Strazzari Francesco
I paesi del Golfo e l'Isis
2015/12, p. 14
Le mezze parole, i silenzi, le paure, le ambiguità sono all’origine dell’atteggiamento dei paesi del Golfo di fronte all’emergere dell’Isis e del fenomeno del terrorismo. Anche le divisioni al loro interno impediscono di assumere una posizione più chiara e decisa.

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Testimoni
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Reportage
I PAESI DEL GOLFO
E L’ISIS
Le mezze parole, i silenzi, le paure, le ambiguità sono all’origine dell’atteggiamento dei paesi del Golfo di fronte all’emergere dell’Isis e del fenomeno del terrorismo. Anche le divisioni al loro interno impediscono di assumere una posizione più chiara e decisa.
Martedì 17 novembre si sono riuniti a Ryad ( Arabia Saudita) i ministri degli Affari esteri dei Paesi del Golfo: Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti (7 emiri) e Oman. Si riuniscono ogni anno a dicembre, ma ora hanno tenuto una riunione speciale a seguito degli attacchi di Parigi. Il segretario generale, Abd al-Latif al-Zayyani, ha espresso la solidarietà di tutti gli Stati del Golfo: «L’atto criminale commesso a Parigi venerdì 13 novembre 2015, che ha causato la morte di 129 persone e ferito 300, è fortemente da condannare perché contraddice i principi della sharia islamica e gli insegnamenti di questa sublime religione. I musulmani non dovrebbero pagare il prezzo per questo crimine atroce. Accuse che legano la nostra religione tollerante al terrorismo devono essere condannate e confutate con veemenza» ( Al–Moqatel, Arab Times, 19 novembre 2015).
Le ragioni
di un silenzio
Ufficialmente tutti gli Stati del Golfo si sono schierati contro gli attacchi di Parigi. Tuttavia, non viene mai nominato lo Stato islamico. Ne ho chiesto la ragione a uno dei molti interlocutori, di cui, per ovvi motivi, non posso svelare l’identità.
La risposta: «Potrebbero essere due le ragioni di questo silenzio. Primo: non accettano lo Stato islamico e quindi non lo nominano. Secondo: alcuni si chiedono se sia proprio vero che l’Arabia Saudita e il Qatar non stiano aiutando lo Stato islamico. Questi attacchi – osserva il mio interlocutore – e tutti gli altri rivendicati dallo Stato islamico fanno un grande servizio allo Stato islamico stesso. Convincono il mondo intero che lo Stato islamico è la più forte organizzazione mondiale, che può fare qualsiasi cosa per arginare la deriva del mondo occidentale».
«Effettivamente – è il parere di un altro interlocutore, molto attento alle vicende dello Stato islamico – l’ISIS è uno stato terrorista, che usa la religione per richiamare i giovani sia musulmani sia i non musulmani ad affrontare la deriva dei valori. Un salto indietro nella storia. La cosiddetta primavera araba aveva lo scopo di destabilizzare i governi autocratici dei paesi arabi e di por fine allo sfruttamento delle ricchezze per interessi personali e a sopprimere i privilegi. I regimi corrotti avevano stretto alleanze con l’America e con gli Stati occidentali. L’Arabia Saudita è il caso peggiore. Per decine e decine di anni l’Occidente ha preso decisioni disastrose in Medio Oriente e nell’Africa del nord per avere petrolio, sicurezza nel canale di Suez e supporto nei confronti dell’alleato principale, Israele. Al centro, il problema della Palestina, che non è stato risolto. È fallita la primavera araba; i Fratelli musulmani in Egitto sono stati brutalmente repressi dal presidente Sisi, dopo una breve fioritura con il presidente Morsi. Molti sono andati in Arabia Saudita, in Giordania, nel Kuwait e in altri paesi, dove hanno raggiunto una notevole influenza grazie alla loro buona preparazione professionale. Al- Qa ‘ida ha avuto limitati successi in Afghanistan e in altri posti. La Somalia, la Nigeria, lo Yemen e altri paesi hanno avuto un’ ondata di estremismo, ma per lo più limitata».
Perché
l’Isis attira?
Chiedo a che cosa sia dovuta l’attrazione che l’ISIS esercita.
« Semplicemente al fatto che l’ISIS parte dalla decadenza dell’Occidente e dalla corruzione che imperversa nei regimi arabi e dall’ opposizione all’islam soft in Asia. Non v’è dubbio che l’ISIS sia arciconservatore. Basti pensare al wahhabismo, che si focalizza attorno ad alcuni punti-chiave e nello stesso tempo è arcimoderno, usando abilmente i mezzi di comunicazione e la manipolazione di massa. L’ISIS sfrutta il mercato nero del petrolio e la vendita di tesori archeologici; possiede armi moderne. Ma la sua risorsa maggiore è la gioventù frustrata di ogni parte del mondo, sia povera sia culturalmente preparata, con lavoro o senza. Dai Paesi del Golfo noi vediamo che l’ISIS in Occidente attira i giovani che vivono nelle periferie, con scarso o nessun accesso ai beni, senza influenza ; in una parola, coloro che non sono integrati. Molti vivono in un ambiente ostile, sottoposti a continue perquisizioni da parte della polizia. Si sentono rifiutati, oggetto di scherno. Questi sono alla ricerca della propria identità, di un futuro sicuro, di un qualcosa di cui essere orgogliosi».
Chiedo se si pensa nei Paesi del Golfo che l’ISIS possa essere sconfitto militarmente.
La risposta è un secco no perché le cause sono profonde. Mi vengono elencate alcune: le società occidentali si stanno disintegrando; i valori del cristianesimo non hanno più presa; l’individualismo imperversa. Non vi è una sana filosofia, che sia alla base delle società, che insegni a distinguere il bene dal male. La democrazia si converte in una nuova forma di anarchia. Mentre – mi si fa osservare – i legami familiari e la coesione sociale sono importanti nell’islam (umma: comunità credente).
Veniamo a un punto che viene dibattuto in Occidente: l’ISIS ha l’appoggio dei Paesi arabi del Golfo?
La risposta: «L’Arabia Saudita e il Qatar sono sospettati di essere attivamente coinvolti nell’affare-Siria. I Fratelli musulmani, radicali, hanno un ufficio in Qatar. Anche noi ci chiediamo: da dove vengono le armi usate dall’ISIS? Chi compera il petrolio messo sul mercato dall’ISIS? Chi compera oggetti d’arte, statue e quant’altro, tesori di incalcolabile valore, venduti dall’ISIS? All’ISIS queste cose non interessano: interessa solo il denaro».
Paesi divisi
al loro interno
Ancora una domanda: Ma perché i Paesi del Golfo non parlano apertamente contro l’ISIS?
«Bella domanda! I Paesi hanno al loro interno non poche divisioni e le disuguaglianze sociali sono enormi. Hanno paura della reazione dell’ISIS, che può facilmente colpire con azioni terroristiche. La Lega Araba è disunita e non è in grado di prendere una posizione unitaria. L’Arabia Saudita e il Kuwait hanno un regime familiare, e vasti settori della popolazione vivono nella povertà, nella mancanza di libertà, in un disagio profondo. Per questo vi sono già manifestazioni di protesta. Va aggiunto che in molti Paesi arabi vi è una considerevole porzione di popolazione che appartiene all’islam sciita e quindi si sente più vicina all’Iran, che resta il nemico numero uno dei sunniti. Gli sciiti sono visti come un elemento che disgrega. Il caso degli Emirati Arabi. Va detto che nel decennio ( 1950-1960) il Paese ha avuto il governo migliore degli altri Paesi del Golfo; si sono fatti grandi progressi, soprattutto in riferimento agli operai stranieri; si sono mostrati un paese ospitale. Ma drasticamente negli anni ’90 il clima è cambiato. Usufruendo della moderna tecnologia, ha condotto una severa campagna di controllo sull’emigrazione, sorvegliando a tappeto sia i propri cittadini sia i lavoratori stranieri. Gli Emirati hanno raggiunto limiti di paranoia riguardo alla sicurezza: lavoratori stranieri si sono visti ritirare i passaporti e il permesso di soggiorno e quindi costretti a far ritorno ai loro paesi di origine. Non vi è permesso nessun tipo di critica. Gruppi e associazioni controllati a vista. Persino le chiese sono sorvegliate. È libero l’accesso dei fedeli alle chiese, ma poi subito a casa, senza possibilità di fare attività sociali. Sistemi di sorveglianza dappertutto. Gli Emirati hanno preso parte ai raid aerei in Siria, ma ora stanno prendendo le distanze; più tardi, timidamente, hanno preso posizione nei confronti dell’ISIS. Sono il fedele alleato dell’Arabia Saudita nella liberazione dello Yemen dagli houthi ribelli, sciiti. Più di 70 soldati degli Emirati sono morti in Yemen; i loro corpi sono stati riportati in patria e si è inneggiato al martirio. Gli Emirati sono impegnati nella ricostruzione del paese. Nei confronti dell’ISIS mantengono un basso profilo e si guardano bene dal pronunciarsi contro per paura di rappresaglie. Ma il popolo è stanco della guerra nello Yemen, di cui non s’intravvede ancora la fine».
«Ufficialmente si dice più di 100 mila dal 2011. Sono rifugiati che vivono con le proprie famiglie, lavorano regolarmente. Pare che attualmente ai 100 mila se ne siano aggiunti 142 mila. Usufruiscano della casa, dei servizi sanitari, di scuole come gli altri lavoratori stranieri. Non sono ammassati in campi profughi. C’è quindi una politica di integrazione. «Non trattiamo i siriani come rifugiati», continua a dire il governo. «Li trattiamo come gli altri operai».
Un interlocutore con una profondissima conoscenza della cultura islamica alla mia domanda se gli attacchi di Parigi cambiano la strategia dello Stato islamico, risponde:
«Certamente sì. Finora si era proposto di avere un territorio e di espandersi gradualmente fino a raggiungere Roma ( il papa) e il mondo intero. Ora sembra adeguarsi alla strategia di Al-Qa’ida: attacchi in qualsiasi parte del mondo. Lo Stato islamico non è più legato al criterio del territorio, ma alla destabilizzazione del mondo intero, al quale vuole imporre quella che crede essere l’unica vera interpretazione del Corano e dell’islam. Abbiamo avuto un fenomeno simile in Sudan con il sorgere della Mahiyyah nel 1881. Mouhammad Ahmad Ibn ‘Abd Allah si proclamò il Madhi, mitico profeta, che, secondo gli sciiti, ritornerà a salvare il mondo. Ma anche la sua rivoluzione violenta è terminata nel 1998. Anche lo Stato islamico terminerà non tanto a causa dei bombardamenti russo- francesi, ma per una legge interna a tutti i movimenti violenti: niente dura per sempre».
Francesco Strazzari