I vescovi di Francesco
2015/12, p. 10
Enfasi sull’autorità del vescovo per la porzione di popolo
a lui affidata e, contemporaneamente, consolidamento
dello “stile sinodale” – vero e proprio ritornello al
Convegno di Firenze – nella guida della Chiesa, universale
e particolare.
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Il papa chiede che siano pastori
I VESCOVI
DI FRANCESCO
Enfasi sull’autorità del vescovo per la porzione di popolo a lui affidata e, contemporaneamente, consolidamento dello “stile sinodale” – vero e proprio ritornello al Convegno di Firenze – nella guida della Chiesa universale e particolare.
A partire dalla geniale immagine del pastore «con l’odore delle pecore», papa Francesco sta facendo passare nella Chiesa un modello di presbitero e di vescovo affascinante nella sua semplicità evangelica e, nello stesso tempo, sorprendente per una Chiesa tutto sommato benevolmente disposta ad accettare (ancora) qualche tratto di privilegio in chi riveste autorità.
L’esortazione apostolica Evangelii gaudium è un trattato in proposito e il recente Convegno ecclesiale di Firenze una ribalta emblematica. Nel suo intervento dirompente, papa Francesco ha richiamato più volte a Firenze quello che si attende dai pastori della Chiesa. «Ai vescovi chiedo di essere pastori: sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Di recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente. Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio». Ha sorprendentemente citato Don Camillo, che di sé diceva: «“Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte». Prendendo le distanze da indicazioni programmatiche degli ultimi decenni, si è rivolto a «una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti»; anziché chiedere obbedienza ha esortato a essere «creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese».
Un’irruzione
di novità
Ma oltre l’esortazione, laddove papa Francesco esercita la sua funzione di governo e sceglie i suoi collaboratori per la Chiesa italiana, si può notare qualche scostamento nei numeri o nelle prerogative degli eletti al ministero dell’episcopato? I trentadue mesi di papa Francesco hanno fin qui consolidato l’immagine di una irruzione della novità nel governo della Chiesa alimentando aspettative. Il vescovo di Roma, primate d’Italia, dà ripetutamente segno di aver preso in mano il timone della barca di Pietro, anche quella che naviga nel mare nostrum. Alcune scelte “d’impatto”, soprattutto in ciò che riguarda l’interpretazione del pontificato, la ridefinizione del profilo della curia romana, l’affondo contro gli scandali, lasciano intendere che non esistano tradizioni o convenzioni irresistibili. Fino al paradosso di mostrarsi più “sommo pontefice” dei suoi predecessori nel gestire con piglio personale l’autorità posta nelle sue mani.
Man mano che si viene avanti, si fanno più evidenti i segni di un esercizio attivo e diretto di questa sua autorità anche nella nomina dei vescovi italiani. Fino a dar adito di pensare che sia questa ragione plausibile a giustificare la prolungata attesa per l’avvicendamento in sedi rilevanti come Bologna o Palermo.
Si consideri legittimo adottare due scansioni di indagine per far emergere – evidentemente interpretati – i segni della “predilezione” di papa Francesco nella scelta dei candidati.
L’aridità dei numeri non sembra dar segni di particolari novità. Le statistiche dei trentadue mesi del pontificato Bergoglio dicono piuttosto una conferma se comparati con gli ultimi tre anni di Benedetto XVI.
Al momento (novembre 2015) i vescovi della Conferenza episcopale italiana sono 237. Erano 231 quando Benedetto XVI ha comunicato la sua rinuncia (febbraio 2013; quasi un big bang all’origine dei “moti” di Francesco). Le sedi vacanti erano allora 10, oggi sono 8; 3 gli amministratori apostolici. I vescovi ausiliari sono 20 (erano 22 nel 2009 e 16 a fine 2012), e 1 è coadiutore.
Le nomine
di Francesco
La prima nomina firmata da papa Francesco è dell’aprile 2013, a un mese e mezzo dalla sua salita al soglio pontificio. Sono seguiti altri 65 movimenti fra elezioni e trasferimenti, che costituiscono una media di 25 movimenti all’anno. Nel triennio 2010-2012 gli avvicendamenti erano stati 61, per un tasso di movimento analogo, benché inferiore (20 all’anno). Dei 21 ausiliari/coadiutore, la metà (10) sono stati nominati dal 2013 in qua.
In tutto, i vescovi in carica provenienti dalla vita consacrata sono 28 (12%). Tra i vescovi “movimentati” da papa Francesco, i religiosi sono 11 (si calcoli che le abbazie territoriali sono 6) e di questi 7 (un quarto del totale) sono stati da lui eletti.
Delle complessive 65 nomine, 45 (il 70%) sono elezioni: 17,4 all’anno, cioè qualcosa in più della media del triennio precedente, che invece confermava la tendenza degli ultimi 25 anni (12/anno). «Tale risultato ... consente di ribadire ancora una volta ... che il ricambio dell’episcopato in Italia è avvenuto finora ... secondo un ritmo più o meno ventennale». Solamente Giovanni Paolo II ha potuto dunque – teoricamente – dar vita a un ricambio completo dell’episcopato CEI in servizio e modellarla per intero secondo i suoi orientamenti.
Geografia
e anagrafe
In 55 casi dei 65 (85%), la nomina ha comportato un cambio di diocesi; il che è ovvio nel caso di un trasferimento, ma in 34 di queste vicende (52%) l’elezione ha comportato la destinazione a una diocesi diversa da quella di ordinazione. Le regioni geografiche hanno i confini più labili di prima: sono 22 i cambi di diocesi a comportare anche un cambio di regione e 5 gli avvicendamenti con incarichi nazionali (CEI, Ordinariato, dicasteri romani); cioè il 49% dei cambi di diocesi e il 42% sul totale dei movimenti. I nuovi eletti vengono destinati per il loro primo incarico prevalentemente all’interno della regione natale: 30 su 45, i due terzi. Complessivamente c’è più movimento geografico rispetto all’ultimo triennio di Benedetto XVI (che a sua volta conferma i precedenti), quando i cambi di regione comportati da una nuova nomina hanno riguardato solo 6 eletti su 31 (19%). Del resto, lo stesso Bergoglio è stato chiamato «dalla fine del mondo» per fare il vescovo di Roma...
Stando al puro dato anagrafico, non risulta che papa Francesco abbia scelto candidati più giovani. Se siano più “giovanili” è altro discorso, che vale anzitutto per lui, che di anni ne compie 79 fra poco. «L’innalzamento dell’età media di nomina già registrato negli ultimi anni conosce una lieve frenata», commentava l’edizione 2012-2013 dell’Annale de Il Regno. «Dai 61 anni rilevati nel 2009 si passa ai 58 del 2010 e del 2012», esattamente la media degli anni del pontificato di Benedetto XVI (2005-2012). Nei 32 mesi del pontificato di papa Francesco, l’età media dei 45 nuovi eletti flette quasi impercettibilmente al 57,42. È comunque qualcosa di più di una lunga frenata rispetto alle punte del primo decennio del secolo.
L’esperienza
alle spalle
«In questo triennio si conferma la tendenza consueta a fare affidamento su chi si è già sperimentato in incarichi di governo diocesano», rilevava l’Annale in riferimento agli ultimi anni di Benedetto XVI. L’espressione potrebbe essere ripresa letteralmente anche per i primi anni di Francesco: 16 i nuovi eletti presi dalla pastorale diretta territoriale, mentre gli altri già prestavano servizio in curia, nelle istituzioni accademiche, negli organismi CEI.
Si direbbe dunque che nemmeno il criterio del curriculum abbia inciso in maniera significativa nella scelta dei vescovi pastori. I parroci sono preferiti ai curiali o ai docenti, ma in misura non diversa dai predecessori.
Punti
di pressione
Dal riverbero dei numeri possiamo solo dedurre – e con molta prudenza – che i criteri oggettivi non abbiano di fatto segnato un distacco significativo dal passato. I criteri soggettivi evidentemente li conosce solo il papa. Però si può riconoscere nelle nomine più recenti (Modena, Padova, Bologna, Palermo; cf. Settimana 39/2015 p. 4) una preferenza per il tratto umano, la sensibilità pastorale, l’attenzione ai poveri. Vescovi parroci sono stati definiti.
Si direbbe tuttavia che i progetti di papa Francesco sull’episcopato in genere e quello italiano in specifico abbiano agito fin qui su leve diverse da quelle della scelta dei nomi. E in fondo diverse anche dalla strategia, posto che «La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento», come disse nell’intervista alle riviste dei gesuiti.
– Un rafforzamento del profilo statutario della Conferenza episcopale italiana. Degli 8 statuti che si è data, quello attualmente in vigore è sottoposto a revisione proprio su sollecitazione di papa Francesco. La consultazione condotta presso le conferenze episcopali regionali non produce tuttavia un effettivo sbilanciamento. «La maggioranza dei vescovi italiani vuole ampliare la propria partecipazione alle decisioni della CEI, desidera un presidente che somigli di più a un coordinatore che a un leader (da questo punto di vista, l’esperimento Ruini rimane un caso irripetibile), ma desidera non spezzare il particolare legame tra il vescovo di Roma e la Conferenza episcopale. Per questo chiede che continui a essere il papa a nominare sia il presidente, sia il segretario» (Regno-att. 4/2014 p. 81).
– Enfasi sull’autorità del vescovo per la porzione di popolo a lui affidata e, contemporaneamente, consolidamento dello “stile sinodale” – vero e proprio ritornello al Convegno di Firenze – nella guida della Chiesa, universale e particolare. Le modifiche alla procedura per il riconoscimento della nullità del matrimonio e il dispiegarsi del Sinodo straordinario sulla famiglia sono emblematici in tal senso.
– Con il conferimento della porpora cardinalizia a Francesco Montenegro (Agrigento) ed Edoardo Menichelli (Ancona), mentre vanno deluse le attese di Torino e Venezia, papa Francesco disarma aspettative di carriera, premia l’impegno sul campo (Montenegro: immigrazione), privilegia alcuni temi (Menichelli: educazione e scuola) e converte il senso del cardinalato, come ulteriore assunzione di responsabilità.
– Le “battaglie civili” del vescovo di Roma chiedono all’episcopato italiano di avviarsi verso una nuova stagione. «Vi è oggi una consapevolezza maggiore che la condizione di minoranza e di maggiore distanza dai poteri pubblici richiedono una rinnovata coscienza non solo di comunione ma anche di consapevole coesione istituzionale» (Settimana 21/2015 p. 3).
Marcello Matté