Alois di Taizè
Taizè, una parabola di comunione
2015/10, p. 21
Fr. Roger, fondatore della comunità ecumenica, ha definito Taizé una “parabola di comunione”. Il suo carattere specifico è racchiuso nelle tre parole chiave: comunione, riconciliazione, fiducia. La comunità può diventare così un laboratorio di fraternità e di unità per tutti i cristiani.

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Testimoni
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I 75 anni della Comunità ecumenica di Taizé
TAIZÉ UNA PARABOLA
DI COMUNIONE
Fr. Roger, fondatore della comunità ecumenica, ha definito Taizé una “parabola di comunione”. Il suo carattere specifico è racchiuso nelle tre parole chiave: comunione, riconciliazione, fiducia. La comunità può diventare così un laboratorio di fraternità e di unità per tutti i cristiani.
La comunità ecumenica di Taizé celebra, in questo 2015, il 75° della sua fondazione(20 agosto 1940), commemora il centenario della nascita del suo fondatore, Roger Schutz (12 maggio), e ricorda il decimo anno della sua morte (16 agosto). Tre anniversari uniti in un unico profilo.
Taizé è stata definita da fr. Roger una “parabola di comunione”. A 75 anni dai suoi inizi, essa continua a raccontare e a vivere con sempre nuova freschezza questa parabola che affascina tanto i giovani ed è guardata con grande interesse in ogni parte del mondo.
A Taizé, dal 5 al 12 luglio scorso, si è tenuta una Settimana di riflessione sulla vocazione monastica e religiosa, organizzata nel contesto dell’Anno della vita consacrata. Fr. Alois, successore di fr. Roger e attuale priore, ha colto l’occasione per presentare un ampio panorama della vita e degli ideali della comunità. Partendo dall’ispirazione originaria di fr. Roger, ne ha raccontato gli sviluppi, descritti i cardini su cui poggia, le finalità ecumeniche che intende promuovere e ha offerto le chiavi di lettura per comprendere il carattere specifico di questa comunità. Che cos’è oggi Taizé? Forse in tanti se lo domandano, ma nessuno meglio di fr. Alois può narrarcelo, come appare da questa sua relazione che qui riprendiamo.
Avere in calendario quest’anno tre anniversari non significa per noi celebrare il passato. Fr. Roger invitava i fratelli a vivere l’oggi e teneva gli occhi rivolti al futuro, cercando, come egli diceva, di «presagire il domani degli uomini». Noi vorremmo restare in questo spirito. Questa settimana ci permetterà certamente di mettere in evidenza alcune intuizioni di fr. Roger in rapporto alla vita religiosa, ma ci aiuterà soprattutto a discernere l’attualità e il futuro di questa vita.
Per cominciare, vorrei indicare gli elementi che mi sembrano più specifici del pensiero di Fr. Roger in quanto fondatore, quelli che determinano sempre la nostra ricerca attuale. Poi toccherà a sr. Agnese esprimersi, lei che è la responsabile generale delle sorelle di Saint André che entrano nel cinquantesimo anno della loro presenza qui, accanto alla nostra comunità di Taizé. Non è soltanto una collaborazione pratica quella che viviamo, ma la ricchezza di una complementarietà fra donne e uomini al servizio dell’accoglienza dei giovani.
Una “parabola di comunione”
Nella sua giovinezza, in piena guerra mondiale, fr. Roger ha pensato che creare una comunità di alcuni uomini avrebbe costituito un piccolo segno di pace e di riconciliazione in un’Europa lacerata dalla violenza. Voleva preparare già allora ciò che sarebbe avvenuto dopo questa guerra. La vocazione che proponeva ai fratelli che andavano a raggiungerlo era di costituire quella che egli chiamò una “parabola di comunione”, una “parabola di comunità”.
Ogni vita consacrata a Dio e a servizio degli altri è una parabola. Una parabola che non impone nulla, non vuole provare nulla, apre un mondo chiuso in se stesso, gli apre una finestra verso un aldilà, un passaggio verso l’infinito. Coloro che la vivono hanno gettato la loro ancora nel Cristo, per reggere anche quando scoppia la tempesta. La parabola specifica che noi fratelli di Taizé vorremmo esprimere è quella della comunione. Comunione, riconciliazione, fiducia sono le parole chiave di Taizé. Vorremmo mostrare che una comunità può essere un laboratorio di fraternità.
Riconciliazione
Indico due campi in cui questa ricerca di comunione e di fraternità impegna molte nostre energie: la riconciliazione dei cristiani e l’interculturalità. Riunendo dei fratelli protestanti e cattolici, accogliendo talvolta per un certo periodo un monaco ortodosso, la nostra comunità cerca di anticipare l’unità ancora a venire. Questa via ecumenica è divenuta per noi del tutto naturale. Coloro tra noi che sono cresciuti in una famiglia protestante abbracciano questa vita comune senza rinnegare in alcun modo la loro origine, ma piuttosto come una dilatazione della loro fede. I fratelli che vengono da una famiglia cattolica trovano un arricchimento nell’aprirsi, sulla linea del Vaticano II, agli interrogativi e ai doni della Chiesa della Riforma.
Certo, questo implica, a volte, dei limiti e delle rinunce. Ma non esiste riconciliazione senza rinunce. La storia di Taizé può essere letta come un tentativo di stabilirsi e rimanere sotto il medesimo tetto. Provenendo da una trentina di paesi, noi viviamo sotto il tetto di una stessa casa. E quando, tre volte al giorno, ci riuniamo per la preghiera comune, ci poniamo sotto il solo tetto della Chiesa della riconciliazione.
Questa preghiera comune riunisce anche giovani del mondo intero, cattolici, protestanti e ortodossi ed essi sono così associati alla medesima parabola. Siamo stupiti nel costatare come essi si sentano profondamente uniti senza peraltro ridurre la loro fede al minimo denominatore comune, né livellare i loro valori. Nella preghiera comune si stabilisce un’armonia tra le persone che appartengono a confessioni, a culture diverse, e anche a popoli che possono essere in forte opposizione.
Interculturalità
Sottolineo un secondo aspetto di questa ricerca di fraternità, quello dell’interculturalità. Noi veniamo da tutte le regioni dell’Europa, anche dell’Africa, dell’Asia e delle due Americhe. Oggi una pluralità del genere è sempre più presente dappertutto. Ma la mondializzazione è a volte avvertita come una minaccia. Noi vorremmo allora che l’armonia della nostra vita sia un segno di comunione anche tra i diversi volti della famiglia umana che rappresentiamo. Ma non lo nascondo: nonostante la fede comune, può capitare di non riuscire ad evitare le distanze che rimangono. Ci sono delle diversità di carattere, è evidente; possiamo essere maldestri, commettere anche degli sbagli. Ma ci può essere qualcosa di ancora più profondo che non dipende del tutto da noi: una distanza troppo grande tra i vari volti di umanità che portiamo, accentuata a volte dalle ferite della storia dei nostri paesi e continenti.
Cosa fare per la tristezza che può allora prenderci? Non lasciarsi paralizzare. Non rimanere bloccati. Nonostante tutto, vivere la ricerca di unità e di riconciliazione. Questo ci rinvia a Cristo: lui solo può unire veramente tutto. In questo noi vorremmo seguirlo. Siamo pronti a soffrire per questo. Non aver paura dell’altro, non giudicare, non sentirsi giudicati, non interpretare le cose in modo negativo, parlarne quando c’è un problema. E soprattutto mai rifiutare la nostra comunione fraterna.
Ciò che ho detto può sembrare grave. Ma è anche, paradossalmente, la sorgente di una gioia profonda, quella di andare fino in fondo all’appello evangelico.
Una riconciliazione che sembrava impensabile
Per quanto riguarda il rapporto fra la tradizione monastica e i valori della Riforma vorrei andare più a fondo nella specificità di Taizé. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, fr. Roger si sente chiamato a creare una comunità, ma la vita monastica è scomparsa nelle chiese della Riforma. Allora deve per forza affondare le radici nella Chiesa indivisa, al di qua del protestantesimo, nelle tradizioni cattolica e ortodossa. Quando nel 1949 i primi sette fratelli s’impegnano per tutta la vita nel celibato e nella vita comune, essi si ricollegano con queste tradizioni, e compiono un passo che non rispecchia in nulla l’immagine della Riforma, cosa che gli costa molte incomprensioni nel protestantesimo dell’epoca.
Ma fr. Roger non vuole semplicemente imitare ciò che è esistito nella storia, egli cerca di tracciare un suo proprio cammino, che implica in particolare l’assunzione dei valori fondamentali della Riforma. Non vuole rinnegare la sue origini. Riconcilia ciò che da quattro secoli sembrava inconciliabile. La certezza della giustificazione mediante la fede e non mediante le opere è la base della Riforma del sec. XVI. Questa rifiuta la vita monastica, non per principio, ma perché le sembrava vissuta in quell’epoca in senso contrario alla sola gratia e alla sola fides, a cui la Riforma è fortemente attaccata.
Attento a questa critica, fr. Roger è portato a sottolineare fortemente la gratuità della vita comune che egli ha in mente. La lode gratuita di Dio diventa per lui centrale. La Regola di Taizé inizia e termina con questa parola di lode. Nella preoccupazione di non attribuire alcun valore “meritorio” alla vita monastica, e tanto meno di attribuirle una superiorità rispetto al matrimonio, egli ha molta cura nello scegliere le sue parole. Come le altre regole, quella di Taizé pone al cuore della vita dei fratelli i tre impegni presi per tutta la vita, ma non li chiama voti, parola che poteva suscitare dei malintesi, ma semplicemente impegni.
E per ciascuno dei tre, fr. Roger sta attento anche alle espressioni che usa:
Preferisce la parola celibato a quella di castità, non vuole sequestrare a solo vantaggio della vita monastica il bel termine di castità, poiché essa è richiesta in certo modo anche da un matrimonio veramente fedele, e dalla stessa vita di ogni cristiano.
Preferisce parlare di comunità di beni materiali e spirituali anziché di povertà, perché la povertà non è in se stessa una virtù, anzi è vissuta come una disgrazia da coloro che nel mondo ne soffrono; ciò che conta, è la semplicità del cuore e dello spirito, unita alla semplicità di vita.
Infine, fr. Roger evita di chiamare i fratelli all’obbedienza, tanto la libertà è un valore messo in evidenza dalla Riforma e tanto auspica che i suoi fratelli siano degli uomini liberi; agli inizi, parla di accettazione di un’autorità, poi ritira anche questo termine, e presenta il priore come un servo della comunione. Per questo ministero di comunione mantiene la parola priore – primo – ma scarta quella di abate o di superiore. Riabilita la disciplina spirituale, l’ascesi, quasi ignorata in ambiente protestante, ma ne parla con prudenza, sempre per evitare un’interpretazione meritoria. Scrive: «Assicurato della tua salvezza dall’unica grazia del Signore Gesù Cristo, non importa un’ascesi per se stessa. La ricerca di una padronanza della tua persona non ha altro scopo che una maggiore disponibilità. Niente astensioni inutili, attieniti alle opere che Dio ti comanda. Portare i pesi degli altri, accettare le piccole ferite di ogni giorno per comunicare concretamente alla sofferenze di Cristo, ecco la nostra prima ascesi».
Ciò che forse colpisce maggiormente nella Regola di Taizé è la volontà di non indicare se non il minimo necessario. Niente costituzione, niente regolamento, niente orario stabilito una volta per sempre, niente dettagli pratici, spetta a ciascuna generazione adattare l’essenziale proposto.
Ricordo ancora due evoluzioni che fr. Roger compie in seguito. Una volta, i nuovi fratelli erano chiamati novizi. Questo termine scompare. Certamente essi hanno bisogno di un cammino di diversi anni prima degli impegni definitivi, con un particolare accompagnamento personale, e hanno bisogno di una preparazione teologica e umana. Ma sono degli adulti responsabili di se stessi, condividono in tutto la nostra vita. Nella mentalità della fine del sec. XX, il termine novizio si rivela imbarazzante. Noi oggi parliamo piuttosto di giovani fratelli o di nuovi fratelli.
Un altro termine scompare, quello di ufficio. L’Ufficio di Taizé era frutto di un grande lavoro liturgico, ma la sua celebrazione diventava un po’ troppo complessa per dei giovani che venivano sempre più numerosi a Taizé e per le lingue molto diverse. Fr. Roger non parla che di preghiera comune.
Questi rilievi sull’uso dei termini sono ben lungi dall’essere una questione di vocabolario, mostrano come l’incontro di due tradizioni, quella della Riforma e del monachesimo, che sembravano inconciliabili, per non dire antagoniste, si rivela creativo.
Il fatto che fr. Roger unisca in sé l’eredità della Riforma e una profonda adesione al tesoro di fede della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse: forse è questo che gli permette di esprimere il Vangelo in un linguaggio adatto alla mentalità moderna alla quale è così sensibile. Egli non ha paura di andare al cuore delle tensioni e di tenere insieme le due estremità: libertà e tradizione, diversità e unità, fede personale e fiducia nella fede della Chiesa, autonomia e comunione.
Certamente il suo cammino ha richiesto delle lotte. Quante volte ha dovuto chiarirsi con i responsabili protestanti che pensavano, per esempio, che impegnarsi per tutta la vita volesse dire limitare la libertà dello Spirito Santo! E ha dovuto un giorno scrivere anche una lettera aperta a tutti coloro che vivevano la vita monastica o religiosa per dire loro che le sue scelte non significavano per nulla un giudizio su di essi, ma che Taizé non era che un semplice germoglio innestato sul grande albero della vita monastica senza la quale egli non avrebbe potuto vivere.
Oggi queste dispute sono superate. E ci auguriamo che la nostra esperienza possa contribuire a sostenere quello scambio di doni che papa Francesco descrive così bene: egli dice che il dialogo non serve solo a conoscere gli altri, ma anche per ricevere i doni che Dio ha deposto per noi negli altri.
Per concludere, mi sento spinto a porre un interrogativo: in vista dell’unità dei cristiani, i religiosi e le religiose delle diverse tradizioni non potrebbero forse tessere maggiori legami tra le rispettive Chiese a cui appartengono? Non è forse vero che la ricerca della comunione e dell’unità è iscritta, in maniere diverse, nella loro vocazione?
Fr. Alois, priore di Taizé