Basso Aldo
Fonti della gioia nella vita consacrata
2015/11, p. 23
Come dice papa Francesco, siamo chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità. La vita comunitaria e l’impegno apostolico sono gli ambiti dove attingere questa gioia.
Come colmare il nostro cuore?
FONTI DELLA GIOIA
NELLA VC
Come dice papa Francesco, siamo chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità. La vita comunitaria e l’impegno apostolico sono gli ambiti dove attingere questa gioia.
“Una fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne. Ben presto i membri saranno tentati di cercare altrove ciò che non possono trovare a casa loro”. Il tema della gioia nella vita consacrata è richiamato spesso nei documenti ufficiali ad essa dedicati e anche papa Francesco torna di frequente, negli interventi alle persone consacrate, su questo tema. Bastino un paio di richiami. Nella Lettera apostolica con la quale indice l’Anno per la vita consacrata scrive: “Che sia sempre vero quello che ho detto una volta: «Dove ci sono i religiosi c’è gioia». Siamo chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità… Che tra di noi non si vedano volti tristi, persone scontente e insoddisfatte, perché “una sequela triste è una triste sequela”… La vita consacrata non cresce se organizziamo delle belle campagne vocazionali, ma se le giovani e i giovani che ci incontrano si sentono attratti da noi, se ci vedono uomini e donne felici!”. E in un’altra occasione il papa così si espresse: “Alcuni dicono che la vita consacrata è il paradiso in terra. No. Casomai il purgatorio! Ma andare avanti con gioia, andare avanti con gioia”.
La gioia: bisogno
di ogni persona
La gioia corrisponde ad un senso diffuso di pace e di piacere, che viene in noi dal possesso di quanto ragionevolmente desideriamo. S. Tommaso ricorda che “come l’uomo non potrebbe vivere in società senza la verità, così nemmeno senza la gioia”. Ciascuno di noi, quindi, cerca la propria strada nella vita per sentirsi realizzato e felice. Anche una persona che inizia un cammino di consacrazione lo fa perché ritiene che i suoi bisogni fondamentali possano essere adeguatamente soddisfatti in questo tipo di vita: è cioè animata dalla convinzione che per lei la via più sicura per vivere da persona soddisfatta e felice sia quella di consacrarsi a Dio e ai fratelli.
Dove troverà gioia la persona consacrata? Una prima risposta, di carattere generale, potrebbe essere la seguente: la troverà là dove ciascuno di noi può concretamente trovarla, se ha a cuore la propria salute mentale e ne rispetta alcune condizioni che la preservano, quali ad esempio: coltivare un po’ di ottimismo, sapere concentrarsi nel presente senza inutili rimpianti del passato e inutili tormenti per il futuro, sforzarsi di vedere il lato meno triste delle cose (senza naturalmente voler chiudere gli occhi sugli aspetti dolorosi e talvolta tragici dell’esistenza), sviluppare un’autentica capacità di “amare e lavorare” (Freud). Diverse sono le esperienze positive, accessibili a chiunque, che rendono possibile sperimentare quella gioia dell’esistenza e della vita che fanno dire a Pasternak: “Come è dolce esistere, come è dolce essere al mondo e amare la vita”. Ad esempio:
la gioia pacificante della natura e del silenzio;
la gioia talvolta austera del lavoro accurato;
la gioia e la soddisfazione del dovere compiuto;
la gioia di una méta raggiunta con il proprio sforzo e a prezzo del proprio sacrificio;
la gioia del riposo (essere capaci di riposare non è scontato; papa Benedetto ha ricordato che servono umiltà e coraggio, presupposti per una vita equilibrata e serena);
la gioia dei momenti di festa (ricordando, come sottolinea Nietzsche, che “l’abilità non sta nell’organizzare una festa, ma nel trovare persone capaci di trarne gioia”);
la gioia che deriva dalla contemplazione della bellezza;
la gioia dell’incontro con Dio (“Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore”. S. Agostino ricorda che “nessuno è felice come Dio, nessuno fa felici come Dio”).
Dobbiamo comunque essere realisti e prendere atto che le prime esperienze di vita, negli anni della nostra infanzia, possono condizionare anche in modo molto incisivo la possibilità di amare la vita e sperimentare la gioia di esistere. Si sa che “più di tutto fa la nascita” (Hölderlin) e che la vita è un po’ come la si comincia. Da questo punto di vista, fondamentali rimarranno sempre per una persona le prime esperienze relazionali vissute nell’ambito della famiglia. Afferma Castellazzi: “Le radici della vera felicità hanno una base interiore, prima ancora che esterna. Secondo l’ottica psicoanalitica poggiano sulla introiezione di una buona relazione iniziale con la madre e, più in generale, con l’ambiente familiare”. Al bambino che entra sulla scena di questo mondo occorre che si vada incontro in modo da metacomunicargli un messaggio fondamentale: ‘è una bella cosa che tu ci sia’.
Questo messaggio di benvenuto può arrivare soltanto dalle persone che ci vogliono bene, per cui è facile comprendere che fin dall’inizio la possibilità di essere felici è strettamente legata all’amore. Gioia e amore saranno sempre legati tra loro nella vita. Soprattutto la relazione con la propria madre assume un’importanza cruciale. Fromm, facendo riferimento al simbolismo biblico della terra promessa, afferma: “La terra promessa (terra è sempre simbolo di madre) è descritta come ‘traboccante di latte e miele’. Il latte è il simbolo del primo aspetto dell’amore, quello per le cure e l’affermazione; il miele simboleggia la dolcezza della vita, l’amore per essa, e la felicità del sentirsi vivi. La maggior parte delle madri è capace di dare ‘latte’, ma solo una minoranza di dare anche ‘miele’. Per poter dare miele una madre non deve soltanto essere una ‘brava mamma’, ma una persona felice – e tale obiettivo non è raggiunto da parecchi”.
Si deve anche aggiungere, infine, che se è vero che le esperienze passate possono rappresentare condizionamenti anche molto pesanti sulla nostra vita presente – si pensi ad esempio al caso di una persona che ha vissuto un’infanzia molto triste –, nello stesso tempo rimane sempre alla persona un margine di libertà nei confronti di questi condizionamenti, nel senso che ella può assumere atteggiamenti diversi nei loro confronti: ad esempio un atteggiamento di rifiuto o di rassegnazione passiva o di realistica accettazione e volontà di cambiare. Sempre è importante che di fronte a situazioni problematiche ciascuno si chieda: ‘che cosa posso e voglio fare’?
Cosa ci manca
per essere felici?
La domanda non è retorica. Pensando alle varie possibilità che la vita offre di sperimentare la gioia, la gente può essere facilmente portata a immaginare che la persona consacrata, rinunciando alle gioie affettive e sessuali che normalmente si sperimentano all’interno di un normale contesto famigliare, si priva di un’esperienza di vita molto importante e significativa per essere felice.
Chi si incammina verso la vita consacrata ha bisogno quindi di essere aiutato a trovare risposte sicure e convincenti, sia dal punto di vista psicologico che teologico, a questo riguardo – cosa che non è sempre scontata nella formazione. Provo a riassumere in modo molto sintetico, per quanto è possibile in questa breve riflessione, alcune considerazioni che mi sembrano più pertinenti.
È un dato a tutti noto che la persona consacrata rinuncia a quell’esperienza dell’amore coniugale e dell’amore paterno/materno che normalmente alimenta la vita affettiva di una persona. Questo significa che la sua vita affettiva risulta impoverita e la sua sessualità impedita di esprimersi? Il concilio Vaticano II offre già una prima sicura risposta: “La professione dei consigli evangelici, quantunque comporti la rinunzia di beni certamente molto apprezzabili, non si oppone al vero progresso della persona umana, ma per sua natura le è di grandissimo giovamento”. Come intendere questa affermazione conciliare?
Volendoci esprimere in modo molto sintetico ci si può spiegare con le considerazioni seguenti. L’affettività umana si alimenta e si sviluppa attraverso l’esperienza di relazioni interpersonali autentiche, all’interno di un determinato contesto sociale e culturale. Ogni relazione affettiva è sessuata, anche se non necessariamente sessuale, e ciò porta a concludere che il sentire affetto o amore per qualcuno significa vivere una relazione diversa a seconda che si è uomo o donna.
La persona consacrata è consapevole di sperimentare, non vivendo l’esperienza normale dell’amore coniugale, uno stato di frustrazione affettiva non certo di poco conto e non è certamente rifiutando di prendere atto di questa situazione che diventa più facile viverla serenamente. Partendo da questo dato di fatto, come potrà dunque vivere in pienezza la propria affettività? “La risposta non è difficile da trovare – afferma A. Plé – anche se è più difficile tradurla in pratica: deve vivere affettivamente attraverso il progresso in lei della carità”. Riprendendo alcune considerazioni di questo autore, si può affermare che la persona consacrata ha dunque il compito di integrare la propria affettività nella carità: l’amore che si fa dono e servizio, dimenticanza di sé e ‘perdita della propria vita’. Questo almeno è l’ideale. L’amore di carità non è però ‘naturale’, come è invece l’amore per un uomo – una donna – o per i figli: esso è dono di Dio, è frutto dello Spirito Santo, è grazia. Nello stesso tempo è necessario l’impegno personale, nella pazienza e nella perseveranza.
Per arrivare a realizzare gradualmente una mobilitazione generale ed esclusiva di tutta la propria affettività, spirituale e passionale, al servizio del Regno di Dio e investire progressivamente la vita affettiva nella carità, alla persona consacrata si richiede tempo e uno stile di vita particolare (preghiera, ascesi...). È pure necessario saper apprezzare la qualità dei piaceri dello spirito, come riconosce lo stesso Freud – e per la persona consacrata questi piaceri sono appunto essenzialmente le gioie della carità, gioie vissute con la partecipazione totale di tutta la sua sensibilità, in tutto ciò che vi è di umano nelle sue relazioni con gli altri.
Si potrà infine pensare che realizzare la maturazione affettiva diventi più difficile quando ci si pone su una strada per la quale non è ‘naturale’ andare, ma qui si devono ricordare sia le parole di Gesù - “Chi può capire, capisca” - sia l’esperienza di vita di tanti uomini e donne di ogni tempo che mostrano concretamente come di fatto sia possibile sentirsi profondamente realizzati dal punto di vista affettivo, consacrando totalmente la propria vita a Dio e ai fratelli.
L’esperienza della gioia
nella persona consacrata
I percorsi possibili che portano alla gioia sono diversi per ciascuna persona e questi possono passare sia attraverso l’esperienza del matrimonio e della famiglia come anche attraverso quella della consacrazione. Nei Racconti di Chassidim si legge che rabbi Bar di Radoschitz pregò un giorno il rabbi Giacobbe Isacco di Lublino, suo maestro: “Indicatemi una via universale al servizio di Dio”. Rabbi Giacobbe Isacco rispose: “Non si deve dire agli uomini quale via debbono percorrere. Perché c’è una via in cui si serve Dio con lo studio e un’altra con la preghiera, una con il digiuno e un’altra mangiando. Ognuno deve guardare su quale via lo spinge il cuore, e poi quella scegliere con tutte le sue forze” (Dai Racconti di Chassidim).
Volendo esplicitare ulteriormente i percorsi che portano alla gioia le persone consacrate, è utile riprendere ancor le parole di papa Francesco: “Siamo chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità; che l’autentica fraternità vissuta nelle nostre comunità alimenta la nostra gioia; che il nostro dono totale nel servizio della Chiesa, delle famiglie, dei giovani, degli anziani, dei poveri ci realizza come persone e dà pienezza alla nostra vita”. Il papa sottolinea quindi che sono fondamentalmente due gli ambiti nei quali la persona consacrata deve nutrire la sua vita affettiva: la vita comunitaria e l’impegno apostolico.
Se le persone consacrate vogliono che il loro cuore viva, allora bisogna ribadire che sono indispensabili comunità che le sostengano come esseri viventi e che le aiutino a crescere nell’amore. È ben nota a tutti la fatica che comporta la vita comunitaria, come d’altra parte è altrettanto nota a tutti la fatica che comporta – per chi è sposato – la vita in famiglia; nello stesso tempo, però, si deve dire che autentiche gioie affettive possono essere sperimentate se, con l’impegno di tutti e di ciascuno, la comunità diventa una casa dove c’è qualcuno da amare e qualcuno dal quale sentirsi amati di quell’amore che si fa dono e dimenticanza di sé. Se nelle comunità religiose non c’è un po’ di umanità, se non si praticano le virtù umane quali la bontà, la sincerità, la gentilezza, la pazienza, la fiducia reciproca, allora è facile che si creino le premesse per varie forme di nevrosi o per la ricerca di qualche forma di compensazione affettiva (intemperanza nel mangiare e nel bere, attivismo, dipendenza da internet, attaccamento eccessivo ad animali…) .
L’impegno apostolico è l’altro ambito dove è possibile sperimentare gioie autentiche. È la gioia di poter servire e sentirsi utili (“tutti abbiamo bisogno – afferma E. Erikson – che gli altri abbiano bisogno di noi”). Mettersi al servizio del prossimo in atteggiamento di carità autentica fa sperimentare la verità delle parole di Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Nello svolgimento del suo apostolato la persona consacrata si trova a sperimentare una trama di rapporti interpersonali all’interno dei quali può dispiegare le proprie potenzialità affettive, amare con il suo cuore di uomo – di donna –, esprimendo tutte le tonalità e le sfumature dell’amore maschile e femminile. In una parola: può sentirsi profondamente ‘padre’ e ‘madre’. Le persone consacrate hanno rinunciato ad un modo di esprimere la loro sessualità (l’espressione genitale), ma ciò non deve impedire di diventare uomini e donne maturi, i quali, pur non praticando il sesso, sono chiamati a vivere e ad irradiare le ricchezze connesse alla propria sessualità, cioè appunto al fatto di essere uomo o donna. In definitiva, più la persona consacrata è soddisfatta del suo ministero, del suo apostolato, delle sue relazioni comunitarie, più può sviluppare la sua vita affettiva e tanto più tollerabile diventerà la rinuncia affettiva all’amore di tipo coniugale.
Dovendo essere realisti, si deve comunque ribadire che mancherà sempre qualcosa al cuore delle persone consacrate, per non parlare tra l’altro dell’astinenza totale dai rapporti sessuali. Nel contempo però è pure necessario ricordare che ogni scelta di vita comporta inevitabili rinunce e tutti dobbiamo imparare la difficile arte di vivere da persone soddisfatte nonostante molti desideri insoddisfatti (D. Bonhoeffer).
La gioia
dell’amicizia
Un accenno a parte merita anche l’esperienza dell’amicizia nella vita delle persone consacrate. Questa esperienza aiuta a crescere; dà piacere, aiuto e conforto; protegge dalla solitudine. La capacità di instaurare amicizie mature con confratelli e consorelle, come pure con uomini e donne al di fuori del proprio Istituto, è un segno e una condizione di maturità affettiva. L’amicizia deve dunque avere un grande spazio nella vita della persona consacrata: è una possibile e importante esperienza di intima gioia.
La capacità di stabilire amicizie intime varia enormemente: alcuni l'hanno come un dono naturale, altri si sentono invece inquieti, incapaci e spaventati dall'idea che l'intimità possa sfociare nel rifiuto o nel risucchiamento. Le amicizie intime richiedono un senso del sé, un interesse verso le altre persone, empatia, fedeltà e impegno; richiedono inoltre l'abbandono - una perdita necessaria – di alcune fantasie sull'amicizia ideale.
Alle persone consacrate è non solo lecita ma augurabile l’esperienza di un’autentica amicizia, anche con persone dell’altro sesso. A quali condizioni? Volendo rispondere sinteticamente si può dire così (faccio riferimento anche ad alcune lucide considerazioni di A. Plé espresse in diversi suoi scritti): tutto dipende dal grado di maturità affettiva e spirituale di un soggetto! Chi la possiede ad alto livello può vivere tale amicizia come un dono e nella chiarezza di una relazione di carità; essa diventa un aiuto per far crescere la fede, l'amore verso Dio e verso i fratelli. A chi la possiede a basso livello è sconsigliabile perché sono troppo forti i rischi di una relazione che, non essendo mai neutra, sarebbe affidata a persone più o meno incapaci di tenere sotto ragionevole controllo le loro emozioni e i loro impulsi.
Fondamentale e decisiva dunque è la maturità affettiva-sessuale della persona consacrata. Se questa non ha ancora sufficientemente investito la sua affettività nelle motivazioni positive della sua castità consacrata e nelle attività del suo apostolato, soprattutto se presenta tendenze nevrotiche favorite da un'educazione basata sulle proibizioni e sulla paura, allora la relazione affettiva che lei stabilisce può essere facilmente carica di profonda ambiguità. Tale relazione è ben lontana dall'essere un fattore di maturazione e rischia troppo spesso di finire in rapporti sessuali ed eventualmente nel matrimonio. Un tale matrimonio poi non è sempre felice e stabile, anche se è un fatto sacramentale, dato che il matrimonio non è una terapia.
Al contrario, se i due partner di una tale amicizia hanno già realizzato una felice maturità affettiva, allora è possibile un arricchimento affettivo e la carità ne beneficia. Ci sono esempi di persone sante che hanno realizzato questa forma di amicizia. In questo caso il cuore della persona consacrata non è diviso, ma arricchito. Se questa relazione affettiva – sessuata, ma non sessuale – non è vissuta come un bisogno vitale e indispensabile, se i due "ne usano come se non se usassero" (I Cor 7,31) ed è qualcosa che "viene dato in aggiunta" (Mt 6,33), essa può avere effetti notevolmente benefici.
In definitiva, si può ritenere che per coloro la cui vita affettiva è già ben avviata verso la maturità in rapporto alle condizioni di vita in cui si trovano già impegnati, è possibile vivere positivamente e felicemente un rapporto di profonda amicizia. Per gli altri c'è da temere che si tratti il più delle volte di una sfortunata complicazione o di un rischio. Sembra che si verifichi in questo caso la parola misteriosa del Cristo: "Vi dico: a chiunque ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (Lc 19,26)
Quando la possibilità
della gioia è minacciata
Non è difficile immaginare che cosa può rendere difficile o impossibile a una persona consacrata l’esperienza della gioia. Possono pesare ferite e sofferenze del passato; forme accentuate di individualismo nelle comunità religiose (non è raro che, conoscendo certe comunità religiose, venga alla mente la considerazione amara di Pirandello: “tanta era la loro solitudine, che, pur così vicini, parevano l’uno dall’altro lontanissimi”); l’educazione morale e religiosa ricevuta nel periodo di formazione alla vita religiosa; la povertà comunicativa e la mancanza di un dialogo autentico; la non chiara e consapevole scelta del piano di vita, con tutto ciò che questo comporta; uno stile di vita ispirato alla mondanità spirituale; scelte di impegni apostolici non rispondenti alle caratteristiche e alle attitudini personali; forme di governo dove manca il rispetto della persona; la presenza in comunità di persone umanamente (molto) disturbate e immature. A quest’ultimo caso pensava probabilmente papa Francesco quando, in occasione di un suo recente intervento destinato ai giovani consacrati, così si espresse: “Io vorrei… ringraziare la testimonianza delle donne consacrate – non tutte, però, ce ne sono alcune un po’ isteriche!”. Questa sottolineatura rimanda all’importanza di un serio discernimento nella formazione dei candidati alla vita consacrata, se si vuole evitare che la presenza di soggetti inadatti a questo tipo di vita renda molto difficile l’esperienza di una vita serena e tranquilla nelle comunità religiose. “Essere lieti, custodendo sempre in noi le sorgenti della letizia cristiana, significa compiere una grande carità verso noi stessi e verso coloro che vivono intorno a noi”.
E, infine, ci sono poi le inevitabili sofferenze e prove della vita e in questi momenti viene da chiederci: dov’è la gioia nei momenti più tristi, nei momenti del dolore? Papa Francesco si è posto questa domanda in un’omelia a santa Marta e ha risposto così: “Pensiamo a Gesù sulla Croce: aveva gioia? Eh no! Ma sì, aveva pace!”, e approfondendo questo pensiero ha aggiunto: “la gioia, nel momento del dolore, della prova, diviene pace”.
Nel Talmud leggiamo: “Nel mondo futuro tutti noi saremo chiamati a rendere conto di tutte le buone cose che Dio ha posto sulla terra e delle quali abbiamo rifiutato di godere”. Ecco allora che viene a proposito l’invocazione al Signore con le parole di Dostoevskij: “Signore, facci ricordare che chi ama gli uomini, ama anche la loro gioia, che senza gioia non si può vivere, che tutto ciò che è vero e bello è sempre pieno della tua misericordia infinita”.
Aldo Basso