Prezzi Lorenzo; Dall'Osto Antonio
Un uomo che crede nel futuro
2015/10, p. 40
Finora, p. Heiner Wilmer era provinciale dei dehoniani tedeschi. I suoi confratelli, subito dopo la sua elezione, hanno scritto: «E’ “l’uomo giusto nel posto giusto”: per la sua vita esemplare, la sua spiritualità dehoniana, la sua ampia esperienza di responsabilità e di guida, la sua visione e il coraggio di fronte alle sfide attuali, i suoi rapporti sul piano mondiale, la sua conoscenza delle lingue e la sua abilità dialettica; tutte qualità che gli serviranno nel nuovo incarico». Qui p. Heiner risponde ad alcune domande che gli abbiamo posto.
Intervista a p. Heiner Wilmer nuovo sup. gen. dei dehoniani
UN UOMO
CHE CREDE NEL FUTURO
Finora, p. Heiner Wilmer era provinciale dei dehoniani tedeschi. I suoi confratelli, subito dopo la sua elezione, hanno scritto:
«E' “l’uomo giusto nel posto giusto”: per la sua vita esemplare, la sua spiritualità dehoniana, la sua ampia esperienza di responsabilità e di guida, la sua visione e il coraggio di fronte alle sfide attuali, i suoi rapporti sul piano mondiale, la sua conoscenza delle lingue e la sua abilità dialettica; tutte qualità che gli serviranno nel nuovo incarico». Qui p. Heiner risponde ad alcune domande che gli abbiamo posto.
Come ha accolto dal punto di vista psicologico e soprattutto spirituale la sua elezione a Superiore generale in un momento molto impegnativo in cui la VC attraversa una fase di crisi ma anche di profondo rinnovamento?
L’evento Capitolo mi era familiare, perché, come sei anni fa, avevo già lavorato nella Commissione preparatoria. Ma questa volta è stato diverso. Il primo sondaggio, il venerdì, aveva rilevato un’ampia convergenza sul mio nome e questo ha gettato ansia su tutto il primo fine settimana. Lunedì c’è stato un secondo sondaggio e poi la prima votazione: sono stato eletto al primo scrutinio. Il momento dell’elezione nella sala capitolare mi ha molto commosso, soprattutto per la grande fiducia manifestata dai confratelli. Mi mancavano le parole per dire la mia gratitudine ai confratelli, a Dio, al cammino nella vita religiosa compiuto fin qui nelle diverse comunità. La notte successiva ero di nuovo in apprensione per la composizione del Consiglio: chi mi avrebbero assegnato come collaboratori? La squadra è determinante. Sapevo che essere superiore generale è un incarico molto complesso che non può essere assolto da soli. Oggi sono molto riconoscente ai capitolari per aver scelto i confratelli che ora compongono il Consiglio generale. Dopo lo sconvolgimento iniziale, ora sono più tranquillo e pronto ad affrontare questo nuovo compito con gioia, con forza e con una grande fiducia in Dio e nei confratelli.
Ci può tracciare una breve panoramica della Congregazione che è stato chiamato a guidare, nel suo andamento, nei suoi problemi e sviluppi?
La congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù ha ultimamente imboccato alcune buone piste di sviluppo. L’anagrafica è rimasta abbastanza stabile nei numeri grazie alla crescita della congregazione in tre continenti: Asia, Africa, America Latina. C’è un calo consistente e preoccupante in Europa.
La ricerca critica e l’approfondimento del nostro carisma, dal p. Dehon alla tradizione, hanno fatto passi notevoli, grazie anche al Centro Studi Dehoniani. La congregazione è consapevole della propria identità: siamo una congregazione apostolica, è vero, ma non dobbiamo cadere nell’attivismo. I confratelli stanno ricuperando la dimensione del silenzio davanti a Dio, del tempo di preghiera e adorazione per sviluppare un rapporto personale con Gesù. È al fondamento del nostro carisma.
Mi sta molto a cuore il “progetto Europa” – come indicato dai superiori maggiori due anni fa – non tanto perché io sono europeo, ma perché sono convinto che non possiamo lasciar tramontare il nostro carisma in Europa. Siamo nati in Francia, in Europa: per tutta la spiritualità occidentale ha la sua importanza dare continuità al carisma dehoniano in Europa. Per questo la domanda posta a Clairefontaine due anni fa, all’interno di una riflessione sul tema della secolarizzazione, resta per me importante: perché il carisma dehoniano in Europa?
Una seconda pista è lo sviluppo aggiornato della devozione al Sacro Cuore di Gesù. Alcune forme sono superate, ma la nostra spiritualità è concreta e non solo teorica, perciò ha bisogno di forme. Penso che dobbiamo sviluppare creativamente espressioni nuove della devozione.
Una terza sfida è la formazione: iniziale e integrale (preghiera, studio, spirito missionario…), ma anche permanente. Non basta una specializzazione da incorniciare; la formazione non è un periodo della vita ma una dinamica che l’accompagna in tutta la sua estensione.
Il Papa Francesco nella Lettera ai consacrati scrive che «L’Anno della vita consacrata ci interroga sulla fedeltà alla missione che ci è stata affidata». Ci invita a guardare il passato con riconoscenza, a vivere il presente con passione e ad abbracciare il futuro con speranza. In base alla sua esperienza, come guarda al nostro passato? Le sembra che nel nostro istituto si viva il presente con passione e si guardi al futuro con speranza?
C’è una prospettiva che ci permette di interpretare il nostro passato, il presente e il futuro e vorrei adottarla come traccia per il mio mandato. È quella delineata nella Evangelii gaudium. Al n. 24, papa Francesco dice: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”». E poi, mutuando l’immagine di Lc 15 – il padre dal cuore aperto – dice che la nostra Chiesa dovrebbe avere un atteggiamento materno: la Chiesa come una madre dal cuore aperto. «La Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (47). «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» (49). Questa è per me la lente per leggere passato, presente e futuro. Questo testo traduce il cuore di quanto voleva p. Dehon. Anche per noi è ricorrente il rischio di cedere alla comodità, per il tenore di vita, per la sicurezza riposta in una struttura o in un’opera della quale siamo orgogliosi. La fiamma dello spirito missionario è sempre a rischio di affievolirsi, perciò dobbiamo dare nuovo impulso alla volontà di essere discepoli di Gesù; magari con qualche sbavatura poco ortodossa ma in modo creativo. Il nostro fondamento è la spiritualità, il vangelo, non le opere. Su questa base dobbiamo aggiornare il nostro carisma e, leggendo il mondo di oggi attraverso la lente di p. Dehon, domandarci cosa possa significare per esso. Papa Francesco è una figura provvidenziale in questo senso, perché ci provoca a riscoprire il nostro carisma.
Il Papa ci esorta anche a scrutare gli orizzonti “in vigile veglia”. Nel Capitolo generale c’è stata questa attenzione a scrutare il futuro – non ascoltando i profeti di sventura – e il desiderio di continuare il cammino con fiducia?
Un testo chiave è 1Sam 3,1ss: «Il giovane Samuele serviva il Signore alla presenza di Eli. La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti. … La lampada di Dio non era ancora spenta». Vedo il nostro compito simile a quello di Eli: ascoltare voci alle quali non si dà in genere importanza, come la voce del piccolo Samuele. Come possiamo fare affidamento sulla presenza di Dio nella nostra vita? sull’incidenza che Dio può avere nella nostra vita? In proposito, un’opera per me centrale è quella di Henry De Lubac, Le Surnaturel, pubblicata nel dopoguerra (1946) e scritta quando era perseguitato dai nazisti. Ha lavorato nella resistenza in Francia e nello stesso tempo ha lavorato molto e ha scritto molto contro l’antisemitismo. De Lubac mette nuovamente in gioco due parole: la natura umana e la grazia divina. Un topos teologico importantissimo per la nostra vita dehoniana e tutta la Chiesa cattolica: raggiungere il centro della fede, della teologia e studiare il rapporto tra uomo e Dio, la collaborazione con la grazia. Secondo De Lubac non si dà la natura pura. Egli affronta anche il rapporto con le altre religioni. Un tema sempre più importante anche per noi in Europa perché dobbiamo ripensare la non centralità della Chiesa cattolica in questo mondo. Penso che non abbiamo ancora riflettuto a sufficienza su questo tema: cosa vuol dire essere una minoranza nel mondo che pensa autonomamente e prende in mano una certa responsabilità.
Nell’ultima Assemblea generale dei Superiori Maggiori (USG), – 27-29 maggio 2015 – sono state indicate alcune priorità da prendere in seria considerazione: il primato dei poveri, di quanti nella società sono marginali, di scarto, esclusi, ultimi, rifiutati, vittime, soli, inutili. Il nostro Capitolo generale, come risulta anche dal tema scelto, Misericordiosi in comunità con i poveri, ha fatto propria questa preoccupazione. Pensa che si apriranno in questa direzione nuove prospettive e nuovi orizzonti per il futuro della nostra missione nella Chiesa e nel mondo d’oggi?
Nella Sintesi finale del nostro Capitolo generale abbiamo ribadito che l’unione a Cristo è per ciascuno il fondamento della nostra vita. Una citazione biblica molto cara a p. Dehon, forse il versetto che lui cita con maggiore frequenza, è Gal 2,20: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me». Una citazione ripresa all’inizio della Sintesi. Secondo me rivela lo spirito – non solo la spiritualità – nel quale il Capitolo generale vuole progettare il cammino verso il futuro. Per accennare soltanto alcuni punti concreti, interessante è che nel Capitolo “Spiritualità e identità” c’è un criterio guida, molto pratico: «L’invito a vivere misericordiosi in comunità con i poveri è il criterio guida del servizio apostolico». Durante le visite canoniche intendo porre la domanda: come state realizzando un progetto con i poveri? Non solo per i poveri, ma con loro. I poveri visti non come oggetto, ma soggetto dell’annuncio del vangelo, come voleva il documento latino-americano di Aparecida nel 2007.
Un secondo orizzonte è l’interculturalità. Noi parliamo sempre di più di comunità a composizione internazionale. Ma non basta mettere assieme persone di nazionalità diversa nella medesima comunità. Aprirsi all’altro, raggiungere la periferia all’interno della comunità è alla base per saper andare alle periferie fuori dalla comunità.
C’è un’idea preziosa nella Sintesi: «La qualità della vita fraterna ci mantiene in atteggiamento di conversione». Il Capitolo parla della conversione come uno dei concetti base. Ci porta al quarto capitolo, intitolato “La scelta preferenziale per i poveri”. Viene citato papa Francesco, il quale afferma «senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri». P. Dehon ci ha lasciato la consegna «Andate al popolo». Una dimensione pratica, richiamata diverse volte, è la collaborazione, voluta e cercata non solo per necessità. Come dehoniani siamo consapevoli, forse con uno spirito più umile che in passato, che dobbiamo collaborare sia con la Chiesa locale, sia con altre congregazioni e famiglie religiose, con le istituzioni civili e chiaramente con i laici.
Un altro punto concreto è promuovere a livello di congregazione la missione dehoniana giovanile. Una cosa che mi sta a cuore è lo spirito di Maria, l’Ecce ancilla, il Fiat grazie al quale la misericordia di Dio si estende di generazione in generazione.
La stessa assemblea ha sottolineato la necessità di far crescere il senso di appartenenza all’istituto come comunità internazionale, favorire e costruire la comunione fra le diverse parti e di ciascuna con il governo generale, contribuire alla costruzione della “cultura dell’incontro”, favorire la crescita della corresponsabilità. E ha affermato che, per questo, oggi c’è bisogno di “un governo generale sempre più carismatico e ispiratore”. Lei è all’inizio del suo mandato come Generale: cosa può significare, a suo parere, uno stile di leadership più carismatico e ispiratore?
Quattro cose. Anzitutto, un testo che mi tocca molto è il Primo libro dei Re 3,5-9, dove Salomone chiede «un cuore docile», un cuore che ascolta. Per me l’ascolto è importantissimo. A chi mi chiedeva: come vuoi cominciare il tuo compito di superiore generale? io rispondevo: ascoltare, ascoltare, ascoltare. Nella preghiera, avere tempo per il silenzio e l’adorazione. E poi ascoltare anche i confratelli, gli anziani, quelli che hanno una lunga esperienza, e gente da fuori. Un secondo punto che mi sta a cuore è quello richiamato da san Benedetto nella sua Regula: l’abate deve ascoltare tutti, anche il più giovane. Ascoltare i giovani, nella congregazione e fuori, lo ritengo un impegno.
Il terzo punto, molto importante nella leadership, è la squadra e lo spirito di squadra. Ho già detto ai consiglieri che uno da solo, se è uno specialista, può essere rapido ed efficiente nell’azione, ma non va lontano. Insieme andiamo più lontano.
Infine, sempre legato all’ascolto, un riferimento chiave è il Vaticano II. In particolare Gaudium et spes. Presenta una dinamica tanto cara a Giovanni XXIII, quella pastorale. Il concilio l’ha messa a fuoco all’ultimo momento; GS è stata l’ultima costituzione ad essere approvata. Al n. 44, “L’aiuto che la Chiesa riceve dal mondo contemporaneo”, il tema è come possiamo intercettare e ascoltare lo spirito divino che si presenta nel mondo: «Come è importante per il mondo che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall'evoluzione del genere umano. L’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa». È importante ascoltare la cultura, la scienza, non avere paura, non essere timidi. Anche l’arte è importante. Paolo VI aveva un contatto stretto con gli artisti, perché essi sono spesso più vicini alle vere domande e ai problemi della gente, come un sismografo che percepisce i moti sotterranei. Ci domandiamo cosa possiamo dare al mondo, ma anche cosa il mondo può dare a noi, in un rapporto alla pari.
Da provinciale in Germania ha dovuto affrontare un difficile passaggio in ragione delle denunce di abusi di confratelli. Come ha attraversato quei momenti e come lo hanno fatto altri istituti religiosi tedeschi?
Nella Provincia tedesca, durante il mio mandato come provinciale, abbiamo dovuto affrontare casi, riferiti agli anni 50-70, di confratelli responsabili di abusi su minori, a livello sessuale o maltrattamenti. È stato un momento duro per me e il Consiglio. Era triste constatare che nostri confratelli avevano tradito la fiducia dei minorenni e dei loro genitori. Ho cercato consiglio all’esterno. Abbiamo avuto la fortuna o la grazia di incontrare uno psicoterapeuta e teologo che ci ha accompagnato. Fin dall’inizio mi ha detto: «Lei è il provinciale, è il capo. Deve ricostruire la storia degli abusi e darle, nella sua agenda, la massima priorità, senza deleghe. Non andate dagli avvocati. Lei deve incontrare direttamente le vittime. E se i casi fossero troppi, cerchi altri capi che possano assumere una responsabilità personale». Così abbiamo fatto. Abbiamo formato due gruppi, uno in Germania del Nord e uno al Sud, sempre con direttori delle scuole o comunque persone in carica. Abbiamo parlato molto. Oggi sono grato, perché si è rivelato il cammino migliore. Altre congregazioni che si sono affidate agli avvocati hanno speso molto denaro e si sono trovati nel mezzo di una lite fra avvocati. Il nostro consulente ci diceva che le vittime di abusi sono persone già allora senza voce; forse volevano parlare, ma nessuno li prendeva sul serio. «Per questo – ci diceva – lei deve ascoltare, per non raddoppiare il trauma». Mi sono reso conto che per noi come congregazione, ma anche come Chiesa, è difficile metterci nella prospettiva della vittima. Anche le guide per i confessori e per l’esame di coscienza si muovono sempre dal punto di vista di chi ha commesso un peccato, trascurando la prospettiva della vittima. Nella teologia morale della nostra Chiesa assumiamo sempre la prospettiva del peccatore, del soggetto che agisce, ma non della vittima. Penso sia una lacuna. Al di là degli scandali, è una mentalità troppo ristretta che ci impedisce di capire la vittima.
Da direttore di collegio e da provinciale ha condotto ogni anno confratelli e studenti ad Auschwitz. Perché lo ha fatto? Cosa può dire oggi la Shoah? Cosa dice la seconda guerra mondiale in ordine alla fondazione della nuova Europa?
Nella mia vita ci sono due capitoli oscuri collegati ad Auschwitz. Il primo è il fatto che io sono tedesco, parte di un popolo che è stato autore di quella tragedia. Il secondo punto è che il nostro fondatore, p. Léon Dehon, alla fine del XIX sec., tra il 1896 e il 1899, ha scritto contro il popolo ebraico, con espressioni antisemite che ci lasciano perplessi: come mai si è lasciato prendere da quella ondata culturale? Per questo ho sempre personalmente coltivato una sensibilità particolare contro l’antisemitismo. Ho letto molto, ho frequentato un corso semestrale sulla questione dell’antisemitismo nel XX secolo. Sono stato ad Auschwitz-Buchenwald molte volte, ma là non riesco a tirar fuori una parola, perché un nodo mi chiude la gola. Nel libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, ho trovato per la prima volta un linguaggio che mi permette una certa introspezione nel vissuto delle vittime. Dice: «Non accettavo più il silenzio di Dio». E ancora: «In fondo al cuore sentivo che si era fatto un grande vuoto». Come sappiamo, da giovane ebreo ortodosso Primo Levi è stato deportato insieme alla famiglia nei campi di Auschwitz-Buchenwald negli anni 1944-45, al culmine dell’Olocausto. Dice che là ogni cosa viene invertita, ogni valore distrutto. «Qui non ci sono padri, fratelli, amici. Ognuno vive e muore in solitudine». Ci sono andato con gli studenti perché gli alunni tedeschi del liceo, del quale sono stato direttore per nove anni – un grande liceo con 1.300 studenti – devono sapere che l’Olocausto – e Auschwitz come luogo emblematico – fa parte della storia tedesca, che Auschwitz è il capitolo più triste e orribile della storia tedesca. Volevo che gli alunni sapessero che non si potrà chiudere mai questo libro. Non è questione di colpa personale, ma volevo che loro sapessero che questo capitolo resterà sempre nella memoria, e fa parte della nostra storia. Volevo poi anche aprire uno spazio nel quale si incontrino l’uomo e Dio. Vedendo Auschwitz-Buchenwald, questo annientamento di massa, questo sterminio “scientifico” dell’essere umano – un milione e 200.000 persone uccise in maniera brutale – si apre uno spazio problematico tra l’uomo e Dio. Volevo che gli studenti sapessero che nella nostra vita umana ci sono delle cose, anche dei peccati, dei quali un giorno forse potremo parlare, per i quali i popoli possono concordare gesti riparatori, ma alla fine non potrà mai esserci un’azione umana che possa compensare questi atti di barbarie. Auschwitz è come un luogo dal quale le braccia si aprono verso la misericordia di Dio. Vedendo Auschwitz per la prima volta ho capito, con i pori della mia pelle, cosa voglia dire la misericordia divina. Ci sono cose che succedono come se fossimo caduti in un abisso dal quale solo la misericordia divina ci può sollevare. Per questo volevo mostrare agli studenti da una parte l’orrore dell’uomo, la sua brutalità e il terrore della vittima; e dall’altra che abbiamo bisogno di un Dio che ci aiuti a metterci di nuovo insieme. Su un terzo punto Auschwitz non ci dà pace ed è la teodicea, la vecchia domanda di Giobbe: come è possibile che un innocente possa soffrire tanto? La domanda riproposta dopo la guerra da Albert Camus.
Auschwitz è l’emblema del terrore e della sofferenza dell’essere umano totalmente alla periferia dell’umanità. Ci scuote sempre, anche per il futuro. È importante non perdere questa memoria per un buon futuro. Sono convinto che quanto è oggi in primo piano – i contenziosi economici – non è la base. Si vede che per formare l’Europa dobbiamo accedere a un livello molto più alto e molto più profondo: culturalmente dobbiamo incontrarci anche a partire dalle nostre ferite. Il problema è che noi vogliamo incontrarci – ed è uno sbaglio – solo sulla base dei successi, ma non possiamo dimenticare la dimensione della ferita e delle ferite tra i popoli. Qui in Italia, appena arrivato a Bologna sono andato subito a Marzabotto, un luogo che non mi lascia in pace quanto alla storia fra i nostri due popoli.
Nel Congresso della Vita Consacrata dell’America latina, (Bogotà, 18 - 21 giugno 2015), il tema che ha attraversato tutti gli interventi è stato l’invito a cercare una nuova forma di vivere la vita consacrata oggi, in una fedeltà dinamica ai carismi. “Vino nuovo in otri nuovi” è stato detto. Cosa può significare per la nostra spiritualità e il nostro carisma questo invito, in quale direzione muoversi?
Vorrei ricuperare una figura che permetta di visualizzare la mia risposta. È la figura di Oscar Romero. Su L’Osservatore romano del 4 febbraio se ne annunciava la beatificazione dopo un lungo blocco. Oscar Romero mi indica una prospettiva per la nostra spiritualità, da dehoniano. Una parola chiave della sua spiritualità si ritrova anche nella Sintesi del nostro Capitolo generale: la conversione. Quando Oscar Romero è stato ordinato vescovo viveva da membro dell’alta società, che guardava al popolo dall’alto in basso. Poi ha vissuto il momento forte della conversione, cioè ha capito che vivere la fede non è una cosa che trasmetto agli altri, ma la condivido con gli altri. È solo dopo questa conversione, dopo una fede vissuta a livello esistenziale, che lui si è lasciato toccare dai poveri, dai perseguitati, da tutta questa gente del Salvador. Vorrei citare due frasi che sono importanti per me, ma penso anche per noi dehoniani. Nella sua omelia del 9 settembre 1979 (pochi mesi prima della sua uccisione) diceva: «È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri». Una frase citata quasi letteralmente da papa Francesco nella Evangelii gaudium. Nella messa vespertina, pochi minuti prima della sua morte, dice una seconda cosa: «La Chiesa non solo si è voltata verso il povero, ma fa di lui il destinatario privilegiato della propria missione». In breve, per me la mistica è alla base della politica. Un rapporto molto personale, esistenziale con Gesù Cristo ci converte e ci apre all’altro e al creato e ci spinge a una politica concreta.
Crede che il nostro carisma dehoniano e la nostra spiritualità ispirata al Cuore di Gesù e riletta alla luce dei nuovi sviluppi teologici e biblici siano tuttora attuali e abbiano qualcosa da offrire alla Chiesa e al mondo d’oggi?
Vorrei escludere la parola “ancora”, perché per me la spiritualità del Sacro Cuore di Gesù non è solo “ancora” di grande attualità; è la risposta ad alcuni fenomeni distorti nella nostra società e forse nella Chiesa. Vedo un riflusso di gnosi. Viaggiando molto, mi piace andare nelle librerie delle stazioni, degli aeroporti, delle città. Mi rendo conto che aumentano i libri che parlano dell’autosalvezza. È cosa buona imparare a stare in forma, a nutrirsi bene, a dormire bene. Ma ci sono tanti libri che sono un esempio lampante di gnosi: come combattere il cancro, come diventare ricco, come mietere successo, come essere la persona più felice di questo mondo. E ciò che questi libri suggeriscono è in sintesi l’equazione: «Se tu sei un tipo intelligente, se hai una buona autodisciplina, se hai una fantastica struttura mentale, tu sei capace di salvarti da qualsiasi difficoltà o fallimento della tua vita. Tutto dipende da te. In altre parole, non hai bisogno di nessun altro, né di una dimensione trascendentale o di Dio. Tutto dipende da te. Ma questa gnosi è cinica e ci riporta all’AT: se uno vive nel fallimento è colpa sua». Un secondo problema è che la materia viene di nuovo svalutata; tutto è ridotto solo all’idea. Anche del corpo se ne parla come ideale: sempre sano, sempre bello, sempre performante, sempre attraente; ma la realtà non è così. C’è la malattia, c’è la vecchiaia. C’è la disoccupazione, la fragilità, la rottura delle relazioni umane. La spiritualità del Sacro Cuore è invece una spiritualità che valorizza al più alto grado il corpo umano, una spiritualità fondata sulla corporeità. Ci dice che Gesù Cristo non ci ha salvato attraverso un’idea intelligente, come alle volte si pensa leggendo Hegel, ma ci ha salvato attraverso un corpo che ha sofferto, che ha pianto, che ha sudato, che è stato tormentato; attraverso un corpo che si è lasciato toccare, che ha toccato altri corpi. Un Dio che valorizza il corpo umano come luogo della sua presenza dà origine a una spiritualità concreta. Secondo punto: in queste società, nelle quali noi stiamo vivendo, la vittima viene totalmente marginalizzata e ignorata. La nostra spiritualità ci provoca a metterci nella prospettiva della vittima, del perdente anziché del vincitore. P. Dehon parla della vie victimale. Alle volte è stata interpretata come pura espressione devozionale. Ma la vie victimale oggi è forse più attuale di cent’anni fa, perché vuol dire vedere il mondo dalla prospettiva di quelli che hanno perso, che sono vittime. Questo per me fa parte della fedeltà dinamica al carisma di p. Dehon. Per noi, concretamente, questa spiritualità che tanto valorizza il corpo umano è alla base dell’umanizzazione del mondo, soprattutto in un’era globalizzata, dove alle volte l’economia mondiale è più importante della persona individuale, della sofferenza personale. Questa spiritualità ci spinge concretamente a investire più sulle persone che sulle strutture. La vedo anche come dinamica portante per il nostro Consiglio generale: andare alle persone concrete, nella congregazione come fuori, piuttosto che preoccuparsi di come mantenere le opere, le strutture. La vicinanza alla persona è la chiave.
a cura di Antonio Dall’Osto e Lorenzo Prezzi