Balocco Francesca
Il potere generativo della donna
2015/10, p. 1
Visitando la mostra a Milano, mi sono trovata immersa in un orizzonte nuovo, carico di emozioni, di sensazioni che hanno prodotto scambi, riflessioni e dialoghi attorno ad un tema – la maternità – che a noi, come donne consacrate, dovrebbe essere più che familiare.
La mostra “La Grande Madre”
IL POTERE GENERATIVO
DELLA DONNA
Visitando la mostra a Milano, mi sono trovata immersa in un orizzonte nuovo, carico di emozioni, di sensazioni che hanno prodotto scambi, riflessioni e dialoghi attorno ad un tema – la maternità – che a noi, come donne consacrate, dovrebbe essere più che familiare.
Talvolta le occasioni sono tanto impreviste quanto imprevedibili, eppure accadono puntuali e precise, come se fossero lì semplicemente ad attendere la nostra adesione. Non era nel mio programma di visitare la mostra: La grande madre, esposta al palazzo Reale di Milano, dal 26 agosto fino al 15 novembre 2015. Mi è stato chiesto di farlo, e di scrivere le mie impressioni. Mi sono così trovata immersa, o forse per certi versi gettata, in un orizzonte nuovo, carico di emozioni, di sensazioni che hanno prodotto scambi, riflessioni e dialoghi attorno ad un tema – la maternità – che a noi, come donne consacrate, dovrebbe essere più che familiare. Rimango stupita e meravigliata, non solo da ciò che ho avuto la possibilità di contemplare, scrutare e accostare, ma anche dagli echi che ancora risuonano, da parte di chi ha visto la mostra e desidera condividere sue le impressioni, i suoi timori, la nostalgia e il desiderio di una quiete, di un riposo, di una pacificazione con un aspetto della vita che accomuna e lega ciascuno di noi: la generazione.
La maternità vista
da oltre cento artisti
Attraverso le opere di oltre cento artisti internazionali, che si estendono su circa 2000 metri quadrati, la mostra espone la rappresentazione della maternità nell'arte del Novecento, fino ai nostri giorni, mettendo in luce il potere creativo della donna.
La grande madre. Il titolo accende sicuramente, nella mente e nel cuore di ciascuno evocazioni di vario tipo, lasciando spazio all’immaginazione e alle aspettative su cosa si potrebbe trovare, vedere e sperimentare partecipando a questo evento. Coloro che hanno già avuto la possibilità di vivere questa esperienza si saranno presto resi conto che l’effetto sorpresa è garantito, soprattutto per chi ha lasciato emergere in sé un’immagine della maternità – frutto di ricordi o di desiderio – carica di dolcezza, tenerezza e attesa.
Visitare la mostra può significare, soprattutto per noi consacrate, l’accostamento alla maternità a partire da un nuovo e diverso punto di vista. È senza dubbio uno stimolo e una provocazione ad aprire i nostri sguardi verso orizzonti troppo spesso inesplorati: ciò che possiamo vedere, ascoltare, toccare ci impedisce di coltivare una quieta e pacifica immagine della maternità, ma ci spinge, ci costringe ad accogliere il lato drammatico ed inquieto del generare. Nuovi orizzonti, ma anche nuovi linguaggi che ci introducono ad una particolare relazione con noi stessi e con il mondo. Visitare la mostra può significare la possibilità di sperimentare il confronto con l’inquietudine, il dramma, i dubbi e le paure che l’esperienza della maternità mette in gioco, non solo nel caso della maternità fisica, ma in ogni forma di disponibilità e disposizione ad accogliere l’altro nella nostra vita, portando le conseguenze di questa accoglienza fin dentro la carne.
Un modo diverso
di interpretare la maternità
Incontrarsi con un modo diverso di interpretare la maternità pone senza dubbio interrogativi anche a noi consacrati, invitati più volte da papa Francesco a riscoprire la bontà della generazione, in una maternità e paternità che ci consente di uscire dalla sterilità e dalla chiusura. Come non ricordare l’invito di Francesco all’udienza Uisg del 2013: “siate madri, non zitelle”, che ci chiede di interpretare la vita consacrata come esercizio della maternità, un invito che ci impegna a legarci e ad acconsentire alla forza prorompente della vita assumendone l’inevitabile impatto con la realtà e il limite. Ma qual è il prezzo della maternità? Qual è il passaggio vitale che la madre e il nuovo nato sono chiamati a percorrere? Poiché, in effetti, la generazione racconta di un passare che è passaggio ed è passione.
La consapevolezza di questo passaggio è ben presente nella coscienza di Gesù che attraverso il vangelo di Giovanni afferma: “La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo (Gv 16,21)”.
La maternità sembra non potersi esimere da questo passaggio doloroso e fecondo; un dolore passato, dimenticato in forza della gioia che viene dalla vita che si lega al mondo. Passaggio di sano realismo, forse – come dicevamo – poco romantico, con la schiettezza e la verità tipica del linguaggio evangelico, il dolore non è risparmiato, non è eluso dall’esperienza della maternità, ma non è l’ultima parola. È un’altra la parola che segna e significa l’impatto della vita col mondo, una parola che sembra essersi persa o nascosta nelle sale del palazzo reale di Milano, per lasciare il posto al grido del parto, del travaglio, della paura… una parola di gioia da cercare, quasi impercettibile, sottile, sottotraccia eppure presente in quella ricerca, tanto drammatica quanto vera, di senso e di identità.
Noi donne consacrate, siamo profondamente consapevoli di non essere escluse da questa ricerca di senso e di identità. La domanda circa la nostra identità ce la stiamo ponendo più volte e da molto tempo, a volte sono altri a chiederci il senso e il significato della nostra vita, della nostra presenza; o forse, a volte, la percezione è che la risposta che con tanta fatica stiamo cercando di dare non interessa poi a molti… ma la domanda è principalmente in noi. Ascoltando il grido, la solitudine, il dramma di ciò che viene esposto e mostrato nelle ventinove sale del Palazzo Reale è anche il nostro il grido, la nostra solitudine, il nostro dramma e l’inquietudine che nasce dalla necessità di svincolarci dagli stereotipi che ci hanno lungamente definite, e siamo anche noi, insieme ad altre donne, alla ricerca della nostra identità, costruendo una risposta che non può più venire dall’esterno, dalle opere e dal fare, ma solo dalla profondità e preziosità della nostra esistenza. Un’identità che, mentre si costruisce, si dichiara alla ricerca di un luogo, di un posto, che non può solo essere concesso ma che sia la scelta libera ed evangelica del nostro modo di posizionarci nel mondo.
Drammi e ricerche
che ci riguardano
Visitare la mostra è stato compiere un viaggio in compagnia di molte altre donne, esposte, raffigurate, rappresentate nella loro interezza, nel loro contesto o nei loro frammenti. Viaggiare, attraverso le opere d’arte, ha significato riscoprire la forza della generazione iscritta nel corpo, come un appello alla libertà che chiede di orientarsi verso altro e a favore di altro. Ciò che l’impegnativo percorso offre è l’immagine e le storie di donne che attraverso i loro corpi esposti, frammentati e dislocati si stanno cercando e cercandosi invocano una presenza che ne garantisca il riconoscimento. Siamo di fronte a donne che fondamentalmente si trovano sole in questa ricerca; in una solitudine che diventa provocazione e grido e – forse velatamente – speranza di poter uscire dalla chiusura su se stesse per incontrare l’altro, per essere viste, riconosciute, guardate anche dentro questo essere ancora indefinite, dislocate e frammentate. Ed è così che proprio lo spettatore, colui che guarda, compie assieme a loro il passaggio verso la nascita, ascoltando, e guardando riconosce la verità inscritta dentro le loro drammatiche e sofferte vicende, poiché attraverso queste esposizioni ciascuno può riconoscere il proprio faticoso percorso per venire alla luce. Drammi e ricerche che, come dicevamo, ci riguardano. Il passaggio della vita in noi ci rende madri, di quella vita di cui ci siamo prese cura per qualche giorno, mese, anno… o forse solo per qualche momento, vita che abbiamo custodito e protetto, senza porre condizioni di sorta, vita che abbiamo nutrito, curato e fatto crescere. Spesso dolorosi passaggi anche per noi che ci hanno aperto la strada verso una nuova identità, verso la gioia di sentire che è vero… che è vero, sperimentato fin dentro la carne, che il dolore attraversato non è la definizione della nostra storia, che il travaglio non è il criterio del nostro posizionamento del mondo, ma che ogni dolore può aprirsi alla vita, per generarla, curarla e proteggerla. Passaggio che ci rende sempre più capaci di un profondo rispetto per le donne che vivono con sofferenza e dolore la maternità, che ci porta ad essere solidali con la fatica di vivere la destabilizzazione di un corpo che cambia, fino a gridare, allo stesso tempo, in un’esplosione di ambivalenza, il desiderio e la paura, l’accoglienza e la negazione del potere della generazione attraverso la maternità.
Ciò che l’arte contemporanea, pur nella sua complessità, ci insegna e ci mostra è che la domanda di senso e di identità trova la sua via di risoluzione a partire dalla corporeità, da ciò che è sotto i nostri occhi e sotto gli occhi di tutti, da ciò che vediamo e che si impone, talvolta con violenza, davanti al nostro sguardo, quasi per ricordarci, in altro modo, che la nostra fede si radica nell’incarnazione, nella certezza di una felicità duratura e compiuta che non può essere di un’anima privata del corpo.
Ogni passaggio si rivela una passione, come esperienza dell’amare e del patire; il termine passione dice proprio di un amore che sceglie la sottomissione di sé al bene di un altro. Una domanda pungente e provocatoria si fa strada in noi: per chi sono le nostre passioni? A favore di chi vivere la nostra passione generativa? Solo ciò che sappiamo custodire con passione è ciò che veramente siamo in grado di generare, forse la nostra identità di donne consacrate potrà ritrovare stabilità nella relazione di un passaggio vitale per altri, nella possibilità reale di dare la nostra vita ad altri, nella speranza che il dolore del parto sarà l’annuncio della gioia di una nuova nascita. Forse anche per noi consacrate si apre una strada di senso, forse proprio attraversando la paura di dare la vita avremo accesso alla nostra identità, forse solo acconsentendo alla dinamica del Regno, inscritta in ogni carne e in ogni maternità, potremo ritrovare la vita nel momento in cui decidiamo di consegnarla.
Maria come
esempio e modello
La tradizione cattolica ci offre il modello di una donna, Maria, che ha saputo portare il mistero di una maternità accolta e non subita, portando allo stesso tempo il silenzio della non comprensione, la fatica della solitudine, la lacerazione di un legame strappato e, senza negare o evitare la drammaticità di ogni evento vissuto, ha continuato a credere in una destinazione alla gioia confermata e sigillata dalla sua Assunzione nella gloria in corpo e anima. Gioia di un corpo precario, limitato, instabile pensato da sempre degno di Dio.
La grande madre, il potere generativo della donna, probabilmente non sarei andata a vedere la mostra e a vivere questa esperienza, se non me lo avessero inaspettatamente chiesto, mi sarebbe mancato qualcosa: la possibilità di toccare più profondamente l’ambivalenza del sentire la generazione come perdita e come ritrovamento, come senso e identità che si costruisce dando vita… anche grazie a tutti coloro che in qualche modo trasmettendomi le loro vicende e le loro storie mi hanno generata e orientata verso una direzione di felicità che cerca vie di pacificazione con il limite e la precarietà, con i confini che consentono l’incontro.
Francesca Balocco