Cabra Piergiordano
Suor Emilia
2015/12, p. 4
Una vita a lavare, rammendare, ricuperare, risparmiare, quella di suor Emilia, la quale viveva nella sua comunità di “Umili Serve del Signore” che onoravano il loro nome nell’anonimato più completo tra pentole e attrezzi di cucina, permettendo ai Padri di preparare alla vita centinaia di ragazzi a dir poco poveri.
Suor Emilia
Mia madre aveva voluto che indossassi il vestito più bello per quel giorno di settembre, fissato per la mia partenza per il noviziato. Si erano radunati amici e parenti alla stazione delle corriere per il saluto, commosso e sconvolgente. Il viaggio era durato solo un’ora, ma quella è stata una delle ore più lunghe e difficili della mia vita. Quanto costava il Vangelo!
Il portinaio mi condusse subito in guardaroba, dove avrei potuto lasciare la mia valigia. E lì incontrai una suora che mi chiese gentilmente che cosa volessi. Alla mia risposta che ero un nuovo novizio, mi guardò sorpresa e incredula, tanto che dovetti sbloccare la situazione con una battuta: “Abbia pazienza. Se non ho ancora l’aspetto di novizio, vedrà che mi farò”.
In seguito, quando mi incontrava mi ricordava regolarmente quel primo incontro, nel quale, confessava, aveva notato nel “nuovo novizio” ben pochi dei segni di riuscita. A partire dal vestito troppo elegante, che lei aveva messo in disparte, caso mai dovessi vestirlo di nuovo.
Da parte mia gli ho procurato molto lavoro, quando, terminato l’anno di noviziato, sono passato all’animazione dei ragazzi, per domare l’esuberanza dei quali, avevo introdotto il gioco del rugby, appassionante per i ragazzi, ma impegnativo per la guardarobiera, che doveva continuamente lavare e rammendare maglie e calzoncini, inzaccherati e lacerati dai ruvidi scontri del “nobile sport”. Oltre che i bottoni della mia veste, strattonata negli allenamenti. Cosa che suor Emilia faceva senza lamentarsi, vedendo l’entusiasmo dei ragazzi.
Era abituata a fare miracoli con lo scarso corredo dei ragazzi, provenienti da famiglie modeste o in difficoltà, impegnati ad apprendere un mestiere nei laboratori e nelle officine di meccanica e altre specialità, dalle quali non uscivano certamente immacolati, divenendo così i principali datori di lavoro gratuito e fuori orario per la guardarobiera.
Una vita a lavare, rammendare, ricuperare, risparmiare, quella di suor Emilia, la quale viveva nella sua comunità di “Umili Serve del Signore” che onoravano il loro nome nell’anonimato più completo tra pentole e attrezzi di cucina, permettendo ai Padri di preparare alla vita centinaia di ragazzi a dir poco poveri.
Servire e restare nell’ombra, servire con scarse o nessuna gratificazione, servire con pochi mezzi e abbondanti lamentele, sentire più critiche quando le cose non andavano bene che lodi quando le cose procedevano regolarmente.
Lì c’erano donne intelligenti e consapevoli di partecipare alla missione sia attraverso la prestazione della loro attività sia, e ancor più, attraverso il loro oscuro e inosservato sacrificio.
Lì c’erano persone che cercavano di piacere a Dio più che agli uomini.
Lì c’erano anime belle e nobili che non raramente comprendevano il Vangelo meglio di chi lo predicava. Lì la vita spirituale sosteneva e motivava e rallegrava una “routine” di esasperante monotonia.
Lì noi potevamo trovare esempi concreti di quotidiana santità e sentire sovente parole essenziali di incoraggiamento e di sostegno.
Lì c’erano parecchi cuori di mamme, attente anche alle intime preoccupazioni dei ragazzi.
Un giorno suor Emilia, mentre passavo dalla sua “reggia”, mi dice:”Conosce quel ragazzo? Ha terminato e dovrebbe presentarsi ad un ufficio per un posto di lavoro. Ma ha vergogna perché non ha un vestito decente. Che ne direbbe se dovessimo prestargli il suo, dato che ormai lei non lo usa più? “.
Compresi che aveva modificato il suo scetticismo iniziale sulla mia possibilità di perseverare e, doppiamente lieto riposi: “Perché non glielo regala”?
Quel giorno fummo contenti in tre. Ma la più contenta sembrava lei che, oltre ad aver aiutato un ragazzo, le sembrava d’aver riparato un torto, sentendosi doppiamente mamma, di quel ragazzo e di quello strano novizio che sembrava proprio perseverare e per il quale aveva molto pregato.
Piergiordano Cabra