padre e tracciare una via di santità. Una ricchezza enorme, che non può assolutamente esser perduta. Ma anche qui a precise condizioni.
Spiritualità della misericordia
Se la misericordia non è semplicemente un attributo divino, ma il nome e la natura di Dio, la sua firma, allora qualsiasi spiritualità deve contribuire a svelarla, come una spiritualità della misericordia. Non è spiritualità cristiana quella che non pone al centro la tenerezza del Dio che trova la sua gioia non solo nel darci il perdono, ma nel condividere la vita, la sua vita, per la nostra felicità. Ogni carisma è un modo diverso di dire il cuore misericordioso dell’Eterno, e in tali termini va presentato, tradotto e soprattutto vissuto.
Forse dovremmo proprio rivedere una certa teologia del carisma, o un certo modo di delinearlo, per renderlo sempre più essenziale ed evangelico, ovvero rivelatore del cuore di Dio, buona notizia rivolta in modo particolare ai poveri e ai peccatori, speranza di salvezza per i più lontani. È per loro che siamo inviati, anzitutto; nessuno come loro potrebbe domandarci la “traduzione” dei nostri carismi in vangelo di misericordia, perché nessuna categoria, come la loro, farebbe risaltare la strabiliante novità del messaggio misericordioso evangelico, così scandaloso nell’andare oltre il merito umano! Quanto sarebbe da riflettere sull’invito di papa Francesco ad andare verso le periferie della Chiesa e del mondo, se è vero che la maggioranza delle nostre attività si rivolge ai vicini, a chi è già parte del gregge, alle 99 pecore che si credono già salve, ma che stranamente non sentono il bisogno di sperimentare la misericordia, e non ci chiedono alcuna “traduzione” della nostra spiritualità carismatica in vangelo di misericordia.
Il carisma non ci appartiene
Ma è importante capire un paio di cose. La prima: questa operazione non va concepita come qualcosa di straordinario, come un atto di carità e di bontà, quasi una nobile concessione, da parte nostra, ma come un atto dovuto, poiché il carisma ci è stato dato esattamente perché noi lo condividiamo. Non è proprietà nostra. Né, ed è la seconda sottolineatura, la spiritualità carismatica è qualcosa di solo orante o unicamente spirituale, teorico e astratto, ma è legata alla vita, qualcosa di molto pratico che insegna a vivere e morire, ad amare ed esser amati, a celebrare la gioia e il dolore, la festa e il lavoro, la solitudine e la compagnia… E se si tratta di spiritualità cristiana è sempre una spiritualità che nasce dalla certezza d’un amore grande che ci ha amati da prima della propria esistenza (in tal senso siamo “pre-diletti”), anzi, d’un amore che ci ha voluti esistenti, un amore al di là di ogni nostra giustizia e merito, un amore misericordioso, se la misericordia è l’amore che va oltre la giustizia.
Il nostro mondo oggi ha bisogno di spiritualità, di questa spiritualità del volto misericordioso di Dio. Spiritualità che ricorda a tutti e a ognuno che all’inizio era la misericordia, senza la quale nulla esisterebbe di quanto esiste, tanto meno noi. E dunque ci ricorda che non solo siamo stati amati da sempre e per sempre, ma siamo stati pensati da sempre da una mente misericordiosa, progettati da un’intelligenza piena di misericordia, amati da un cuore ricco di misericordia, fatti da mani misericordiose, “programmati” per vivere come persone misericordiose, poiché siamo, in una parola, impastati di misericordia. Per quanto ciò non ci sembri confermato da quel che sperimentiamo a volte dentro di noi.
Acculturare la spiritualità
Ma se davvero vogliamo che il mondo riconosca e accolga il nostro dono occorre che lo traduciamo in lingua e dialetto locali, ovvero che riesprimiamo in situazione di secolarità la buona novella di questa misericordia, perché tutti la possano intendere. Occorre, in altre parole, che rendiamo evidente la portata sociale e persino politica (nel senso nobile del termine) del messaggio di misericordia contenuto nei nostri carismi, che lo liberiamo di quella veste troppo o solo spirituale con cui ancora li rivestiamo spesso soffocandoli, di quel linguaggio per iniziati che li rende incomprensibili ai piccoli e ai semplici, di quel tono troppo pio e solo moralistico che li fa sentire meno fruibili per la gente qualsiasi, alle prese coi problemi, i conflitti e a volte i drammi della vita quotidiana così povera di misericordia e a volte spietata. Una spiritualità della misericordia, com’è ogni spiritualità carismatica, ha molto da dire alla società di oggi, ma dovrebbe divenire o far nascere una cultura della misericordia, quale elemento vitale e decisivo per il benessere e la serenità di ognuno e di tutti: dei singoli, delle famiglie, delle relazioni amicali, dei rapporti tra gli stati. Senza misericordia non c’è vita, o quella che viviamo non è vita! Per questo dobbiamo imparare a dirla in termini facili e semplici, accessibili a tutti, e pure efficaci e grintosi, subito traducibili nella vita concreata, altrimenti la nostra pretesa spiritualità non merita questo nome e noi dimostriamo di non averci capito nulla. La prima misericordia da esercitare, come atto squisito d’amore e non come presuntuosa concessione, è proprio quest’opera di traduzione.
È ovvio che non si tratta di trovare le parole giuste o l’argomentazione convincente, né è sufficiente che vi sia qualcuno tra noi particolarmente dotato e geniale, capace di trovare il modo comunicativo adeguato: dietro le parole e prima d’esse c’è la vita e la coerenza fedele d’una vita misericordiosa, e non da parte d’un singolo, ma d’una comunità di persone che hanno conosciuto il Dio-misericordia. E a partire da questo contatto hanno imparato a usare misericordia ognuna verso se stessa, e poi sempre più l’una con l’altra. Come se la misericordia fosse il regalo reciproco e quotidiano, il dono più bello da farsi e rifarsi ogni giorno, qualcosa che a un certo punto e progressivamente è diventato stile di vita, messaggio nascosto e anche sempre più chiaro, immagine della fraternità, annuncio travalicante i confini della stessa, condivisione…, e dunque anche parola, parabola, gesto, segno dei tempi, volto di Dio, vangelo, nuova evangelizzazione d’un mondo assetato di misericordia, volto dell’uomo nuovo.
Ecco cos’è acculturazione e acculturazione della misericordia. Come un compito che è in buona parte da concepire e immaginare, come contributo della VC per una davvero Nuova Evangelizzazione.
Inculturare la spiritualità
Ma non finisce qui il dinamismo ascendente, né il processo di traduzione della nostra spiritualità. Quando l’acculturazione funziona, parte un altro processo, quello della inculturazione. Ovvero, quando l’altro è messo in grado d’intendere la nostra spiritualità, viene come abilitato a ridirla a sua volta, secondo però la sua propria cultura, sensibilità, esperienza di vita…, secondo in particolare il dono dello Spirito che pure lui ha ricevuto. E dunque la dirà in modo nuovo e inedito, anche per noi. In quel momento s’invertono i ruoli: noi siamo gli evangelizzati, gli altri (i laici, i poveri e i semplici, in particolare) diventano i nostri evangelizzatori (evangelizari a pauperibus). La misericordia da noi annunciata, allora, diventa misericordia che ritorna su di noi, in modo anche imprevedibile e come dono imprevisto. Che ci apre spazi nuovi di significati, come una bellezza che non conoscevamo e che ora ci arricchisce dandoci una sapienza inedita di quanto pensavamo di conoscere già. Ma anche come impegno nuovo, fatto di ulteriori attese e aperture, di orizzonti e prospettive che ci potrebbero risvegliare da un certo torpore e inedia, da quella sclerocardia che rende insensibile il cuore e incapace di quelle finezze che solo la misericordia e un cuore in essa allenato conosce.
Da un punto di vista più generale i nostri carismi allora si rinnovano e noi ne scopriamo aspetti che mai avremmo potuto scoprire se fossimo rimasti semplicemente a ripetere e ripeterci tra di noi, nei nostri gruppi chiusi, la solita storia, come una fotocopia stanca e sbiadita dei nostri carismi.
È il principio della circolarità carismatica, secondo il quale quanto più i carismi vengono riportati alla terra in cui sono nati (la Chiesa e il mondo) e non sono chiusi entro spazi ristretti, non solo danno abbondanza di frutti, ma si rinnovano e svelano aspetti sempre nuovi di quella loro ricchezza che viene dall’alto. Proprio per questo i nostri carismi vanno “esportati” in altre terre e contesti esistenziali e culturali, vanno tradotti in altre lingue e culture, vanno confrontati con chi non crede o non crede più, nelle periferie del mondo (anche di quel mondo in cui viviamo o più vicino a noi), e non solo per quella responsabilità di cui abbiamo detto, ma perché solo così restano vivi e giovani, s’arricchiscono e arricchiscono chi li dona. Altrimenti si ripetono o muoiono. E noi diveniamo i custodi del museo. Sempre meno misericordiosi.
Io credo che questa sia la Nuova Evangelizzazione, almeno per quanto riguarda noi consacrati/e. Così come sono convinto che proprio questo scambio vitale con la chiesa e il mondo, coi poveri e gli ultimi, ci farebbe scoprire e riscoprire il dono ricevuto come messaggio di misericordia.
Amedeo Cencini