Cozza Rino
Cosa ci manca per poter sognare
2015/10, p. 30
Perché la scelta della vita religiosa sta perdendo la forza del desiderio? Non da oggi «la vita religiosa è stata avvolta, incartata, intonacata in un linguaggio ecclesiale che fuori dalla Chiesa non comunica nulla, suona come un gergo tecnico sganciato dalla vita».

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Non escludersi dalla “vita”
COSA CI MANCA
PER POTER SOGNARE?
Perché la scelta della vita religiosa sta perdendo la forza del desiderio? Non da oggi «la vita religiosa è stata avvolta, incartata, intonacata in un linguaggio ecclesiale che fuori dalla Chiesa non comunica nulla, suona come un gergo tecnico sganciato dalla vita».
Questo modello di vita religiosa «si è creato dentro a una prospettiva di vita nata da una particolare visione del mondo, della storia, della realtà e, forse, anche di Dio». Prospettiva che successivamente è andata via via istituzionalizzandosi con l’assimilazione di quanto ereditava acriticamente dai profili precedenti. Ora questo processo è arrivato all’apice della sua evoluzione, non ha più sviluppo, ma ripetizione del già accaduto, segno di un mondo che si fa sempre più estraneo, lontano, a fronte del quale «le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo»,
con il pericolo di portarci ad essere «semplici cultori o cultrici di tradizioni inutili, quasi degli attori da teatro; oppure illusi “messia” di un avvenire puramente inventato a immagine e somiglianza di quello che abbiamo sempre fatto e già capito. È chiaro che in questo modo non possiamo parlare di vita e, tanto meno, della sua insita religiosità», per il fatto che l’identità della vita non è quella giuridica ma quella che è data dalla sua vitalità. Nella relazione conclusiva di un incontro di religiosi e religiose in formazione, è riportato il dire di uno dei convenuti: «A noi, come ad ogni giovane, interessa la “vita” più che la proclamazione di principi “alti”, calati in adempimenti dalle tinte fondamentaliste e arcaiche».
Di certo le vocazioni non entrano per diventare impiegati di azienda ma per una missione. La vita religiosa è arrivata a questo perché schiava di una visione di sé che non le permette di intravvedere l’originale missione all’interno di quel futuro verso cui Dio sta conducendo oggi la Chiesa.
«Ci rattrista una vita religiosa – scrive il Segretario della vita consacrata – più preoccupata dalla propria sopravvivenza che della missione di annunciare».
Cercatori
di acqua viva
Scrive la teologa A.Potente: «La stanchezza della vita religiosa non è dovuta, penso, alla sua età ma al suo non preoccuparsi più di essere vita», sottintendendo che «nell’espressione vita religiosa l’aggettivo (religiosa) rispecchia l’insufficienza, in relazione all’ampiezza del termine vita, che per sua natura è invece chiamata a dischiudere orizzonti impensati di senso con il farsi incremento, intensificazione, bellezza dell’esistere, acqua viva per le nostre seti.
Se questo, per tutti - religiosi e no - è il fine di ogni proposta evangelica, come traspare dal colloquio di Gesù al pozzo con la samaritana, non può non esserlo per coloro che la fecondità della vita intendono desumerla dalla intensità della vita evangelica.
La preoccupazione di essere religiosa secondo i paradigmi formatisi nel tempo «l’hanno portata lungo i secoli a essere prigioniera di se stessa e delle sue paure, finendo con il preoccuparsi maggiormente di essere “religiosa” piuttosto che “vita”»; da qui l’odierna necessità di «dover imparare di nuovo a vivere e trovare un modo di stare nella storia che serva davvero per vivere».
Essere nati attorno al cristianesimo – dice ancora A. Potente - «significa essere nati e cresciuti nella sollecitazione per la vita e niente più. [ … ] Gesù è morto per una limpida fedeltà agli essenziali principi di vita, e la vita religiosa è nata dalla memoria di questo Gesù che come priorità non cercava uno status di vita particolare che si distinguesse dagli altri, ma piuttosto l’essenzialità della vita, il cui primo segnale di vitalità è nella bellezza del vivere, quella che non è data dalla religiosità ma dalla fede, da cui scaturisce l’etica che chiama a essere un prolungamento delle azioni di Cristo, risonanza delle sue parole, moltiplicazione delle sua tenerezza.
Nella nostra attuale cultura, ciò che ha la meglio nelle decisioni vitali è la bellezza insita in una data scelta, per il fatto che lo spessore di vita è proporzionale al rafforzamento di gioia che da essa scaturisce, per cui il futuro della vita religiosa non verrà dal fardello di conoscenze teorico-dottrinali mutuate da un mondo platonico o stoico, ma dal muoversi in armonia con le aspirazioni profonde di coloro che ripongono il bello e il buono della «sequela» nella trasparenza della vita battesimale, essendo proprio e solo il battesimo in grado di inserire la vita nel dinamismo del disegno di Dio, in forza del quale tutti, e non per benevola concessione di qualcuno, con pari dignità, partecipano, in forme diverse, del sacerdozio, della profezia e della regalità del Signore.
Come uscire
dalla stagnazione?
La vita religiosa può uscire dalla stagnazione solo recuperando la memoria e l’eredità «radicalmente innovatrice» di Gesù, in particolare nel suo intendere la relazione con la “religione”, con “Dio” e con l’ ”uomo”.
È stato decisamente sovvertitore proporre, da parte di Gesù, orientamenti di vita molto critici nei confronti della religiosità di quel tempo e dei capi religiosi di Israele, come il levita, gli osservanti scribi e farisei, a tal punto da elogiare, talvolta, la fede di persone che non frequentavano la sinagoga. Inoltre è altrettanto sorprendente che Gesù abbia mai creato spazi sacri, né rituali vincolati a un culto religioso, né messo in relazione la salvezza con riti o norme legate a tali rituali. Gesù propone come modello di vita religiosa qualcosa di nuovo che non si basa su alcune credenze o su alcune osservanze, ma qualcosa che si concentra sulla sua persona, la sua maniera di vivere e sulle sue scelte, con la preferenza ad attrarre, prima che alla legge, all’agire misericordioso, cioè a una relazione con gli altri in cui ci si fa nascere a vicenda: è il miracolo della reciprocità. Vale per la vita religiosa ciò che disse J.M.Castillo: «Solo la mistica che si traduce in un’etica al servizio della misericordia può dare risposta al nostro esserci nella storia».
Se il sogno di Gesù, quello ricorrente nei vangeli, non si gioca sul mondo della sacralità ma dell’umano, e se la fede è messa in relazione ai comportamenti, allora è in questi che noi possiamo incontrare Dio ed entrare in relazione con lui.
E il trascendente? Non è nei compiti irraggiungibili, infiniti, che lo si sperimenta – scrive Bonhoeffer – ma in ciò che incontriamo di volta in volta: il prossimo.<p> D.Bonhoeffer, <i>Resistencia y sumision. Cartas y apuntes desde elcautiverio</i>, Sìgueme, Salamanca 2001,266. <p/><p>Cf Paul Tillich, <i>Theologie</i><i> de la culture</i>, Paris 1968, p.43. <p/> Infatti, ciò che Gesù indica come decisivo per il destino umano è dato da come ciascuno ha affrontato i problemi degli altri: “avevo fame, sete, ero ignudo, carcerato … “ tutte situazioni molto terrene, espresse dall’evangelista Matteo con verbi e sostantivi che attengono a quell’umano in cui Dio si rivela: “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Il teologo K.Rahner lo ho saputo dire in poche, efficaci parole «ogni uomo, realmente e radicalmente ogni uomo, va visto come l’evento di un’auto-comunicazione di Dio».
Dopo quanto detto non ci si può stupire se Gesù non ha invitato i suoi ad agire da sacerdoti rispetto agli altri ma da «buoni samaritani» il cui atteggiamento imprescindibile fonda l’essere da lui «mandati»: «va’ e anche tu fa lo stesso».
«Dio guarisca
la nostra cecità»
«Quella che ci fa mettere in primo piano le nostre idee invece della realtà», perché incapaci di una riflessione penetrante nel nostro tempo.
Oggi, specie per vita religiosa, il ritorno “vero” all’origine, cioè all’essere e fare come Cristo, può avvenire soltanto nel segno della “discontinuità”. Questo termine evoca distacco, frattura: parole che possono suonare male e caricare di preoccupazione coloro che sono custodi della normalità, la quale tradizionalmente ha invece come criterio la continuità. La stessa cosa dev’essere capitata quando Gesù disse “vino nuovo in otri nuovi”.
Discontinuità non significa rottura ma capacità di far nascere nuovi compendi. Credere che questi possano avvenire senza distacchi ma come naturale fenomeno evolutivo è una grande illusione. In un tempo di cambio d’epoca il futuro non può essere pianificato attraverso l’applicazione di quei principi generali che lungo i secoli hanno dato l’avvio a modelli identitari oggi in grave affanno. Ciò che si presenta come nuovo non dovrà farsi paralizzare da una identità predefinita in lontane stagioni culturali, perché la vera identità è l’esito di uno sviluppo che non si compie una volta per sempre. È necessario in questo momento della storia che la vita religiosa si apra decisamente a nuovi orizzonti di senso piuttosto che continuare ad offrire di sé un’immagine etico-virtuosa sostanzialmente individuale, incapace di catturare l’interesse e la passione delle giovani generazioni.
Allora l’eredità del passato non va conservata, ma riscoperta e rigiocata con coraggio per ospitare la ricchezza plurale della vita che viene.
Da lontane ortodossie
a nuove prassi
Per non essere consegnati alla storia, senza essere negati, com’è avvenuto, ad esempio, per la vita eremitica, anacoretica o monacale di altri tempi, «abbiamo bisogno del coraggio di lasciare il nostro piccolo e confortevole mondo ecclesiastico e di immergerci negli interrogativi dei nostri contemporanei, esponendoci alle loro convinzioni». Da qui la domanda: quali situazioni nella vita religiosa rimandano oggi a lontane ortodossie che non affascinano più?
Non tengono più quegli schemi di vita comunitaria di concezione collettivistica per i quali è il sistema di pensiero e di tradizioni a tenere insieme piuttosto che la concretezza dell’agire interpersonale fatto di amicizia, di solidarietà, di compassione e di tolleranza.
Non attraggono più quei modelli di vita comunitaria che faticano a muoversi in armonia con le aspirazioni profonde delle persone, perché improntati talvolta a conoscenze teorico-dottrinali del mondo platonico o stoico, tenute assieme da documenti, dichiarazioni, teorie, tendenzialmente omologanti di cui si è soltanto ricettori, silenziosi esecutori.
Inoltre non sono attrattive quelle forme apostoliche che non portano a essere integrati fra la gente, con relazioni significative, facilitatrici di fermentazione evangelica. Assimilabili a queste sono anche quelle forme apostoliche impoverite perché non fecondate dalla sana contaminazione delle relazioni umane; che portano a essere funzionalmente in mezzo agli altri rimanendo soli, e in quanto soli più propensi alla stagnazione che alla generatività.
Rino Cozza