Risorse e sfide
2015/12, p. 24
La vita consacrata in Africa può trovare un solido
fondamento sui valori insiti nella sua cultura, come il
senso della presenza di Dio, la dignità della vita di ogni
persona, la vita comunitaria e la giustizia verso i più
deboli. Ma ha anche varie sfide da affrontare.
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La vita consacrata in Africa
RISORSE
E SFIDE
La vita consacrata in Africa può trovare un solido fondamento sui valori insiti nella sua cultura, come il senso della presenza di Dio, la dignità della vita di ogni persona, la vita comunitaria e la giustizia verso i più deboli. Ma ha anche varie sfide da affrontare.
La vita consacrata aveva posto le sue radici nel continente africano prima ancora di giungere in Europa. Basti ricordare l’esperienza di sant’Antonio abate, i padri e le Madri del deserto del IV secolo. Poi ci fu una lunghissima pausa, fino all’epoca più recente, quando ritornò al seguito dei colonizzatori. A promuoverla furono però uomini e donne provenienti da fuori, dall’Europa e dall’America. Erano persone non sposate che vivevano in comunità, suscitando per questo meraviglia e perplessità nelle popolazioni locali. E soprattutto erano bianchi. Particolare questo non indifferente. Padre Richard Kuuia Baawobr, superiore generale dei Missionari d’Africa, in un articolo pubblicato nel periodico Sequela Christi (2014/02), della Congregazione vaticana per la vita consacrata, racconta a questo riguardo un episodio che sarebbe solo curioso se dietro non rivelasse una mentalità da cui la vita consacrata africana ha fatto fatica a liberarsi. Narra ciò che avvenne a Diagara, nel nord ovest del Ghana, in occasione della prima ordinazione sacerdotale di un africano. A quell’epoca la vita consacrata che la gente vedeva era costituita solo da bianchi: i Missionari dell’Africa, le Suore Missionarie di Nostra Signora dell’Africa e le Francescane Missionarie di Maria. La gente, sapendo che uno di loro sarebbe stato ordinato sacerdote, era convinta che nell’atto dell’ordinazione la sua pelle sarebbe diventata all’improvviso bianca. Molti curiosi accorsero in attesa di assistere a quel momento magico. Al termine dell’ordinazione, siccome il fenomeno non si era realizzato, molti dubitarono che egli fosse diventato davvero un sacerdote come gli altri.
Oggi la vita religiosa africana è in pieno sviluppo, ha compiuto tanta strada sulla via dell’incarnazione nelle realtà locali e dell’inculturazione ed è in grado di affrontare le opportunità e le sfide che le si presentano. Padre Richard parla appunto nel suo articolo di Chances and Challenges¸ mettendo in risalto da una parte le risorse su cui la vita consacrata può affondare le sue radici e, dall’altra, le sfide che ha davanti.
Le risorse
della VC africana
A differenza di ciò che avviene nella cultura sempre più laicizzata dell’Occidente e spiritualmente alla deriva, la vita consacrata africana può attingere invece ad un nucleo di valori su cui può fare affidamento, quale garanzia di sicura solidità. Sono quelli della cultura tradizionale africana. Padre Richard li riassume in queste quattro caratteristiche: il senso vivo dell’onnipresenza di Dio profondamente radicato nell’animo africano, la dignità della vita di ogni persona, i rapporti umani e la vita comunitaria, e la giustizia verso i più deboli della società.
L’onnipresenza di Dio
Credere in Dio, scrive p. Richard, è un atteggiamento dato per scontato in Africa. Per esempio, Dio è spontaneamente invocato nei saluti, nelle benedizioni (e anche nelle maledizioni), negli incontri tra le persone, quando uno arriva o parte. Ogni incontro, sottolinea p. Richard, è una celebrazione della presenza di Dio in mezzo a noi. Dio è il Dio della vita vissuta, celebrata e condivisa. Egli è l’onnisciente, l’onnipotente, è colui che sta vicino alle persone e si prende cura del creato.
Sia i credenti della religione tradizionale, sia quelli del cristianesimo e dell’islam riconoscono la presenza e l’azione di Dio nella loro vita personale in diversi modi, nelle loro famiglie e nella società in senso ampio. Questo costante riferimento a Dio mette Dio al centro dell’esistenza. E la vita consacrata, sottolinea p. Richard, consiste proprio in questo: fare di Dio la realtà primaria della nostra vita; i consigli evangelici lo esprimono in maniera molto chiara. È un impegno, tuttavia, che deve essere approfondito, rafforzato e purificato mediante la preghiera personale e comunitaria, lo studio assiduo e la Parola di Dio pregata, e con l’accompagnamento.
La dignità della vita di ogni persona
In Africa c’è la consapevolezza che ogni vita ha origine da Dio e che ognuno la riceve per trasmetterla alla generazione seguente. La vita consacrata è radicata, rileva p. Richard, in una esperienza personale di Gesù da parte di ciascuno in quanto amato in maniera unica e in quanto chiamato da Dio.
Questa relazione è feconda per la persona e specialmente per il resto della comunità, e della società in senso ampio. Il dono della vita e la sua promozione sono valori molto importanti nelle società africane.
La promozione della vita però non si limita solo alla procreazione fisica, ma anche alla promozione e protezione dei valori per la società. Ci sono dei casi in cui delle persone sono scelte come custodi di questi valori a nome del resto della società e sono riconosciute e rispettate in quanto tali. Questo genere di testimonianza corrisponde, a mio parere, sottolinea p. Richard, alla testimonianza delle persone consacrate nella Chiesa-famiglia-di Dio. Da questo punto di vista, la vita consacrata ha una solida piattaforma su cui costruire. Nella misura in cui uno ama la propria vita, si sente anche chiamato a condividerla con gli altri. La vita, come è riconosciuto da tutti, è il dono più prezioso che Dio ci ha fatto.
La relazione e la vita di comunità
Anche la vita di comunità è data per scontata nelle famiglie africane. In Africa, la comunità è indispensabile per la persona in quanto tale. Secondo la filosofia ubundu, l’individuo si identifica sempre in quanto membro di una famiglia, di un clan; non esiste per se stesso e per le sue realizzazioni. Il suo comportamento ha perciò delle conseguenze su tutta la comunità più ampia.
La comunità costituisce anche un valore fondamentale cristiano. Il fatto che persone con un patrimonio culturale diverso ascoltino la medesima chiamata e scelgano di aiutarsi a rispondervi vivendo in comunità costituisce una sorgente di energia ed è una eloquente testimonianza della Buona Novella che la vita consacrata è per il mondo. La solidarietà in senso ampio espressa dalla filosofia ubundu è un terreno fertile per la vita consacrata, da valorizzare sempre più. La solidarietà è un atteggiamento di amore o di affetto; induce membri della società ad adottare gli uni verso gli altri comportamenti simili a quelli dei membri della medesima famiglia. Se la vita consacrata vuole essere aperta a tutti, in particolare nelle comunità internazionali e interrazziali, deve essere radicata questo valore africano.
La giustizia verso i deboli della società
La vita e la dedizione delle madri africane ai loro bambini e il loro spirito di amorevole servizio sono un esempio di come i deboli e le persone vulnerabili nella società devono essere amati e aiutati.
Questa attenzione ai deboli costituisce l’anima della vita consacrata nel suo desiderio di seguire Gesù e comportarsi come lui e come egli chiese di fare ai suoi discepoli. Questo senso di attenzione agli altri, senza cercare dei vantaggi personali che ne potrebbero derivare, costituisce un valore evangelico e indica che una vita radicata nel Vangelo può ulteriormente essere approfondita.
Le sfide
da affrontare
Oltre al riconoscimento dei valori insiti nella cultura, ci sono però anche diverse sfide che la vita consacrata deve affrontare. Alcune sono proprie del continente, altre sono comuni a tutta la vita consacrata. Tra queste, p. Richard nomina la discriminazione interna, l’individualismo e il consumismo, la ricerca di trarre dei vantaggi dal proprio stato, la difficoltà ad accettare una scelta di vita permanente, la cultura del “capro espiatorio” nel venir meno agli impegni dei consigli evangelici, e alcune sfide istituzionali.
La prima riguarda la discriminazione interna: consiste nella tentazione, in alcuni casi, di schierarsi in comunità per le persone che appartengono al proprio paese o tribù, a prescindere dal fatto se il bene comune sia promosso oppure no. In casi come questi, rileva p., Richard, ciò che conta non sono più la parola di Dio e l’impegno a viverla come nuova famiglia di Gesù (Mt 12,46-50), ma le origini umane della persona.
Una seconda sfida riguarda l’individualismo e il consumismo. C’è il rischio di lasciarsi prendere da queste tendenze presenti oggi anche nella società africana. La realizzazione personale diventa così più importante del bene comune da promuovere attraverso la partecipazione alla missione di Dio. La conseguenza è che la persona non è più consacrata a Dio, ma a se stessa, e ciò compromette la qualità della sua testimonianza e il coraggio di parlare nel nome di Dio.
Un’altra tentazione sta nel cercare dei vantaggi dal proprio stato di consacrati. In molte società africane, sottolinea p. Richard, le persone consacrate si collocano ancora su un gradino più alto rispetto agli altri. Esse hanno avuto e hanno tuttora accesso all’educazione, ai viaggi e alle istituzioni sanitarie a spese delle loro rispettive famiglie religiose o delle diocesi. Tutto ciò, volere o no, suscita in alcuni un complesso di superiorità per cui finiscono col distanziarsi sempre più dalla gente comune. Si aspettano di essere serviti anziché servire. Il complesso di superiorità, sottolinea p. Richard, là dove esiste, costituisce una grave minaccia per la vita consacrata ed è contrario allo spirito del vangelo.
Un’ulteriore sfida è la diffusione di una mentalità del provvisorio, secondo cui “niente è permanente”, come diceva uno slogan in Ghana che si poteva leggere su alcuni veicoli. Impegni pensati per tutta la vita vengono meno quando si presenta una migliore opportunità. Ciò vale, per esempio, per il matrimonio, ma anche la vita religiosa è toccata da questa mentalità che mina la fedeltà a Dio e al prossimo.
Inoltre, a volte la cultura è usata come “capro espiatorio” o come una scusa per non vivere in pienezza l’invito evangelico del celibato consacrato, della povertà e obbedienza. Si dice, per esempio, che dal momento che gli africani scelgono la vita, il celibato è qualcosa che contrasta con la loro cultura.
La cultura può essere una pietra d’inciampo anche per quanto riguarda gli obblighi famigliari. L’eccessivo attaccamento alla famiglia e il voler provvedere ai suoi bisogni materiali può portare a sentirsi completamente liberi nelle proprie decisioni. Il religioso può così soccombere alle pressioni della famiglia e avvertire l’obbligo di provvedere ai suoi bisogni e, in senso più ampio, a quelli della famiglia in senso allargato. Ciò, rileva p. Richard, ha delle implicazioni per la povertà evangelica.
Restano poi da affrontare anche alcune sfide di carattere istituzionale: una esterna e una interna. La prima riguarda i vescovi e i pastori che non sempre conoscono e apprezzano il carisma specifico delle persone consacrate nella chiesa locale. Queste sono viste facilmente come utili forze a servizio della chiesa, senza tenere conto se ciò che viene chiesto risponde o no al loro carisma di fondazione.
Sul piano interno, la sfida istituzionale consiste nel rendere il carisma dei fondatori pertinente e attuale nel contesto contemporaneo, in modo che non rimanga un corpo estraneo e la consacrazione non sia percepita come qualcosa di avulso, ma qualcosa che deriva pienamente dai valori e dall’ethos della cultura africana.
Padre Richard conclude: «La vita consacrata non costituisce più un prodotto straniero importato in Africa. Fa parte della nostra vita e può effettivamente crescere dai valori e dall’ethos che ci hanno trasmesso le nostre madri e i nostri padri. Può portare i frutti di un amore totale e radicale verso Dio e il prossimo ed essere fattore di condivisione e di giustizia. Non si tratta più di essere un cristiano che ha adattato, incarnato o inculturato i valori africani, ma di vivere insieme, come cristiani africani, un proprio carattere/identità perché questi e altri valori rappresentano ciò che Cristo vuole che noi viviamo per una vita in pienezza in lui.
Per raggiungere questa vita in pienezza in Cristo, dobbiamo prendere coscienza delle pietre d’inciampo, e con l’aiuto del Signore farle diventare gradini di crescita. La sfida che ci sta davanti è grande, ma non impossibile, se prendiamo sul serio la nostra vocazione e la viviamo con gioia nel Signore».
a cura di A. Dall’Osto