Dall'Osto Antonio
Brevi dal mondo
2015/10, p. 37
Cristiani e musulmani, Cipro, Spagna

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Testimoni
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CRISTIANI E MUSULMANI
Vicini e lontani
Il dialogo con l’islam costituisce per i cristiani una vera e propria sfida evangelica. Lo afferma Maurice Borrmans, della Congregazione dei Padri bianchi, grande specialista riconosciuto a livello mondiale del dialogo culturale e spirituale tra i discepoli di Cristo e i seguaci del Corano. È appena uscito in lingua francese un suo libretto intitolato Chrétiens et Musulmans. Proches et lointains (Cristiani e musulmani. Vicini e lontani, Médiaspaul 2015, p. 150) in cui raccoglie cinque suoi contributi apparsi in diverse riviste teologiche nel corso dell’ultimo decennio. L’autore affronta questioni cruciali e delicate come la figura di Gesù nell’Islam, la storia delle relazioni tra cristiani e musulmani dalle origini dell’islam fino al Vaticano, l’emergenza della dichiarazione conciliare Nostra aetate sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane, in particolare con i musulmani, e l’accoglienza che viene fatta dai musulmani al Vangelo di Gesù.
Il libro si apre con una sintesi interessante su Gesù come è visto dai musulmani sia nel Corano, sia dall’islam classico e contemporaneo e dalla mistica musulmana. «Per meglio rispondere alle esigenze di verità richieste da un dialogo autentico, scrive Borrmans, i cristiani devono conoscere chi è il “Gesù del Corano” per i discepoli di Maometto». Per l’islam, «Gesù è semplicemente un profeta e un messaggero, onorato e vicino a Dio, un segno meraviglioso e un taumaturgo misericordioso. Egli non è stato né ucciso, né crocifisso, e non si sa niente, a quanto pare, della sua fine ultima. È venuto a proclamare l’unicità di Dio, si è sempre presentato come “il figlio dell’Uomo” e non ha mai preteso niente di ciò che i cristiani gli attribuiscono».
Si tratta come si vede di un Gesù ben lontano da quello dei Vangeli. La ragione è semplice: per i musulmani, il Vangelo autentico, come del resto anche la vera Thorah degni ebrei, è scomparso, «anche se si possono trovare alcuni frammenti nei libri attualmente in mano agli ebrei e ai cristiani».
Oltre alla verità su Gesù, come è creduta dai cristiani, i musulmani negano anche il concetto della divina ispirazione delle Scritture. «Per essi, spiega Borrmans, la Thorah, il Vangelo e il Corano sono dei libri direttamente rivelati da Dio, senza che intervenga una qualsiasi dottrina dell’ispirazione e possibile collaborazione tra un autore divino e un autore umano». Anche su questo punto la distanza tra musulmani e cristiani è incolmabile.
Purtroppo, sottolinea Borrmans, i tanti sforzi compiuti nel dialogo islamo-cristiano non hanno «cambiato il modo di vedere con cui un miliardo di essi guardano a “Isa ibn Maryam” (Gesù figlio di Maria). Ma, osserva ancora Borrmans, se il Vangelo cristiano nelle sue dimensioni storiche e teologiche sfugge a quanto credono i musulmani, esso può tuttavia interessarli nelle sue dimensioni sociali e spirituali. Per questo egli lancia ai cristiani un appello ad essere per i musulmani un “quinto vangelo vivente” che nessuno potrà contestare, se vissuto “in spirito e verità», nel servizio della giustizia e della pace. In questo senso, conclude Borrmans, il compito dei cristiani sta nell’essere una “sfida evangelica”: così facendo, il dialogo interreligioso diventa «emulazione spirituale e può lasciar intravedere un passaggio graduale a una quadruplice conversione : ai valori del Regno (Beatitudini), alle promesse di Dio come Padre, all’appello affascinante di Gesù “modello unico” e alla comunione fraterna nella Chiesa, “premessa del regno”. La condizione del cristiano è quindi quella di essere un “vangelo vivente” che fa mistero e suscita interrogativi in chi ne è testimone inaspettato». Condizione certamente scomoda conclude Borrmans, ma che immerge i cristiani nel cuore del mistero pasquale, spingendoli a “meglio vivere la loro speranza in Colui che ha già distrutto i “muri di separazione” mediante la croce e la sua Pasqua, e affida oggi ad essi “il ministero della riconciliazione” tra i figli della Chiesa e i fedeli dell’islam».
CIPRO
Dove una campana suona ogni giorno
Nel nord dell’isola di Cipro, occupata, nel 1974, e devastata dalle truppe turche e dove ogni traccia di cristianesimo è stata praticamente cancellata, c’è però una campana che continua a suonare ogni giorno. È quella di Kormakiti dove è rimasta un’unica comunità cattolica, abitata da quattro suore francescane, Missionarie del Cuore di Gesù, Congregazione nata a Gemona, nel Friuli e approdata nel 1936 da queste parti. Le truppe turche il 20 luglio del 1974 occuparono la zona settentrionale dell’isola, scacciando i greci e proclamando la cosiddetta “Repubblica di Cipro”, mai riconosciuta dalla comunità internazionale. Seguirono, scrive l’Avvenire del 28 agosto scorso, anni di violenze, coprifuoco, villaggi che si svuotavano, truppe militari che prendevano il posto delle popolazioni in fuga, e ne occupavano le case.
«Caso volle, racconta suor Bernadetta Visentin, 74 anni, che proprio in quei giorni andassimo nel sud dell’isola per portare quindici dei nostri bambini in vacanza sui monti Trogos. Così senza volerlo ci trovammo nella parte “giusta”. Ma non potevamo abbandonare la nostra gente, i 150 bambini della nostra scuola. Così cercammo subito di tornare al nord, a Kormakiti, dove arrivammo solo nell’agosto del 1975».
In luogo di Kormakiti trovarono Koruçam (i turchi avevano cambiato tutti i nomi), e invece dei duemila cattolici maroniti che da sempre la abitavano, era rimasto solo chi non aveva la forza per scappare.
La decisione delle suore fece di Kormakiti un piccolo ma saldo punto di riferimento per i cristiani, che dura ancora oggi. «Ci hanno accolte come una benedizione – sorride suor Bernadetta, al secolo Rosetta Visentin da Postione (Treviso), che è a Cipro dal 1960 ma ancora parla veneto. Dalla nostra semplice presenza traevano di nuovo speranza, si sono stretti a noi e ci proteggevano, mentre noi ci occupavamo degli ammalati, assistevamo i vecchi, portavamo ogni genere di soccorso. La nostra porta era sempre aperta per chiunque, anche per gli occupanti turchi, perché quando c’è una guerra si perde tutti e tutti si soffre. E non abbiamo mai perso la serenità perché la Provvidenza è incredibile, arriva sempre quando hai bisogno, non manca mai un appuntamento». Eppure erano tempi di terrore, le frontiere rimasero chiuse fino al 2004, ogni giorno dalle 17 scattava il coprifuoco e per le strade non si poteva girare, «venivano le Nazioni Unite e portavano cibo, ma non le medicine. Inoltre i telefoni erano stati tolti, così nascondevamo i messaggi nei viveri delle Nazioni Unite. Se i giovani erano tutti scappati, noi restammo al fianco dei vecchi e dei bambini tenendo la scuola aperta fino al 1985, fino a quando c’è stato l’ultimo piccolino. Anche i turchi allo stesso modo per noi erano figli di Dio e quando hanno avuto bisogno li abbiamo curati». Il parroco di allora, don Antun Tersì, fece tre richieste al loro comandante: che tutti i giorni a Kormakiti suonassero le campane, di poter indossare l’abito talare e di continuare a dire Messa nei tre villaggi cattolici rimasti. Il militare promise, così a Kormakiti in questi 41 anni la campana ha suonato tutti i santi giorni. È andata in modo ben diverso ad Agia Marina o ad Asomatos, villaggi fagocitati dalle caserme e ridotti ad alloggi militari. «Ad Asomatos era rimasta solo una vecchina, morta da poco...», ma nella chiesa si mantiene la promessa di don Antun e la Messa si celebra tutte le domeniche, anche se all’ingresso si è obbligati a lasciare un documento ai soldati.
Kormakiti invece miracolosamente resiste e, aggrappati al loro scoglio, duecento dei duemila abitanti originari sono ancora lì con suor Bernadetta, ma anche con suor Elsa, 75 anni, indiana, che è infermiera e ogni giorno visita gli ammalati, con suor Pierpaola, 77 anni, maronita, la superiora, e con suor Piera, 84 anni, «la prima suora francescana di Cipro», custodi attente a non lasciar morire un mondo.
SPAGNA
Tre suore martiri proclamate beate
La Chiesa ha tre nuove Beate: sono tre suore spagnole dell'Istituto di San Giuseppe di Gerona, uccise in odio alla fede durante la guerra civile spagnola nel 1936. Il rito di beatificazione ha avuto luogo a Gerona, nella Catalogna, il 5 settembre. A rappresentare il Papa, c’era il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. In un servizio, diffuso dalla Radio Vaticana, Sergio Centofanti scrive:
Suor Fidela Oller, suor Josefa Monrabal Mantaner e suor Facunda Margenat erano tre infermiere dell’Istituto di San Giuseppe di Gerona, fondato nel 1870 dalla venerabile María Gay Tibau. Avevano scelto di dedicare tutta la loro vita all’assistenza dei malati. In loro vedevano il volto di Gesù in croce. Tre suore semplici, “donne del popolo” con nessuna missione politica in mente – ha affermato il cardinale Amato – coinvolte nella sanguinosa persecuzione anticristiana che colpì la Spagna nell’estate del 1936, durante la quale furono uccisi più di diecimila cattolici, tra cui oltre seimila tra vescovi, sacerdoti e religiosi, assassinati solo perché religiosi. Più del 70% delle Chiese spagnole vennero distrutte.
La loro vita si svolgeva nell’anonimato delle corsie degli ospedali e nelle case dove i malati chiedevano cure e conforto: li portavano “con sacrificio e con gioia, ha detto il porporato; non facevano il male, ma solo il bene. Erano innocenti. Non costituivano una minaccia per nessuno”. La violenza e l’odio della persecuzione tolse la loro vita dal silenzio. I miliziani repubblicani, d’ispirazione marxista, le seviziarono e uccisero nell’agosto del 1936: suor Fidela aveva 67 anni, suor Facunda 60, suor Josefa 35. Tutte e tre morirono perdonando ai loro assassini. Sono tra le prime martiri della guerra civile spagnola.
Il card. Amato ha ricordato così la loro morte: all'inizio della persecuzione del 1936 i miliziani entrarono nel convento, espulsero le religiose e distrussero la casa, bruciando la cappella con tutto quello che vi si trovava, quadri, immagini, libri. Suor Josefa si rifugiò presso i suoi familiari, facendo venire Madre Fidela, anch'essa in pericolo. Ma la notte del 28 agosto del 1936 i miliziani prelevarono le due suore portandole vicino al villaggio di Xeresa, dove le seviziarono e uccisero. Suor Facunda rimase, invece, in casa di un ammalato grave, Joaquín Morales Martín, su richiesta della famiglia di quest'ultimo. La portinaia dello stabile, però, denunciò la sua presenza ai miliziani, i quali, la sera del 26 agosto del 1936, la prelevarono, la scaraventarono giù per le scale e la trascinarono ferita e sanguinante fino al camion. Portata in un posto defilato, chiamato Ippodromo, la assassinarono.