Chiaro Mario
Per una Chiesa inquieta e sinodale
2015/12, p. 1
Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, ha affermato il papa, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I tratti che deve fare suoi sono: umiltà, disinteresse, beatitudine. Cinque sono le vie da percorrere.
Il 5° convegno ecclesiale a Firenze
PER UnA CHIESA
inquieta e sinodale
Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, ha affermato il papa, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I tratti che deve fare suoi sono: umiltà, disinteresse, beatitudine. Cinque sono le vie da percorrere.
Il 5° Convegno ecclesiale della Chiesa che vive in Italia (Firenze, 9-13 novembre 2015) ha riunito oltre 2.200 delegati, che hanno lavorato suddivisi in duecento piccoli ‘tavoli di discussione’ (dieci persone ciascuno) per affrontare il tema arduo e affascinante di un nuovo umanesimo in Gesù Cristo, coniugandolo con cinque verbi (uscire, abitare, annunciare, educare e trasfigurare) e indicando così la direzione di una Chiesa che non vuole prendersi cura di se stessa, ma degli uomini e delle donne del nostro tempo. Certo oggi viviamo in una stagione ricca di opportunità ma anche di pericoli per l’umano, per cui è decisivo interrogarsi su quale concezione di umanità ci basiamo all’interno di una società sempre più tecnologica e diseguale, in cui molti sono gli esclusi, in cui domina la precarietà e il fondamentalismo religioso.
L’umanesimo
di papa Francesco
Una prima decisiva indicazione è venuta dal pontefice nel suo discorso tenuto in cattedrale (10/11/2015) e ispirato al mirabile affresco del giudizio universale ivi conservato. Per comprendere l’umanesimo cristiano bisogna insomma tornare al volto del Dio ‘svuotato’, di un Dio che ha assunto la condizione di servo, simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati e schiavizzati. Il papa ha in tal modo chiarito di non essere venuto per disegnare in astratto una certa idea dell’uomo, ma per presentare con semplicità tre tratti dell’umanesimo cristiano rappresentato dai “sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5). Il primo sentimento è l’umiltà: «Qui c’è un messaggio preciso. L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra».
Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse: «L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di se stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di “rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli” (cf. Evangelii gaudium 49)».
Un ulteriore sentimento di Cristo Gesù è quello della beatitudine: «Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina. Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito… anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile».
«Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione».
Papa Francesco ha così ribadito la sua decisa propensione per una “chiesa in uscita” nelle strade, non autocentrata e capace anche di riconoscere alcune tentazioni. Ne ha indicate due in particolare: quella pelagiana e quella gnostica. La prima tentazione «spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte… La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo».
Una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente può sconfiggere anche la seconda tentazione, quella gnostica che «porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello… La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo».
Dunque non si tratta tanto di mettere in campo un progetto pastorale rifondativo, quanto di coltivare con passione un’evangelica vicinanza alla gente per vivere un umanesimo popolare, generoso e lieto. Ecco allora le due indicazioni di fondo per i pastori e per i christifideles laici: «Ai vescovi chiedo di essere pastori: sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Di recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente. Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori».
Umanesimo della concretezza
e dell’alleanza
Suggerendo questa via del “minimalismo evangelico” e senza intentare processi al passato, papa Bergoglio sembra dismettere linee di pensiero che per lungo tempo hanno ispirato il linguaggio e le scelte degli apparati ecclesiali in Italia. Perciò egli può racchiudere le sue raccomandazioni a tutte le chiese italiane richiamando due attenzioni forti: l’inclusione sociale dei poveri e la capacità di incontro-dialogo per favorire l’amicizia sociale cercando il bene comune del paese.
Su queste basi si sono mosse anche le due relazioni introduttive del convegno fiorentino. La prima è stata quella del sociologo Mauro Magatti (Università Cattolica di Milano), il quale ha delineato la crisi di identità dell’Italia, un paese che non è ancora riuscito a trovare un suo modo di “stare al mondo” nella globalizzazione, dovendo comunque affrontare le due derive costituite dalla dis-umanità (logica dello scarto) e dalla trans-umanità (logica della manipolazione). Nonostante tutto va riconosciuto (nelle nostre città o parrocchie o famiglie) che l’umano è resiliente: non solo resiste a un destino di astrazione e frammentazione, ma vi risponde creativamente! Sono infatti ancora tante le persone che, reinterpretando i successi tecnico-economici, continuano a custodire la tenerezza e il calore dell’umano. Allora si tratta di credere tutti insieme in un umanesimo della concretezza (termine che significa cum crescere, crescere insieme): «un nuovo umanesimo della concretezza che, guardando a Gesù Cristo, torni a essere capace di quella postura relazionale, aperta, dinamica, affettiva verso cui ci sospinge continuamente papa Francesco. La concretezza, infatti, richiede prima di tutto di rimanere aperti alla vita e alle sue istanze, nella serena consapevolezza che la vita va oltre ciascuno di noi. Essere concreti significa non disgiungere mai i mezzi tecnici e le possibilità economiche dalle obbligazioni e responsabilità verso la rete di rapporti in cui siamo immersi e di cui siamo fatti. Perché “tutto è connesso”: l’essere umano con gli altri esseri viventi, la natura, il cosmo, Dio». Tutto ciò che di grande gli esseri umani possono fare, finisce dunque per diventare disumano se nega la fragilità della nostra comune esistenza. Perciò l’umanesimo della concretezza va declinato rispetto alle sfide che l’Italia ha davanti a sé: rilanciare l'economia, senza avvantaggiare solo i forti, ma combattendo la disoccupazione (specie giovanile), la povertà diffusa e la desertificazione del sud; governare l’emergenza storica dei profughi, con spirito di accoglienza, ma anche con intelligenza e creatività istituzionale; accompagnare il cambiamento del profilo demografico del paese, stimolando nuovi rapporti tra le generazioni e sostenendo le famiglie.
La seconda relazione è stata quella del teologo Giuseppe Lorizio (Università Lateranense di Roma), che ha sottolineato la necessità della costruzione di una “cultura dell’incontro” per immaginare un umanesimo “concreto” nello spirito della Scrittura, la quale esprime il paradigma dell’alleanza degli uomini tra di loro e con Dio. Si tratta dunque di tessere una ricca e nuova rete di alleanze: tra umanità e natura, tra donna e uomo, tra generazioni, tra popoli e religioni, tra cittadino e istituzioni. Allora, per i credenti, «la nuova alleanza realizzatasi in Cristo va vissuta e attualizzata nelle alleanze, spesso infrante o compromesse, che ciascuno di noi e le nostre comunità, con sporgenza verso la società civile, è chiamato a porre in atto, custodendo legami e vincoli autentici e chiedendo e offrendo misericordia, perché avvenga ai diversi livelli una vera riconciliazione sul piano individuale e su quello comunitario». Questa logica vitale dell’alleanza pone le comunità in uno stato di conversione, aiuta a rifuggire la tentazione del “si è fatto sempre così”, spinge a superare una pastorale fondata sulle strutture muovendo verso l’attenzione alle persone, così che i cinque verbi del convegno (uscire, abitare, annunciare, educare, trasfigurare) non rimangano solo degli slogan, ma siano le motivazioni stesse dell’impegno quotidiano dei laici.
La via
missionaria
La relazione finale del card. Bagnasco, presidente della Cei, ha riassunto i lavori ripercorrendo l’unica via della missione articolata nell’uscire, annunciare, abitare, educare e trasfigurare. Si tratta anzitutto di uscire, andare: «Non basta essere accoglienti: dobbiamo per primi muoverci verso l’altro, perché il prossimo da amare non è colui che ci chiede aiuto, ma colui del quale ci siamo fatti prossimi». Il passaggio successivo consiste nell’annunciare la persona e le parole del Signore, secondo le modalità più adatte perché, senza l’annuncio esplicito, l’incontro e la testimonianza rimangono sterili o quantomeno incompleti: «Per portare efficacemente la Parola bisogna esserne uditori attenti, fino a restarne trasformati: è davvero necessario un rinnovato sforzo di approfondimento e condivisione della Parola, se vogliamo far nostro il pensiero e la mentalità biblica. Da qui scaturisce uno sguardo evangelico sulla realtà; da qui si diviene capaci di relazioni vere, quindi di incontro, partecipazione e condivisione; da qui, facciamo nostra l’attenzione a non escludere nessuno». La terza tappa della missione consiste nell’abitare, secondo un impegno concreto di cittadinanza, in base alle possibilità di ognuno: «Abitare significa essere radicati nel territorio, conoscendone le esigenze, aderendo a iniziative a favore del bene comune, mettendo in pratica la carità, che completa l’annuncio e senza la quale esso può rimanere parola vuota». La comunità e i credenti sono poi chiamati al compito di educare per rendere gli atti buoni non un elemento sporadico, ma modi di agire e di pensare stabili, patrimonio in cui la persona si riconosce. Tutti questi passaggi sono tesi infine a trasfigurare le persone e le relazioni, interpersonali e sociali: «Il messaggio evangelico, se accolto e fatto proprio dalle diverse realtà umane, trasfigura, scardinando le strutture di peccato e di oppressione, facendo sì che l’umanesimo appreso da Cristo diventi concreto e vita delle persone, fino a raggiungere ogni luogo dell’umano, rendendoci compagni di viaggio e amici dei poveri e dei sofferenti».
Ricordando sempre che «è l’amore misericordioso che genera la Chiesa e che ci porta a camminare insieme», il cardinale presidente ha concluso ricordando che l’assunzione di «uno stile sinodale richiede precisi atteggiamenti, che dicono anzitutto il nostro modo di porci di fronte al volto dell’altro, e indicano nella prospettiva della relazione e dell’incontro la strada di una continua umanizzazione».
Mario Chiaro