Gellini Anna Maria
Misericordia e perdono
2015/10, p. 12
Appello alla misericordia e al perdono come unica via per la riconciliazione tra i popoli e le culture, e tra le Chiese. Ogni lentezza in tale opera è pagata a caro prezzo da chi continua a morire a causa di divisioni e incomprensioni di cui nessuna Chiesa può ritenersi estranea.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
XXIII Convegno ecumenico internazionale a Bose
MISERICORDIA
E PERDONO
Appello alla misericordia e al perdono come unica via per la riconciliazione tra i popoli e le culture, e tra le Chiese. Ogni lentezza in tale opera è pagata a caro prezzo da chi continua a morire a causa di divisioni e incomprensioni di cui nessuna Chiesa può ritenersi estranea.
Il tema, Misericordia e perdono, è quanto mai attuale in un momento storico in cui l'ecumenismo non può procedere senza che i cristiani chiedano perdono a Dio e si chiedano vicendevolmente perdono per le divisioni generate nel Corpo di Cristo, consapevoli che «il concetto biblico del perdono non è solo un’assoluzione del passato ma anche preparazione di un nuovo futuro del mondo come dimora della giustizia». (card.Kasper).
Su questo filo conduttore si è svolto, dal 9 al 12 settembre, presso il Monastero di Bose (Magnano, Biella) il XXIII Convegno ecumenico internazionale di Spiritualità ortodossa. Presenti più di venti delegazioni delle Chiese d’Oriente e d’Occidente e oltre 250 partecipanti. Le riflessioni condotte dai numerosi relatori, sono state sviluppate in prospettiva biblica, patristica, storico-antropologica, pastorale-ecclesiale.
Per una rinnovata teologia
della misericordia
Il messaggio inviato ai convegnisti dal segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, Olav Fykse Tveit, è risuonato come un accorato appello alla responsabilità di tutti i cristiani e di tutte le Chiese a operare per la riconciliazione. «Gli ultimi sviluppi della tragica e disperata fuga da regioni di guerra in Medio oriente, in Africa e in Asia di uomini e donne che chiedono rifugio, ci invita a meditare sul senso della misericordia e del perdono sia nella nostra vita spirituale personale sia a livello delle nostre istituzioni ecclesiastiche, come pure in rapporto al ruolo che dobbiamo svolgere nei paesi e negli Stati in cui viviamo. La violenza intollerabile e disumana a cui spesso si fa ricorso in nome della religione e che distrugge non solo l’umanità di chi la compie, ma anche il tessuto sociale dell’intera società che ne è colpita, richiede che guardiamo alla misericordia e al perdono nella prospettiva divina e non a partire dalla nostra comprensione umana, che a volte sembra incapace di perdono. Inoltre, oggi nelle nostre società si sta assistendo a svariate forme di violenza contro donne, bambini e minoranze facilmente vulnerabili, e a molteplici forme di esclusione, compresa l’ingiustizia sociale, laddove il divario tra i poveri e i ricchi è divenuto incolmabile. La cupidigia sta diventando sempre di più un valore comunemente accettato, per non dire una virtù che ci sta portando al disastroso sfruttamento e alla distruzione dell’ambiente. È necessaria una rinnovata teologia della misericordia per affrontare queste sfide.» Non c’è esperienza umana sulla quale non vinca la misericordia di Dio, ma ciò non elimina l’impegno della conversione del cuore perché il “settanta volte sette”, chiesto da Gesù, possa diventare realtà e trasformare la storia. «È forse troppo per i cristiani, che si nutrono del corpo di Cristo e del suo sangue, “amare il prossimo come se stessi”?» (Georges Khodr, metropolita di Byblos e Botrys in Libano). E il patriarca di Costantinopoli ha aggiunto con forza che «l’amore per gli uomini è la sola virtù che non ammette dilazioni».
Esercizio difficile
ma possibile
La misericordia è un esercizio difficile e «appare spesso utopia, lontana dalla realtà, dalla nostra realtà quotidiana di uomini e donne. C’è qualcosa in noi che cerca costantemente di convincerci che solo degli illusi possono pensare che il perdono e la misericordia siano possibili nel nostro mondo reale, nelle nostre comunità e tra le nostre Chiese» (Chialà). Ciò accade perché in ciascuno di noi si annidano quelli che il segretario della CEI, mons. Nunzio Galantino, ha chiamato «gli anticorpi che impediscono di provare ‘viscere di misericordia’». Ma proprio perché è umanamente difficile vivere la misericordia e il perdono, è necessario ritornare alla fonte delle Scritture e ritrovare i tratti autentici del volto di Dio, misericordioso e compassionevole. Il Dio che, attraverso gli eventi dell’esodo, proclama il suo Nome: “Io sono”; il Signore, colui che libera il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto, è anche conosciuto come colui che ha misericordia. Nel N.T. «la passione di Cristo rivela che la schiavitù dalla quale Dio ci libera non è una nozione geografica né dipende da padroni umani, ma è la schiavitù della nostra stessa vita nell’Egitto di questo mondo, e che la nostra durezza di cuore non è semplicemente questione di occasionali atti di disobbedienza, ma sta al cuore del nostro stesso essere diviso e decaduto». Tuttavia «la misericordia e l’amore fedele di Dio non sono temporanei o transitori ma eterni, si estendono dalla creazione alla ri-creazione, in un’economia (o pedagogia) che abbraccia ogni cosa, e ci porta, attraverso la sofferenza, la morte e il pentimento, a condividere la vita di Cristo e a mostrare verso gli altri quella stessa misericordia che Dio mostra a noi.» (p.John Behr) Le dinamiche della storia della salvezza, rilette nella storia di Giuseppe e i suoi fratelli (Gen 37-50) e nella parabola del padre buono (Lc 15), sono storia di liberazione, guidata da un Dio che non si arrende davanti al male, ma tracciata anche da ognuno di noi, invitato a contrastare risentimento, vendetta, divisione, e giungere a relazioni umane unificate e rappacificate; «ognuno deve tornare al proprio errore per comprenderlo e superarlo» (p. Pentiuc). Il volto misericordioso di Dio attende di riflettersi nel volto dei figli perdonati, chiamati a un riconoscimento graduale e reciproco, e a un perdono che non toglie la memoria, ma toglie il veleno dalla memoria.
Il perdono
nella tradizione monastica
Il tema della misericordia è centrale nell’esperienza della koinonia pacomiana, ritenuta luogo terapeutico. Per san Pacomio la misericordia «sgorga innanzitutto dalla croce di Cristo e diventa evento comunitario attraverso il perdono reciproco, l’organizzazione dell’offerta di solidarietà e la partecipazione ai vari servizi comunitari» (Dimitrios Moschos).
Anche per i monaci palestinesi Barsanufio, Giovanni e Doroteo di Gaza, l’autentica misericordia ha la sua fonte in Dio: coloro che «diventano fratelli del nostro “grande fratello” Gesù Cristo, arrivano a condividere la sua sete di misericordia per tutti, nel pentimento e nell’umiltà» (prof. Torrance). Solo così diventano mediatori e riflesso della cura di Dio per l’umanità. Un maestro di pentimento e di umiltà è stato Nil Sorskij, monaco russo alla fine del XV secolo. Per Nil «la vita monastica è la più alta manifestazione della misericordia di Dio verso l’uomo caduto» (Elena Romanenko).
Diversa e più radicale la prospettiva di Isacco il Siro, padre siriaco del VII secolo: per lui è tale l’immensità dell’amore di Dio per gli uomini che «la sua misericordia non solo eccede la giustizia, ma la trascende, dal momento che, “mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”» (p. Brock). «Quanto sarebbe povera e miserabile l’idea di un Dio costretto ad agire secondo le nostre regole di giustizia, un Dio idolo delle nostre concezioni, esecutore e prigioniero delle nostre richieste di un ordine presumibilmente giusto!» (card. Kasper)
La forza rigenerante
del perdono
Lungo i secoli, tanti hanno saputo mostrare con la loro stessa vita la forza rigenerante del perdono e della misericordia. Il grande principe Vladimir di Kiev, di cui quest’anno ricorre il millenario della morte, visse una radicale conversione dopo il suo battesimo e testimoniò la propria adesione a Cristo mite e umile di cuore, esercitando un potere politico che fosse espressione del Vangelo. L’attività pastorale di P. Aleksander Men (ucciso nel 1990 in Russia), fu radicata in Dio. In una società ormai completamente sovietizzata, spesso brutale e violenta, egli seppe incarnare la compassione di Dio e offrire aiuto e guarigione spirituale a chi si affidava alla sua guida. Padre Matta El Meskin, (morto nel 2006) monaco e igumeno del monastero di san Macario nel deserto egiziano di Scete, dotato di uno straordinario carisma umano e spirituale, è uno dei più luminosi testimoni dei cristiani d’Egitto e padre di una importante rinascita spirituale e monastica all’interno della Chiesa copta ortodossa. L’attuale abate-vescovo Epiphanios ne ha messo in risalto «la convinzione evangelica che l’amore è superiore a tutto, perfino alla verità, e che l’iniziativa della riconciliazione spetta sempre alla parte offesa. A chi gli chiedeva se i cattolici e i protestanti sarebbero entrati nel regno di Dio, lui rispondeva: “Né i cattolici, né i protestanti, né gli ortodossi entreranno nel regno di Dio, ma vi entreranno coloro che saranno nuove creature in Cristo Gesù”.»
Esperienza ecclesiale
e pastorale
Un’ampia lettura della storia ecclesiale nel corso dei secoli ha evidenziato che i contrasti tra greci e latini, le crociate, la diffidenza tra le Chiese ortodosse e un atteggiamento polemico verso la Chiesa cattolica romana dopo lo scisma del 1054, i condizionamenti culturali con i quali il messaggio evangelico ha faticato a confrontarsi, i motivi sociologici-etnici che hanno ostacolato la riconciliazione, le tante ferite non ancora sanate, stanno all’origine della divisione fra le Chiese. Il calice eucaristico non è ancora condiviso, tante situazioni attuali contraddicono ancora il perdono. Ci sono ancora non cristiani che uccidono i cristiani, ma ci sono anche cristiani che uccidono altri cristiani.
Per la riconciliazione tra le Chiese è intervenuto il metropolita Maximos di Sylivrias attingendo al Tomos agapis, il volume che raccoglie tutti i testi del cosiddetto “dialogo della carità” tra due grandi profeti e uomini di pace, papa Paolo VI e il patriarca Athenagoras: è una straordinaria testimonianza di come lo Spirito santo ha potuto (e può ancora) condurre le Chiese da una situazione di isolamento e di autosufficienza alla riscoperta della comunione reciproca e della qualità di “Chiese sorelle”.
In una prospettiva antropologico-pastorale, p.Bassam Nassif e d. Basilio Petrà hanno affrontato il tema delle crisi matrimoniali e il problema di come conciliare l’indissolubilità e la fallibilità delle unioni coniugali, rispettivamente nelle chiese ortodossa e cattolica. Esiste un divario sempre più frequente tra l’ideale del matrimonio come sacramento, come mistero di “comunione eucaristica nel corpo di Cristo” e le difficoltà della vita di coppia. È necessario integrare la teologia pastorale della Chiesa con l’esperienza delle scienze umane, e – senza condannare o giudicare - avviare una cura pastorale che sappia incarnare la misericordia e la cura paterna di Dio.
Purificazione della memoria
e sguardo al futuro
Forse non capiremo mai fino in fondo le ragioni delle nostre divisioni, ma conosciamo cosa ci chiede Cristo per vivere riconciliati. «Ricordare è importante e dimenticare sarebbe un atto di irresponsabilità, ma allo stesso tempo è necessario non lasciarsi imprigionare dalla storia. Guardare al passato è necessario in vista di quell’opera di purificazione cui siamo chiamati, ma nello stesso tempo abbiamo bisogno di trovare un modo nuovo di dialogare; siamo chiamati a prendere sul serio quell’anelito all’unità che sale da tanti uomini e donne appartenenti alle differenti comunità cristiane» (Chialà).
«Il Signore certamente ci conduce con fedeltà sui nostri cammini e vuole che noi restiamo ancora estremamente umili e fedeli sulle sue tracce» (E. Bianchi) ma il cammino non sarà mai finito perché è lungo quanto la storia della salvezza. Pur riconoscendo i passi fatti, siamo chiamati a continua conversione per superare inerzia, silenzi, ritardi. Consapevoli che il dialogo non elimina le legittime diversità, ma «neppure cancella la comune condizione di pellegrini verso nuove terre e nuovi cieli», siamo chiamati a irrobustire quella comunione che non separa e non confonde, ma che favorisca la nascita di una cultura planetaria della convivenza e della pace.
Anna Maria Gellini