Dall'Osto Antonio
Mar Musa laboratorio di futuro
2015/10, p. 18
Nel monastero di Mar Musa, in Siria, si stanno gettando semi su terreni pieni di sassi e di erbacce, semi di solidarietà con le persone di tutte le appartenenze. Sono semi che esprimono vicinanza, cura e desiderio di andare avanti insieme, come testimonia sr. Carol.

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Testimoni
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Assemblea MAGIS dei gesuiti italiani
MAR MUSA
LABORATORIO DI FUTURO
Nel monastero di Mar Musa, in Siria, si stanno gettando semi su terreni pieni di sassi e di erbacce, semi di solidarietà con le persone di tutte le appartenenze. Sono semi che esprimono vicinanza, cura e desiderio di andare avanti insieme, come testimonia sr. Carol.
“MAGIS” è un acronimo che sta per Movimento e Azione dei Gesuiti italiani per lo Sviluppo: è un’organizzazione non governativa, una ONG nata nel 1988, e riconosciuta come Onlus, che realizza programmi a breve e medio termine nei Paesi in via di sviluppo attraverso le Missioni. Attualmente opera in una trentina di progetti di cooperazione in Africa, Asia, Sud America, Europa. Unitamente al sostegno dell’azione dei missionari gesuiti italiani, interviene anche con progetti di cooperazione allo sviluppo delle Chiese locali.
Il 21 e 22 giugno scorso ha tenuto il convegno per riflettere sulle radici più profonde del suo agire, che trova nel Vangelo la sua ispirazione, e per tracciare un bilancio delle sue attività. Sono attività che si collocano in zone di frontiera e quindi sono esposte a dei rischi. Rischi che hanno accettato di correre, per esempio, i monaci e le monache del monastero di Deir Mar Musa (Siria), di cui qui narriamo la difficile situazione in cui attualmente agiscono.
La testimonianza
di sr. Carol
A presentare al convegno la testimonianza è stata suor Carol. Dopo una premessa riguardante la sua vicenda personale a partire dall’infanzia vissuta in Libano, e la sua storia vocazionale che l’ha condotta a farsi monaca a Mar Musa, ha affermato: «L’islam non mi aveva mai attirata come religione» ed «ero piena di pregiudizi contro i siriani che avevo conosciuto solo ai posti di controllo. Creavano in me sentimenti di disagio, di paura e di rifiuto. Mi immaginavo la Siria come un paese primitivo, chiuso, povero, culturalmente inferiore al Libano».
«Ma il Signore, che vuole fare nuove tutte le cose, mi ha lanciata in un’avventura appassionante per guarire alla radice le ferite della mia memoria. L’esperienza di Mar Musa mi ha cambiata e mi ha fatto passare dall’ignoranza alla conoscenza e dal rifiuto all’amore dell’altro. Come? Semplicemente attraverso la vita quotidiana con persone di tutte le appartenenze, nel ritmo della preghiera, del lavoro manuale e dell’ospitalità, nella volontà di costruire l’armonia islamo-cristiana e, in senso più ampio, l’armonia tra diversi.
Nel nostro “Tipico”, leggiamo che “la vita monastica al monastero di San Mosè l’Abissino si caratterizza per tre priorità e un orizzonte.
La priorità numero uno è costituita dalla vita contemplativa, secondo la tradizione siriaca, e un impegno spirituale nell’ambito del nostro contesto cristiano vicino-orientale e arabo-islamico. È una vita contemplativa personale e comunitaria caratterizzata dalla semplicità che troviamo presso gli antichi Padri del deserto e, più vicino a noi, presso il padre Charles de Foucauld. Resta la Vergine di Nazaret, Maria Madre del Verbo, la nostra prima e grande maestra nella vita spirituale contemplativa.
La seconda priorità è quella dell’impegno nel lavoro manuale, a partire dall’esempio della famiglia di Nazaret, che costituisce un progetto antropologico concluso, il quale riesce a unire la persona umana nel suo essere corpo e spirito, responsabile del mondo materiale e della società negli orizzonti del Regno.
La terza priorità è quella dell’ospitalità abramitica, quella che praticarono i monaci in ogni epoca: ospitalità fatta di servizio, misericordia e perdono, ospitalità di saggezza e direzione spirituale, ospitalità della mensa comune e del silenzio, ospitalità dell’accoglienza dell’altro nella sua ricchezza e nel bisogno, il suo carisma particolare e la sua sete spirituale.
La consacrazione
come orizzonte
L’orizzonte è costituito dalla nostra consacrazione particolare all’amore di Gesù Redentore per i musulmani come persone e per il mondo musulmano in quanto Umma, Comunità. Questo fatto ci conduce ad offrire la nostra vita affinché il lievito evangelico sia presente efficacemente nella società musulmana secondo lo spirito di discernimento, di speranza e di carità capace di trasformare le sofferenze di ieri e di oggi in una base per la mutua comprensione e il mutuo amore nella considerazione e nel rispetto reciproci. Questo amore di Cristo per i musulmani e le musulmane è un aspetto autentico del suo amore per l’umanità intera e richiede d’essere realizzato secondo l’inno all’amore di san Paolo (1 Cor 13) e l’insegnamento del capitolo sesto del Vangelo di Luca.
Prima dell'attuale guerra siriana, molti ospiti cristiani, musulmani e altri condividevano la nostra vita per una breve o lunga visita, una tappa di pellegrinaggio, un ritiro, un discernimento. Erano dei “monaci a tempo”.
Preghiera, lavoro
ospitalità
In che senso la preghiera, il lavoro manuale e l’ospitalità vissuti insieme aiutano alla costruzione dell’armonia? In tanti modi, ma la preghiera è la base: Mar Musa è un monastero in cui tutti sono incoraggiati a pregare, ciascuno secondo la sua fede e tradizione, e ad approfittare di questo tempo di deserto per fare più spazio a Dio. I non-credenti e quelli che non pregavano erano tenuti a rimanere in silenzio per rispetto della preghiera liturgica degli altri, e in qualche modo venivano immersi in quella preghiera nella vastità del deserto.
La preghiera è anche il luogo privilegiato dell’intercessione per gli altri. Mi ricordo di un gruppo di donne musulmane che erano entrate in chiesa nel momento della preghiera dei fedeli e mi avevano sentito pregare per la santificazione della Umma. Mi ha colpito una di loro che mi è venuta incontro, baciandomi la fronte per quella preghiera. Forse in quel momento lei ha capito che noi eravamo la chiesa per l’Islam. La preghiera gli uni per gli altri è una scuola di amore e di benedizione.
Alla catechesi della mattina venivano quasi tutti, era un tempo aperto di ascolto e di condivisione in cui si rifletteva su Dio e sull’uomo a partire dai testi sacri, dall’insegnamento della Chiesa e dalla tradizione dei Padri del deserto – un tempo ricco di molteplici approcci.
La sera c’era un’ora di meditazione silenziosa per tutti prima della messa. Inoltre, la scelta dell’arabo e non esclusivamente del siriaco come lingua liturgica e quella dei tappeti, come nelle moschee e come si faceva un tempo nelle nostre chiese d’Oriente, sono scelte che esprimono il desiderio di vicinanza.
Il lavoro manuale: anche il lavoro manuale fatto insieme per il bene di tutti è un apprendimento dell’armonia tra diversi. A Mar Musa c’era sempre tanto da fare. Preparare il cibo, servire, lavare i piatti, pulire, lavare la biancheria, aiutare nella produzione del formaggio o dei ceri, nell’agricoltura, la costruzione o il negozio ecc., tutti questi gesti compiuti in un’atmosfera gioiosa e fraterna erano l’occasione di scambi per conoscersi a vicenda.
L’ospitalità: l’ospitalità è la scuola dell’accoglienza dell’altro. Essendo il monastero la casa di Dio, tutti, perfino i monaci, sono ospiti nel duplice significato della parola: dare e ricevere l’ospitalità. L’ospitalità è non solo sacra, ma sacramento, perché nell’ospite che entra nel monastero e nella propria vita, uno accoglie Dio. A Mar Musa, l’ospitalità è la sfida più esigente perché richiede un’apertura continua: un uscire da sé e un fare spazio all’altro in sé. Nel nostro mondo multiculturale, la via della pace non può fare a meno dell’ospitalità.
A Mar Musa, solo il primo giorno uno riceve l’ospitalità – dal secondo giorno in poi diventa l’ospite che accoglie, uno di casa. L’apprendimento è veloce e funziona molto bene. Tutti i mercoledì, quando la comunità monastica andava via per un ritiro, gli ospiti presenti erano responsabili della preghiera, del lavoro manuale e dell’accoglienza.
Ospitalità e dialogo: per noi comunità al-Khalil, Abramo l’amico di Dio, l’ospitalità è pure una chiave del dialogo, la via del dialogo; e a sua volta il dialogo è ospitalità e relazione tra diversi, che rimangono tali, con la loro verità. Il vero dialogo considera l’altro per quello che è, rispettandone i valori, preoccupandosi per lui, riconoscendo che anche lui porta in sé una percezione della verità da cui posso imparare, che è dono per me. Non si tratta di ridurre, di armonizzare o di omologare la propria percezione della verità ai gusti dell’altro, né di ricondurre l’altro alla propria percezione della verità. Non possediamo la verità, siamo pellegrini verso l’unica Verità che ci ha originati entrambi, che ci chiama e si rivela a noi strada facendo, nell’interspazio relazionale.
Una convivenza
nel quotidiano
Se dovessi definire in una frase Mar Musa, direi che è un laboratorio in cui si impara nel quotidiano non solo la convivenza, ma la fratellanza tra diversi; per me è un microcosmo, assaggio del Regno, dove ho scoperto attraverso la convivenza e il dialogo la ricchezza, la bellezza e l’importanza dell'alterità sotto gli occhi dell’Unico Dio, che i cristiani d’Oriente come i musulmani chiamano nella loro lingua madre: Allāh.
Fuori da quel luogo privilegiato, negli anni che ho vissuto in Siria ho avuto l’occasione di notare nella pluralità sociale la fragilità della convivenza. Non sempre ma spesso era un vivere l’uno accanto all’altro, ma non l’uno con l’altro. Pure nel dialogo tra persone di diverse credenze, spesso veniva nascosta la spazzatura sotto il tappeto – per paura si mettevano in luce soprattutto le somiglianze e tutto quello che andava bene.
In Iraq dove siamo presenti da quattro anni, la chiusura delle comunità su se stesse è ancora maggiore. Certo, il ripiego identitario è una legittima reazione di difesa per la salvaguardia dell’identità in pericolo. Allo stesso tempo, mi ha fatto riflettere un twit di Papa Francesco della scorsa settimana: “Meglio una Chiesa ferita ma presente sulla strada, che una Chiesa malata perché chiusa in se stessa” (16.5.2015).
Come prepariamo
il futuro?
Ora il Medio Oriente sta vivendo un dramma che ci riguarda tutti nella nostra umanità: tra l’altro ci mette davanti agli occhi il fallimento della convivenza tra diversi. Il fallimento della convivenza non è di oggi e ha conosciuto innumerevoli ricorrenze attraverso la storia, perciò le nostre memorie comunitarie sono profondamente ferite. C’è un lavoro immenso da fare per sanare la memoria.
In Siria, ad esempio, ci accorgiamo ogni giorno della grande difficoltà: i cristiani d’Oriente hanno paura dell’Islam in genere, soprattutto dell’estremismo musulmano. I musulmani di una certa corrente non perdonano ai cristiani il loro schieramento con chi ritengono li protegga. Siamo in una logica di sopravvivenza gli uni contro gli altri, ben lontana dall’ideale della convivenza.
Ora che cosa stiamo facendo da monaci e monache di Mar Musa per preparare il futuro? Il nostro lavoro sul campo è umile, contro-corrente e a lunga scadenza. Non ci aspettiamo un risultato nell’immediato.
Prima di tutto la fedeltà alla preghiera. A Mar Musa non ci sono più gli ospiti che venivano una volta, ma viviamo lo stesso la dimensione dell’ospitalità nella preghiera di intercessione, quando portiamo le persone di qualsiasi schieramento nella nostra preghiera. Tutti abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio, e solo lui, il Padre di tutti, può salvarci dal disastro. Sentiamo l’urgenza di pregare per tutti: è facile pregare per le vittime con cui ci identifichiamo, più difficile per chi odiamo o di cui abbiamo paura. Ma quando preghiamo, l’odio va via, rimane solo l’affidamento a Dio.
Per chi non crede in Dio o nell’efficacia della preghiera, questa dimensione può essere vissuta in un altro modo: come lo psicoterapeuta riesce ad aiutare, per esempio, un sistema familiare solo se non esclude nessuno ed evita di identificarsi con gli uni contro gli altri, così uno che vuole aiutare deve tener presente il bene di tutti, delle vittime di oggi come dei carnefici – le vittime di oggi sono a volte i carnefici di ieri e spesso diventano quelli di domani.
La conoscenza della storia e delle sue dinamiche ci aiuta a riconoscere la parte di responsabilità individuale o collettiva che portiamo a causa delle nostre diverse appartenenze nazionali, religiose ecc., e di sentire il dolore dell’altro. Questo in genere non viene fatto, al contrario, ciascuno si sente vittima e vede solo la colpa dall’altro. Com’è stato bello il movimento iniziato da papa Giovanni Paolo II nel chiedere perdono per i peccati della Chiesa. Riconoscere le proprie colpe, i propri errori pacifica il nostro cuore e il cuore delle persone contro cui abbiamo sbagliato, e apre la via a una vita nuova insieme. Nel piccolo della messa serale, Mar Musa è stato anche in questo una scuola per me, quando durante il rito della pace andiamo a chiedere perdono alle persone verso cui abbiamo mancato durante la giornata.
Nei nostri monasteri in Siria e in Iraq viviamo anche la dimensione dell’ospitalità nell’accoglienza dei profughi: nel Kurdistan iracheno, sono quasi 200 cristiani della regione di Mosul e della pianura di Ninive che vivono con noi al monastero ormai da tanti mesi. Nel 2013-2014 in Siria sono stati migliaia i musulmani di due villaggi vicini al nostro monastero di Mar Elian che hanno vissuto con noi per quasi cinque mesi. L’ospitalità crea dei legami fortissimi. Padre Jacques, il superiore del monastero di Mar Elian e co-fondatore della nostra comunità, è diventato un punto di riferimento per tanti musulmani della regione. Aveva appena iniziato ad accogliere famiglie fuggite da Palmira quando è stato rapito lo scorso 21 maggio.
Come il seminatore
del Vangelo
Come il seminatore del Vangelo, stiamo gettando i semi su terreni pieni di sassi e di erbacce, semi di solidarietà concreta con le persone di tutte le appartenenze e di tutti gli schieramenti grazie ai doni che riceviamo dall’estero: aiutiamo nella ricostruzione delle case distrutte; assistiamo le donne i cui mariti sono morti, prigionieri, rapiti o scappati; compriamo le medicine per le persone ammalate, ferite e disabili; sosteniamo le famiglie nel pagare gli affitti e il cibo; aiutiamo i giovani a studiare all’università; organizziamo delle attività e dei giochi per i bambini per dare loro una prospettiva diversa da quella della guerra ecc. Tutto questo lo facciamo mano nella mano con le autorità religiose e civili cristiane e musulmane.
Sono semi contro-corrente che esprimono la vicinanza, la cura, il desiderio di andare avanti insieme. Nel mondo di oggi, dove l'islamofobia sta guadagnando terreno tra i cristiani d'Oriente come in Europa, vogliamo essere segni di una convivialità calorosa. Speriamo che questi semi portino il frutto della fratellanza e non solo della convivenza. Speriamo di riconoscerci come fratelli, di stimarci, di considerare le nostre diversità come dono di Dio, di gareggiare solo nel bene...
Noi sogniamo la pace, vogliamo essere operatori di pace. Ora la pace nel Medio Oriente nascerà dell’amicizia tra le comunità che ci vivono, in particolare tra i musulmani (sunniti e sciiti), cristiani e ebrei. Un lavoro immenso ci aspetta. La pace – che non e una tregua tra due guerre – si stabilirà quando l’amicizia sarà la regola e non l’eccezione... Ecco la grande sfida».