Il leone di Nitra
2015/12, p. 16
È morto il 24 ottobre il vescovo slovacco Ján Korec.
Gesuita, ordinato prete e vescovo clandestinamente,
animatore della chiesa sotterranea e prigioniero per quasi
tre lustri nelle carceri comuniste dell’allora
Cecoslovacchia.
Card. Ján Korec (1924 – 2015)
IL LEONE
DI NITRA
È morto il 24 ottobre il vescovo slovacco Ján Korec. Gesuita, ordinato prete e vescovo clandestinamente, animatore della chiesa sotterranea e prigioniero per quasi tre lustri nelle carceri comuniste dell’allora Cecoslovacchia.
Si è spento a 91 anni, il 24 ottobre 2015 a Nitra, il card. Ján Chryzostom Korec, una delle figure più rilevanti della Chiesa slovacca del ‘900. Testimone inflessibile della fede, vera colonna della chiesa clandestina, autorità morale per l’intero paese. È rimasto celebre l’attacco del suo libro più noto, La notte dei barbari: «Notte, notte unica nel millennio di cristianesimo ceco e slovacco. Notte in cui la nostra stessa gente, disprezzando la storia e il suo insegnamento, ha fatto ciò che non era mai venuto in mente neanche ai tartari, né ai turchi, né a nessun altro nella lunga storia del nostro popolo e della nostra patria. Notte che rimane per sempre la notte più oscura e più barbarica, e non solo per la violenza che ha colpito migliaia di religiosi, ma anche per l’atto inaudito che ha colpito la cultura e l’eredità spirituale del nostro popolo».1
Accadde fra il 13 e il 14 aprile 1950, quando vennero soppressi tutti gli ordini religiosi maschili e femminili (250 case maschili con 2.000 religiosi, 750 femminili, con circa 10.000 suore). Sequestrati e per gran parte distrutti migliaia di libri antichi, quadri, statue e altri beni culturali. Alla fine di quell’anno, tremila sacerdoti diocesani erano in prigione, i vescovi incarcerati o a domicilio coatto, chiusi dieci seminari su dodici. Cominciava la persecuzione comunista.
Vescovo,
operaio, prigioniero
Per il ventiseienne studente di teologia Korec (era nato il 22 gennaio 1924 ed era entrato nella Compagnia di Gesù nel 1939) si spalancava l’abisso dell’ignoto. Lettore onnivoro (parla di 500 volumi “divorati” nei primi anni della sua formazione), di costituzione non particolarmente robusta, sembrava avviarsi al servizio pastorale della cultura. In poche ore cambia la sua vita e quella di tutti i suoi confratelli.
Dopo pochi mesi viene ordinato clandestinamente e l’anno successivo riceve l’ordinazione segreta a vescovo. Entra al lavoro come operaio in una industria chimica, poi passa come impiegato e ricercatore all’ufficio igiene del lavoro dove si fa notare per come organizza la biblioteca e per il supporto alle varie ricerche sperimentali.
Comincia anche la sua discreta ma pervasiva azione pastorale extra-legale: direzione spirituale, celebrazioni liturgiche, animazione di piccoli gruppi, ordinazioni sacerdotali segrete (alla fine saranno 120), scritti spirituali e teologici. Si avviava la chiesa clandestina. Per capire è necessario tornare indietro qualche anno. Nel 1948, alla vittoria del comunismo in Cecoslovacchia, il vescovo Stepan Trochta di Litomerice ebbe da Pio XII le cosiddette facoltà messicane, e cioè la possibilità di ordinazione di vescovi senza il preventivo assenso e riconoscimento della Santa Sede. La condizione di persecuzione le rendeva plausibili. L’ordinazione di vescovi e di preti dava origine a una struttura ecclesiastica non ufficiale in grado di aiutare la Chiesa in un periodo difficile. Si prevedeva l’ordinazione di un vescovo e contestualmente o successivamente di un secondo vescovo che doveva entrare in funzione all’arresto del primo. Venne così ordinato il gesuita Pavel Hnilica e questi impose le mani a Jan Korec che fece lo stesso con Dominik Kalata e questi con Peter Dubovsky, tutti gesuiti. Poi Dubovsky ordinò Jan Blaha che, a sua volta consacrò Felix Maria Davidek. La serie di nomi non è casuale perché gli ultimi due daranno origine a un ceppo diverso e per molti versi lontano dall’indirizzo di Korec.
Clandestino
I fedeli, soprattutto giovani, si davano appuntamento nelle case private, nei boschi o, occasionalmente, nelle chiese per celebrazioni, ritiri, conferenze e diffusione di materiale religioso come dispense e libretti scritti a macchina e ciclostilati. Rispetto alla pastorale comune non vi era opposizione. Dice Korec: «Avevamo buoni contatti e collaboravamo con i sacerdoti impegnati nella pastorale ufficialmente permessa. Cercavamo di proteggerli perché per colpa nostra non perdessero il cosiddetto permesso statale, e potessero servire i fedeli, almeno amministrando i sacramenti e celebrando le messe. Il lavoro con i giovani piuttosto, in questa situazione, lo svolgevamo noi della “Chiesa clandestina”. Si può parlare di divisione all’interno della Chiesa solo nel senso che c’erano dei sacerdoti disposti al sacrificio e altri più accomodanti che si separarono dalla Chiesa e sono stati definiti sacerdoti patriottici, ovvero collaborazionisti. Ma erano solo un pugno».
Negli anni ’70 a un vescovo che si lamentava dei continui impedimenti incontrati, Korec rispose: «Noi risolviamo il problema in questo modo, lavorando senza il permesso dello stato, e non conosciamo nessun controllore statale». Del resto, fin dagli anni ‘50 la polizia disponeva l’insieme del clero secondo tre gruppi: il primo, quello dei collaborazionisti, che non arrivava a più di 50, il secondo, quello dei «ricattabili» che si aggiravano sui 500, e poi il terzo, dei «resistenti» che erano quasi 2.000. Il cerchio si chiuse quando, nel 1989, al termine della celebrazione del nuovo vescovo di Nitra, mons. Jan Sokol, Korec si presentò per un pubblico abbraccio finale per far sapere a tutti che la distinzione fra chiesa ufficiale e chiesa clandestina era finita.
Fra gli anni ’50 e quelli ’90 non c’è stata solo l’azione pastorale sotterranea. Ci sono stati quasi tre lustri di carcere, di umiliazioni e di testimonianze coraggiose. Era già passato da bibliotecario a guardiano notturno e a fabbro quando l’11 marzo 1960 un agente della polizia segreta lo chiamò al cancello della fabbrica e gli chiese: «Mi riconosce, signor Korec?». Alla risposta affermativa disse: «Si lavi, cambi il vestito e torni qui». La storia del processo, delle snervanti attese, dell’isolamento dai propri cari, e delle scontate condanne si rassomigliano tutte nella loro cruda realtà. Poi seguiva la carcerazione vera e propria. Andava bene quando i compagni di cella erano altri preti, ma di solito erano delinquenti comuni, «bonzak» (delatori), figure impreviste come l’anziano militare tedesco o il letterato di grido o il funzionario caduto in disgrazia.
Condizioni materiali al limite della sopravvivenza si accompagnavano a lavori snervanti e umilianti. E, nel frattempo, continui prolungati interrogatori, in cui non bisognava lasciarsi sfuggire una parola che non fosse già nota all’aguzzino, perché altrimenti si sarebbe aperto un nuovo fronte per sé e per gli altri. L’esperienza più dura era l’isolamento. «Sicuramente fu questa la più terribile delle punizioni. Tuttavia la necessità rende l’uomo ingegnoso cosicché avevo trovato un sistema molto semplice per rompere l’isolamento. Immaginavo di fare gli esercizi spirituali. Mi facevo un programma giornaliero ben dettagliato ed intenso. Cominciavo al mattino con una buona ora di meditazione, proprio come si faceva in convento. Quindi la santa messa. Per questo avevo soltanto pane e vino: ma ciò bastava a procurarmi tanta gioia. Dopo la santa messa cominciavo il programma di studio: ripassavo a memoria testi di teologia e di filosofia, discutendo ad alta voce come mi trovassi all’università davanti ai professori... Arrivavo alla sera senza che io avessi potuto svolgere tutto il programma fissato. Quando poi, dalla cella di isolamento, venivo trasferito di nuovo nella cella comune, mi sentivo spiritualmente più forte come se avessi realmente compiuto un corso di esercizi spirituali». Bisogna aspettare la «primavera di Praga» perché nel 1969 Korec venisse pienamente riabilitato, per tornare poi in carcere quando la «normalizzazione sovietica» cominciò a produrre i suoi frutti.
Isolamento
ed esercizi spirituali
Il carcere era drammatico per tutti, ma in particolare per i preti: «Tutta la povertà, tutte le restrizioni e le insicurezze le vivevamo con la stessa dose di traumaticità degli altri detenuti. Non godevamo di nessun privilegio. Ogni tanto qualche guardia ci faceva notare che noi non eravamo per lui solo dei detenuti, assassini o ladri, ma perfino qualcosa di peggio! La maggior parte dei secondini aveva paura di noi, se non altro nel senso che temevano sempre che altri detenuti avrebbero potuto denunciare una guardia per aver parlato con noi». Per resistere ci voleva un equilibrio e una fede a tutta prova.
Nei primi giorni di sequestro, dopo la «notte dei barbari» un funzionario di partito gridò loro che li «avrebbe messi in ginocchio» e obbligati a «tornare al loro carisma originale». Tolte l’ira e l’intenzione del soggetto, la cosa fu davvero così. A partire dal momento in cui dopo gli anni della formazione Korec si trovò d’improvviso mescolato con la gente comune. «Entrare nel mondo civile era come trovarsi di colpo in una burrasca. La vita era dura, la gente non era così come si mostrava davanti al prete e sicuramente non era come la vedevo tutta vestita a festa in chiesa la domenica. Nella vita concreta di tutti i giorni molta gente era rude e si scontrava con se stessa. Osservavo anche i lati peggiori degli uomini, il loro egoismo, a volte la loro smania di fare carriera».
Korec si accorse che gli 11 anni di formazione lo avevano reso uomo. «I grandi esercizi spirituali furono per me una benedizione che mi introdusse ai misteri della vita spirituale, alla chiamata divina e al futuro ufficio di sacerdote. Gli esercizi spirituali hanno una loro struttura logica e psicologica molto solida. Un pensiero scaturisce da un altro e gli esercizi nel loro insieme sfociano nella meditazione sull’amore e finiscono con una bellissima preghiera sulla redenzione». «Quante cose in 11 anni avevo ricevuto dalla Compagnia di Gesù… La Compagnia con i suoi insegnamenti mi permise di entrare nel cuore di un mondo spirituale da cui non sarei mai più uscito; e di conoscere la sua storia e i suoi grandi figli, che adesso erano miei confratelli… Quale pace interiore mi procurava tutto questo, specialmente al pensiero che tutte quelle migliaia di confratelli gesuiti pensavano anche a noi in Slovacchia, pensavano anche a me nelle loro preghiere».
Verità
e giustizia
La radice battesimale, il legame carismatico, la robustezza formativa gli hanno permesso un immediato giudizio sul comunismo e sulla presunta legalità socialista, ma anche verso i collaborazionisti. La tesi in cui completò gli studi di filosofia a Brno porta il titolo: Le basi del materialismo dialettico. «Nella scelta del tema e della sua elaborazione ha avuto un peso, accanto ai miei interessi e convinzioni, anche lo sforzo di esprimere davanti agli altri quello di cui avremmo realmente avuto bisogno negli anni successivi, nella lotta contro l’ateismo». Quanto alla legalità socialista la sentenza di riabilitazione dice: «Tutta l’azione degli imputati fu ingigantita ed espressa in modo errato; agli imputati furono riconosciute colpe che non vennero mai provate e le loro azioni furono giudicate in modo errato dal punto di vista giuridico». Molto duro il giudizio sui collaborazionisti: si può comprenderli, ma non riconoscere ad essi alcun contributo positivo: «Fino all’ultimo fecero danni alla Chiesa».
La grandezza del testimone e del confessore della fede – vescovo a Nitra fra il 1990 e il 2005, insignito dell’onore del cardinalato nel 1993 – non toglie qualche marginale elemento più discutibile. Come il drastico giudizio sulla Ostpolitik vaticana che, oltre ad alcuni risultati nei singoli paesi, grazie ai trattati di Helsinki, alleviò non poco la situazione dei credenti, favorendo il crollo non violento dei regimi; o come il giudizio positivo sulla rivoluzione di Dubcek nel ’68, ma vista come occasionale e improduttiva; o come la benevolenza non sempre sorvegliata verso il nazionalismo slovacco; o come il giudizio di «totalitarismo» verso le successive democrazie, Unione Europea compresa. Lo stesso Concilio, certo accettato e difeso, non sembra agire in profondità nel suo pensiero. Tutto questo senza scalfire una grandezza spirituale che queste parole del 1987 manifestano: «Non mi attribuisco grandi meriti. Più gli anni passano, più vedo chiaro che tutto ciò che ha importanza, appartiene alla grazia, cioè a Dio».
Lorenzo Prezzi
1Cf. Korec J., La notte dei barbari, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1993, p. 11. Le citazioni sono tratte da questo vol. e da M. Gavenda, Il vescovo clandestino in tuta da operaio, EDB, Bologna 2015. Cf anche Settimana 11/2014 pp. 12-13.