Dall'Osto Antonio
Il dramma dei profughi iracheni
2015/10, p. 15
I profughi e gli sfollati iracheni ad Erbil vivono in una situazione drammatica. Hanno perso tutto e non vedono davanti a sé un futuro, come racconta l’arcivescovo mons. Bashar Matti Warda, in questa intervista. A noi il vescovo chiede di pregare.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Intervista all’arcivescovo di Erbil
IL DRAMMA
DEI PROFUGHI IRACHENI
I profughi e gli sfollati iracheni ad Erbil vivono in una situazione drammatica. Hanno perso tutto e non vedono davanti a sé un futuro, come racconta l’arcivescovo mons. Bashar Matti Warda, in questa intervista. A noi il vescovo chiede di pregare.
Qual è la presenza della Chiesa e, in concreto, della vita religiosa in Irak?
Attualmente ci sono solamente 300.000 cristiani, mentre nel 2003 erano 1.200.000. Ciò significa che in 12 anni abbiamo un milione in meno di cristiani. In concreto, la presenza della Chiesa in Irak è molto limitata per le circostanze che stiamo vivendo. Non possiamo tuttavia dimenticare che è stata una presenza ricca e plurale. Attualmente abbiamo 14 sacerdoti, ma bisogna tenere conto che, dall’inizio della persecuzione, ne sono dovuti fuggire 40 che sono diventati degli sfollati.
La vita religiosa esiste, è un numero piccolo, ma significativo. Per esempio ci sono i monaci caldei del Monastero di Sant’Antonio, le Sorelle caldee Figlie di Maria, le Sorelle caldee Figlie del Sacro Cuore... monaci e monache con un’intensa vita missionaria. Per quanto riguarda la vita religiosa apostolica, ci sono i domenicani, i carmelitani e i redentoristi. Inoltre ci sono le Sorelle domenicane della Presentazione, le Piccole sorelle di Carlo de Foucauld... tutte svolgono delle missioni nei villaggi e compiono un’attività impagabile. Purtroppo, dopo la crisi di Mosul, sono andate perse molte missioni che le congregazioni avevano. Ogni congregazione, come è logico, ha le proprie attività conformi al carisma. Qui in Irak hanno un campo quasi infinito perché ci sono molte carenze a tutti i livelli.
Come sono le relazioni tra i diversi riti che coesistono, caldei e latini, per esempio?
La verità è che per noi è una ricchezza. Le circostanze e il bene della gente ci stimolano a lavorare in équipe, rispettando sempre il carisma e la tradizione spirituale di ciascuno. Per esempio, in Irak c’è un solo seminario e accoglie tutte le vocazioni cattoliche, siano queste di rito latino, siriaco, caldeo, melchita.... Tutte le comunità dei differenti riti contribuiscono a mantenere questo seminario. Inoltre, abbiamo un progetto pastorale comune per tutte le comunità cristiane in cui cerchiamo di essere tutti coinvolti.
La situazione di persecuzione che stiamo vivendo ci fa sentire che, prima di tutto, siamo cristiani che formiamo una sola famiglia. Essere cristiano in Irak vuol dire essere nomade; andare da un posto all’altro con la tua famiglia e i tuoi averi... significa anche non avere templi o chiese in cui celebrare il culto, perché sono scomparsi... l’unica cosa che ci è rimasta da proteggere sono le pietre vive, le persone che sono anch’esse – purtroppo – aggredite. La maggior parte dei cristiani vive in tende da campagna e lì, in queste tende, noi celebriamo l’eucaristia. La Chiesa vive in una situazione di scoraggiamento perché tutti i progetti pastorali, educativi, di missione, di attenzione ai poveri sono andati perduti.... tutto ciò che era stato costruito non esiste più. Come se non bastasse, la gente vive in una grande incertezza di fronte al futuro. Che cosa succederà? Che sarà di noi? Quanto ci vorrà perché tutto questo passi? Davanti a questi interrogativi possiamo rispondere con la speranza e il silenzio; restare, accompagnare nella sofferenza... e poco più. La situazione degli sfollati è molto dura perché sono persone che hanno perso tutto, hanno sofferto traumi e hanno, come unico orizzonte, un campo di rifugiati e l’aiuto che come Chiesa possiamo dare loro. Anche attualmente ci sono circa un milione e ottocento mila sfollati, non solo cristiani, ma anche yazidi (religione preislamica) e musulmani. Perciò, per noi, è prioritario assistere queste persone sfollate.
Parliamo ancora un po’ della situazione concreta del paese.
Sì, tutta la problematica attuale ha alla radice le dispute fra i diversi partiti politici iracheni. Vale a dire, questi partiti si sono serviti del fatto religioso per creare un conflitto che poi si è diffuso e ha toccato la vita delle persone. Bisogna tenere anche conto della corruzione politica e finanziaria che ha fatto sì che il paese toccasse il fondo. La cosa peggiore è che la gente ha cessato di credere nelle istituzioni, ha perso la speranza in un cambiamento. C’è un grave problema politico ed economico, ma anche religioso. Incontriamo migliaia di cristiani che sono stati costretti a fuggire dalle loro case – da quando ha avuto inizio la crisi – e non vedono ancora nessuna possibilità di tornare alle loro abitazioni. In più, non sanno se un giorno potranno ritornare.
Di quanti cristiani parliamo riguardo alla popolazione totale irachena?
La popolazione dell’Irak è di 34 milioni di abitanti e di questi, circa 300.000 sono cristiani. Vale a dire, in percentuale, poco meno dell’uno per cento.
Sono il “resto”... che significa per i cristiani vivere la fede in questa condizione di minoranza?
Anzitutto è una grande sfida che passa attraverso un’opzione personale in cui ci giochiamo la vita. Essere cristiano può costare molto caro perché puoi perdere le tue proprietà, il tuo modo di guadagnarti la vita, lo status sociale, passi dal fatto di essere un cittadino normale alla condizione di sfollato, al riparo di una tenda. Rimani senza niente. Si tratta di una decisione molto seria da soppesare, soprattutto quando si ha famiglia, si hanno dei bambini o anziani... Purtroppo, ora, pensiamo solo al nostro presente, a un giorno per l’altro. Il futuro, se esiste per noi, è una grande incognita. Si tratta di una situazione di totale provvisorietà. Nella mia vita come arcivescovo non posso programmare nulla, ogni giorno è pieno di sorprese che impediscono ogni genere di agenda perché di continuo sorgono nuove realtà, problemi, persone da assistere e questo, per me, è la cosa primaria.
La mia diocesi è una diocesi stabile, nei limiti del possibile, ma che riceve ogni mese da sette a dieci famiglie che vengono a istallarsi ad Erbil. Vengono in gran parte da Bagdad e Mosul. È gente che ha venduto ciò che possedeva e compra qui il necessario per vivere. Di qui il mio impegno a formare agenti di pastorale, creare scuole cattoliche, gruppi di formazione... perché hanno bisogno di attenzione e di assistenza.
È una situazione molto dolorosa, io non posso dire a nessuno di non andarsene, di non emigrare, di rimanere nella loro terra perché qui nessuno è al sicuro. Solo a una quarantina di chilometri da qui ci sono le truppe dello Stato Islamico (Daesh). L’unica consolazione che abbiamo è che Dio ci sta indicando la via su cui camminare come Chiesa con la gente.
Si tratta di un’autentica esperienza di esodo...
Sì, certo, e naturalmente di un esodo molto duro al quale nessuno ci ha preparato, per il quale ci siamo trasformati dalla notte al giorno in “amministratori di programmi di emergenza”. Dobbiamo imparare il cammino, insieme a loro, i loro programmi quotidiani: ascoltandoli, cercando di guardare dal loro punto di vista... e, soprattutto, sentendo le loro paure, perché sono le stesse nostre. Personalmente mi impressionano questi sfollati che hanno perso tutto e continuano a credere e a confidare in Dio.
Stanno vivendo una persecuzione reale: sono in pericolo le loro vite?
Lo Stato Islamico cominciò col mettere delle condizioni: o convertirsi all’islam o rimanere cristiano e pagare un’imposta detta yizia. Se sei cristiano e rifiuti di pagare questa imposta ti uccidono o devi andartene dal tuo villaggio o città. Molti cristiani hanno deciso di non pagare l’imposta e di andarsene. Hanno venduto le loro proprietà, ma dopo, nei controlli istituiti lungo le strade, vengono derubati di tutto ciò che hanno.
A Mosul si trova la valle di Ninive, un luogo molto fertile, in cui sorgevano 15 villaggi cristiani, con monasteri e chiese antichissime. Ma quando si fu avvicinato lo Stato Islamico e la popolazione vide ciò che succedeva agli yazidi (sequestri di bambine, assassini di massa....) e che non avevano alcun genere di protezione da parte del governo, vennero tutti nella nostra diocesi. Giunsero in totale in tredici mila famiglie e tante altre persone disseminate nei dintorni. Inoltre questo avvenne in pieno inverno con un freddo insopportabile.
Stando ai calcoli, Erbil si è trasformata nel centro di resistenza dei cristiani...
La regione di Erbil ha circa un milione e novecento mila abitanti, e nel suo territorio sorge una città chiamata Ankawa, dove il 90% sono cristiani. Ci sono due vescovi sfollati da Mosul, 40 sacerdoti e 80 religiose, anch’essi sfollati come il resto dei cristiani.
Oltre a tutto questo, bisogna tener conto che sono morti due bambini a Karakos, un villaggio sirocattolico. Lo Stato Islamico cominciò a lanciare missili e non lasciò loro il tempo di fuggire. Dopo la gente del villaggio tornò, seppellì i bambini e fuggì. Così pure, trecento bambini furono sequestrati e venduti come schiavi. Alcune settimane fa abbiamo saputo di una bambina di nove anni che fu violata da dieci uomini. È terribile. Tutto questo crea una situazione di insicurezza e di sconcerto e fa sì che la gente fugga spaventata a mano a mano che ricevono notizie che lo Stato Islamico sta avanzando e guadagnando terreno.
In un contesto come questo sorge l’interrogativo della vocazione?
Per quanto possa sembrare sorprendente, la risposta è sì. Quest’anno ci sono in seminario sei nuove vocazioni di varie congregazioni.
Che cosa potrebbero fare i cristiani e come stanno lavorando per la riconciliazione delle religioni?
Se fosse un problema solo iracheno la soluzione sarebbe più facile perché i cristiani cercano l’avvicinamento e il dialogo, non vanno a fomentare la vendetta o la rivincita. Il problema è che lo Stato Islamico non è composto solo di iracheni, ma di gente che viene anche da altri paesi come l’Iran, la Turchia, l’Arabia saudita... e si sono arruolati circa trenta mila occidentali dall’Europa, Stati Uniti o Australia. In Irak sono appoggiati soprattutto dai sunniti che partecipano direttamente alla lotta dello Stato Islamico. Si tratta di una situazione molto confusa, di un conflitto tra vari paesi. Noi, come Chiesa, non cessiamo di insistere sulla necessità di una riconciliazione fra tutte le parti; senza di essa, la lotta continuerà per molto tempo.
Dal suo punto di vista, come vescovo e religioso, che cosa pensa della partecipazione della comunità internazionale? Stiamo cercando la pace, la riconciliazione in questo conflitto oppure il resto del mondo sta guardando da un’altra parte?
L’intervento internazionale deve essere molto ben pensato e preparato. Non si può intervenire in qualsiasi maniera. Penso che una seria azione militare sul terreno sarebbe preferibile ai bombardamenti sporadici. Dobbiamo tenere presente che l’ideologia dello SI non crede nel dialogo né si apre ad esso. Questo bisogna scartarlo. Loro si definiscono “i servi fedeli di Dio” e l’unica cosa che cercano è che il califfato si estenda in tutto il mondo, imponendo la legge islamica Sharia. Per questa ragione, il dialogo, a mio parere, è praticamente impossibile.
Lei propone, se capisco bene, un intervento militare internazionale con tutto quello che comporta...
La prima cosa da fare è frenarli, impedire che continuino ad avanzare. Bisogna tenere presente che l’Europa e l’occidente hanno una responsabilità diretta riguardo ai trenta mila combattenti che stanno lì, vale a dire, non è un problema solo del Medio Oriente, è un problema della comunità internazionale. Perciò bisognerà continuare ad aiutare l’esercito iracheno. L’invio di truppe occidentali sul terreno lo vedo più complicato.
Poi, una volta fermato lo SI, bisognerà lavorare in prospettiva umanitaria, aiutando le persone a vivere con dignità e a ritrovare la speranza e il futuro, aiutando a ricostruire le loro case e i loro villaggi. In questo senso il governo curdo e quello iracheno stanno già collaborando alla creazione di politiche che servano a delineare un futuro più stabile.
Crede che l’informazione che ci giunge in occidente corrisponda a ciò che realmente sta accadendo?
In occidente, in Europa, noto che giunge un’informazione sempre maggiore e si conosce di più ciò che succede in quei luoghi, ma è un’informazione molto limitata, ossia, quello che si riferisce è vero, però non si racconta tutta la verità.
Qual è il più grande desiderio che ha come persona in questo momento?
Il mio più grande desiderio è che le famiglie possano tornare il più presto possibile alle loro case, che possano recuperare la loro terra e la loro vita. Anche se dovranno ricostruire le case e ricomporsi mentalmente, tornare al luogo dove vivevano, alla loro terra è fondamentale. Non si tratta solo ri recuperare dei possedimenti, ma di recuperare la vita, la storia, la propria cultura. Noi, come cristiani, pensiamo di aver molto da fare poiché nella Chiesa siamo esperti nel gettare ponti di pace, di comunicazione e di dialogo. Se abbandoniamo anche noi la regione brucerà. Sappiamo che è una missione molto costosa ma crediamo che ne valga la pena.
Dove trova la forza per riuscire a vivere in questa situazione di sofferenza e di dolore?
La lotta continua davanti a Dio, il nostro scopo è di testimoniare la sua presenza fragile in mezzo all’assurdità e la sofferenza. L’unica cosa che ci rimane, ciò che possiamo fare di più e meglio, è accompagnare le persone che soffrono e che hanno perso tutto. Semplicemente stare con loro.
Come possono gli altri cristiani aiutare la sua comunità?
Pregando, soprattutto pregando, è la cosa più importante. Con la forza della preghiera si sostengono tutti i gruppi di esuli, poveri e profughi... chiediamo almeno che questo gruppo non aumenti. Preghiamo anche per la conversione dei cuori dei fanatici affinché si aprano e possano vedere la brutalità delle loro decisioni. E pregare perché il mondo non si dimentichi di noi.
In secondo luogo, far conoscere la nostra storia, le situazioni di dolore che stiamo vivendo. Non possiamo cadere nella dimenticanza o nell’oblio. Abbiamo bisogno di persone disposte a far prendere coscienza e raccontare ciò che sta accadendo in questo angolo del mondo.
E, da ultimo, abbiamo bisogno senza dubbio, di aiuto materiale per i profughi e le persone che lavorano in mezzo a loro, in definitiva per lenire una situazione disperata.