Fraternità, dono e impegno
2015/12, p. 29
Figli nel Figlio, la santità come dono; fratelli per vivere da
figli, la santità come impegno. Una riflessione “francescana”
sulla vita fraterna alla luce dell’Anno Santo della
Misericordia.
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Per una spiritualità di comunione
FRATERNITÀ
DONO E IMPEGNO
Figli nel Figlio, la santità come dono; fratelli per vivere da figli, la santità come impegno. Una riflessione “francescana” sulla vita fraterna alla luce dell'Anno Santo della Misericordia.
Vivere in comunione fraterna è l’aspirazione segreta ed insopprimibile del cuore umano, plasmato a immagine di quel Dio che da sempre è comunione di Persone e che fin dall’inizio lo ha sospinto alla somiglianza: “non è bene che l’uomo sia solo” (Gen. 2, 18). La vocazione profonda di ogni uomo è infatti la comunione/condivisione con altre persone (da qui, il concetto squisitamente cristiano di persona: un essere in relazione).
Tutti siamo alla ricerca di tale comunione tra noi. Ma nella storia segnata dal peccato in cui tutti siamo inseriti, questa è possibile solo se il cuore si apre al Redentore: la sola “vera comunione” è quella che si realizza in Cristo Signore.
Cristo Gesù, Parola che rivela in pienezza il disegno del Padre, affida ai suoi discepoli il comandamento nuovo di amarsi gli uni gli altri come Lui li ha amati, di divenire una cosa sola come Lui e il Padre lo sono.
Francesco d’Assisi
e la spiritualità di comunione
Francesco d’Assisi è ritenuto da molti come il più grande interprete del progetto cristiano. Non a caso egli ha intuito con otto secoli d’anticipo l’enorme portata di questa spiritualità di comunione: fin dall’inizio della sua esperienza di conversione, nel dono di fratelli che gli si affiancavano per condividere il suo cammino di sequela ha riconosciuto la chiamata del Signore a vivere in fraternità. Fratello-fraternità sono i termini che usa di più per definire il volto di questi nuovi gruppi di cristiani, che in pochi anni sono andati sorgendo ovunque per l’Italia e per l’Europa quali fratres (i Frati), sorores (le Clarisse) e poenitentium collegia (i penitenti laici, oggi l’OFS), ed hanno dato un contributo straordinario al rinnovamento della Chiesa evangelizzando la nuova società dei Comuni.
La spiritualità di comunione è quella che la Chiesa riconosce oggi come la più urgente espressione dell’esperienza cristiana nel momento storico che stiamo vivendo.
Concretamente si tratta di farsi ovunque promotori di comunione: favorire in tutti i fedeli la coscienza di essere figli nel Figlio, perché coinvolgano se stessi in rapporti fraterni sempre più autentici, sapendo di essere figli per dono e dunque fratelli, fratelli per vivere da figli.
La spiritualità di comunione ci viene proposta anche come la componente più preziosa di una globalizzazione positiva, il sale che può darle sapore, il lievito che la fa crescere nella giusta direzione: quella del Regno che già qui ci è dato di costruire e che giungerà a compimento nell’eternità per opera di Colui che, riempiendo di sé ognuno ed ogni cosa (cf. il pleroma di Efesini 1,23), porterà a perfezione le nostre quotidiane fatiche e i nostri sempre poveri tentativi di vivere riconciliati.
In questa luce le fraternità religiose possono essere viste come laboratori in cui si anticipa e si fa crescere quell’unità in Cristo a cui è chiamata in primo luogo la Chiesa, ma pure l’umanità nel suo insieme, anche se il suo pieno compimento si avrà solo nella sala del banchetto di nozze del Figlio-Sposo con la Chiesa-Sposa, nella domenica senza tramonto della Gerusalemme celeste.
E qui abbiamo un primo aspetto dell’importanza spirituale della vita in fraternità: quello di essere un segno, una profezia che – seppur in modo sempre povero e frammentario – anticipa nell’oggi il destino a cui tutti gli uomini sono chiamati nel divino disegno rivelatosi in Cristo.
Un cammino
di conversione
L’altro aspetto è quello che la pone in rapporto al nostro cammino di conversione, e ci obbliga a chiederci se e per quale via è poi realmente possibile vivere da fratelli.
Abbiamo già accennato al fatto – per altro assai significativo – che vivere insieme fraternamente è ad un tempo aspirazione profonda del cuore umano e meta che il Dio della Rivelazione cristiana ha posto all’intera storia umana, come è detto mirabilmente in Efesini 1 e Colossesi 1.
Dunque, in teoria sembrerebbe tutto chiaro. Ma è poi un’aspirazione realizzabile nei fatti? È un obiettivo che possiamo davvero centrare? E se sì, per quale via?
Intanto, per tenere i piedi per terra e non cadere nella trappola di un ottimismo fuorviante, va detto subito che la storia sembra smentire impietosamente questa possibilità: a chi la avvicina con attenzione, essa si presenta assai più spesso come un rosario interminabile di scontri e di lotte, di odi e violenze, piuttosto che di tentativi riusciti di comunione fraterna. E il nostro tempo non sembra far eccezione: si è appena chiuso il secolo più violento di tutti, quello che ha vissuto con delirante passione le più diverse e opposte ideologie, generando tante e tali stragi – per di più meticolosamente programmate – da superare anche la somma di violenza di tutte le epoche precedenti. E il nuovo secolo non sembra aver cominciato molto meglio del precedente, pur essendo caduti i muri della guerra fredda.
Non solo. Ma anche all’interno della Chiesa, anzi in quella parte eletta del popolo di Dio che sono i religiosi, le cose non sembrano consentire troppe illusioni sul versante della vita fraterna. L’esito di una inchiesta tra formatori e giovani frati francescani che risale a una decina di anni fa, faceva emergere un dato significativo: l’aspirazione alla vita fraterna era presente nella totalità degli intervistati, ma solo il 4% si diceva poi soddisfatto per la qualità della vita fraterna che concretamente stava portando avanti.
Un recupero
della dimensione fraterna
Sull’onda del ritorno alle fonti del nostro carisma, la generazione a cui apparteniamo ha operato un felice recupero della dimensione fraterna come valore essenziale della vocazione francescana, e su di essa ci si è soffermati a riflettere e a sperimentare un po’ per tutti questi decenni del post-concilio. Ripercorrendo le tappe di questo recupero e tentandone un bilancio, c’è forse da riconoscere che troppo a lungo si è privilegiata una lettura ingenuamente ottimistica della vita fraterna, che è stata sovente descritta come un prato fiorito o come un orto capace di dare soltanto frutti saporosi. Oggi possiamo essere un po’ più realistici, poiché tutti sappiamo ormai per esperienza che si tratta di un campo in cui crescono rigogliosi anche i rovi, con le loro spine pungenti (e non solo nell’ambito delle nostre fraternità, sia ben chiaro, ma nella vita di ogni gruppo umano, comprese le famiglie).
Ma se esaminiamo più a fondo le Fonti Francescane, possiamo correggere il nostro sguardo sulla fraternità, cercando di vedere meglio ciò che essa ha rappresentato in primo luogo per Francesco. È stato proprio grazie al duro braccio di ferro vissuto con una parte dei suoi frati che egli ha imparato – anche lui faticosamente come noi – a lasciarsi condurre dallo Spirito ad accogliere sino in fondo la logica della croce, rinunciando alla duplice tentazione di “imporre” a tutti il suo ideale decisamente eroico espellendo dalla fraternità chi non lo condivideva, o di “ritirarsi” in una sdegnosa solitudine per proseguire in un suo itinerario di santità abbandonando l’Ordine al suo destino. Nell’uno e nell’altro caso, non avrebbe calcato sino in fondo le orme, a lui tanto care, del suo Maestro e Signore, e non ne avrebbe neppure condiviso la misteriosa straordinaria fecondità. È venuto forse il tempo che anche noi, come Francesco, sappiamo riconoscere nella fraternità il luogo privilegiato per un cammino di conversione vera. E allora avremo la chiave per capire meglio anche quel “maxima poenitentia mea vita communis” di san Giovanni Berchmans s.j. (la mia più grande penitenza è la vita comune), il cui senso più vero potrebbe essere questo: la vita fraterna è il terreno più ricco di occasioni per convertirmi alla logica pasquale.
Come discepoli del Signore, il traguardo del nostro itinerario è la conversione a Lui della nostra mente e del nostro cuore, e oggi più che mai la vita fraterna si rivela l’ambito privilegiato per compiere tale cammino di conversione. Frati, suore o laici, dobbiamo riconoscerci come persone che, raggiunte dall’appello evangelico alla conversione, lo hanno accolto con gioia e per questo sono entrate in un cammino di fraternità, proprio per convertirsi. Lungo il cammino ci si rende poi conto che la conversione assume sempre più il volto di una esperienza di misericordia ricevuta e donata.
Non basta
vivere insieme
Per essere ancora più chiari: il fatto che in questi decenni vi siano stati molti cristiani che si sono messi insieme in nome della fraternità, ma che pochi siano poi riusciti a far sfociare questo pur lodevole ed onesto progetto in una duratura e feconda esperienza di vita fraterna ci dice che il bisogno istintivo che ci spinge a vivere insieme non basta a costruire la fraternità cristiana. Come ci ricorda Bonhoeffer, quel bisogno va continuamente convertito sul paradigma della Pasqua del Signore, che sola ci consente di continuare ad amare i fratelli anche quando essi ci deludono e divengono un peso, amarli nel senso di accoglierli e rispettarli così come sono e come forse continueranno ad essere, rinunciando a coltivare nei loro confronti pretese pur sante, come quella di volere che diventino cristiani migliori.
La Lettera a un Ministro (FF 234-236) si muove dentro questa logica di un amore che è divenuto solo misericordia, e rappresenta il punto di arrivo della conversione del cuore di Francesco sul cuore di Cristo: solo a questo punto – quando ha saputo rinunciare ad ogni approccio padronale sui fratelli per amarli così come sono e accoglierli ancora come grazia del Signore, anche se ormai sono per lui solo una croce – egli diviene finalmente un “frate minore” e porta a compimento il “suo” mistero pasquale. Le stigmate sono il sigillo di autenticità del cammino percorso.
“Aiutatevi a portare i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge del Signore” (Gal 6,2). Non sembra un ideale molto elevato. Eppure, se portati per amore del Signore, i pesi che con i propri limiti e il proprio peccato ciascuno di noi scarica sulle spalle e sul cuore degli altri divengono l’espressione più alta della vera povertà e (forse) il luogo in cui anche a noi sarà dato di sperimentare quella vera letizia che da sempre è ormai associata all’immagine del Poverello (FF 278).
Si è costruttori di vere relazioni fraterne nella misura in cui si è santi, cioè aperti ad accogliere l’amore misericordioso del Signore. E viviamo santamente nella misura in cui ogni giorno facciamo passare sui fratelli la misericordia che ogni giorno accogliamo dal Signore. Che la santità sia alla fine riconducibile ad un’esperienza di misericordia accolta e donata ce lo attesta la Scrittura.
Si noti infatti come il “Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo” di Lv 19,2 divenga in Mt 5,48 un “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” per approdare a Lc 6,36 in quel “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” che pare riassumere e comprendere tutto.
Una fraternità sarà viva e autentica nella misura in cui è formata da persone che ogni giorno con umiltà invocano e accolgono la misericordia del Signore sulle proprie povertà e se la donano a vicenda. È solo l’olio della misericordia che rende possibile e gioiosa la vita fraterna, come canta stupendamente il Salmo 132.
Olio profumato della misericordia che – come non si stanca di ripetere papa Francesco – il Signore versa sempre di nuovo e con abbondanza sul capo di ciascuno, perché lo lasciamo poi scendere nel nostro cuore e su quello dei fratelli che Lui ci pone accanto, così che tutti siamo ricolmi della sua fragranza: di essa infatti vivono sia la fraternità che la famiglia cristiana. Olio che dà gioia, perché consente di reperire sempre nuovi motivi di speranza anche dentro gli spazi angusti della nostra ed altrui umana povertà.
Là – e solo là – il Signore dona benedizione e la vita per sempre… Infatti, come intuiva finemente Teresa di Lisieux, Misericordias Domini in aeternum cantabo: per tutti (ma proprio tutti, nessuno escluso!) il Paradiso sarà un canto ininterrotto alle infinite misericordie del Signore.
Sarebbe bello se l’anno della misericordia divenisse un tempo propizio per un salto di qualità nelle nostre relazioni fraterne.
fr. Prospero Rivi ofm cap