Balocco Francesca
Elogio della semplicità
2015/1, p. 30
La semplicità nasce da una complessità risolta, dalla naturalezza che matura nell’esercizio, dalla capacità di familiarizzare con ciò che ci appare nuovo. Il desiderio di semplicità si configura come un ritorno all’armonia del quotidiano, del feriale… del semplice appunto. Semplicità desiderata per porre fine ad un eccesso.

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Testimoni
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L’esempio è Gesù di Nazaret
ELOGIO
DELLA SEMPLICITÀ
La semplicità nasce da una complessità risolta e si configura come un ritorno all’armonia del quotidiano, del feriale… del semplice appunto. Semplicità desiderata per porre fine ad un eccesso.
Il desiderio di una vita semplice, o forse sarebbe meglio dire di una vita semplificata, ci accomuna. Un desiderio di semplicità, capace di coinvolgere parole, gesti, pensieri, stile di vita… sembra essere l’urgenza di questo nostro tempo o magari solo la nostalgia di ciò che già abbiamo passato e attraversato e che ci sembrava (o almeno così lo ricordavamo) più semplice di quello che stiamo vivendo ora. Certamente non solo nostalgia di qualcosa di più semplice, ma un reale desiderio di inventare una vita differente rispetto al consumismo, agli eccessi e al materialismo possessivo. Che si tratti di urgenza, desiderio o nostalgia ritroviamo in noi una spinta verso l’unificazione, verso ciò che è simplex, ovvero formato da un solo elemento. Ovvero qualcosa che sia facile da comprendere, da percepire, da utilizzare. Sia nel campo degli strumenti che nel campo dei pensieri, la semplicità ci si pone davanti come una nuova forma di ideale, come un obiettivo da raggiungere: un mezzo verso la felicità. Percepire e comprendere la semplicità come via di unificazione ci permette anche di fare esperienza di ciò che spesso riteniamo il suo contrario, la complessità. Una complessità che ci impone sforzi percepiti inutili o addirittura dispendiosi, che ci appare frammista ad una certa opacità e capace di disperdere in frammenti le nostre forze e capacità.
La semplicità
nella complessità
L’esperienza, in realtà ci insegna che, anche ciò che appare semplice – da quello che la natura ci offre fino alla spontaneità di un gesto – appartiene ad un sistema complesso; ogni cosa è straordinariamente, armonicamente e incredibilmente complessa, in ogni semplicità c’è una complessità nascosta, si potrebbe definire una semplice-complessità. Questa coppia apparentemente antagonista ci invita a cambiare il nostro sguardo per scoprire che la semplicità emerge proprio dal cuore della complessità, ed è proprio a partire dalla complessità che ci viene offerta la possibilità di scegliere ripetutamente l’essenziale.
«Quando mi viene chiesto: ‘Che cos’è la danza?’, io rispondo: a livello di persone che non se ne intendono significa mettersi in piedi e fare qualunque cosa; a livello di danzatori molto bravi, significa avere una disciplina da dieci o quindici anni e fare delle cose molto codificate, a livello del vero danzatore, significa mettersi in piedi e fare qualunque cosa, ma dopo aver passato vent’anni d’ascesi… Significa ritrovare l’innocenza e la libertà, ma con un lavoro preliminare». (Maurice Béjard).
La semplicità nasce da una complessità risolta, dalla naturalezza che matura nell’esercizio, dalla capacità di familiarizzare con ciò che ci appare nuovo. In effetti il desiderio di semplicità spesso sopraggiunge come reazione ad un grado di complessità eccessivo, quando le cose o le idee si sono “allontanate” troppo dalla loro fruibilità, dalla funzionalità alla quale eravamo abituati, un desiderio che quindi si configura come un ritorno all’armonia del quotidiano, del feriale… del semplice appunto. Semplicità desiderata per porre fine ad un eccesso, per ristabilire la giusta relazione con gli strumenti del vivere, ma anche come processo generato dall’esistenza umana. L’evoluzione della vita si snoda verso la semplicità, la maturità si manifesta spesso in una capacità di semplificazione del reale e del sapere che viene vissuto e offerto con sapienza e maestria. La semplicità che giunge alla maturità della vita non è altro che lo spogliamento da ogni forma di oscura complessità, che tende a nascondere, a offuscare, a tenere a distanza; una semplicità che si offre nella nudità, che rinuncia non alla complessità che appartiene ad ogni fase della vita, ma rinuncia a fare della complessità un alibi per la consegna di sé. La via dello spogliamento ci permette di non idealizzare la semplicità, né di farne una caricatura semplicistica, ma questa via faticosa ci consente di cogliere il desiderio di semplificazione in ambiti che risuonano artificiosi e flebili, consapevoli che semplice non è superiore a complesso e che i due non possono essere separati.
Il rischio
dell’urgenza
Il desiderio di una vita semplice si radica, in modo particolare, nella sensazione di non avere tempo, di dover vivere costantemente nell’urgenza, di dover correre e affannarsi sempre di più, sembra che nelle nostre vite si stia producendo una vera e propria carestia di tempo originata dall’accelerazione imposta dalla società. La vita, la storia, la cultura, gli ambiti politici e sociali fanno esperienza di questa accelerazione che sta producendo non solo mancanza di tempo ma anche mancanza di spazio. L’essere umano cerca un luogo dove poter stare. All’interno di un mondo sempre più interdipendente e connesso, tra scambi internazionali, scambi di informazioni, di economia e finanza… la nostra capacità di proiettarci e di progettarci nell’avvenire è diventata sempre più aleatoria e l’uomo sperimenta l’impotenza nei confronti dei suoi stessi atti: la sua ricerca di dominio si è rivelata un fallimento. Ecco allora che spesso la complessità viene esibita per nascondere questo fallimento, per proteggerci dalla nostra impotenza; diviene, in altre parole, strumento di dominio. Quanti modi di parlare per non dire… quante risposte date in modo che l’altro non possa capire e in questo alone misterioso della non-comprensione l’esercizio di un potere che ha come scopo di attrarre e generare ammirazione o forse per celare malamente la paura di essere semplicemente come tutti gli altri…
Acconsentire alla nostra impotenza ed assumere la fragilità delle nostre intenzioni può sorprendentemente aprirci a quadri inaspettati, come la sorpresa che ci riserva il cap 25 del vangelo di Matteo, il racconto del giudizio finale. La domanda è insistente: quando ti abbiamo visto, nudo, affamato, in carcere… e la sorpresa è proprio scoprire, nella nostra impotenza e fragilità, che il prossimo bisognoso di aiuto è raggiunto in maniera impercettibile nello spessore della qualità delle azioni interpersonali e interumane. Siamo meno impotenti di quanto pensiamo, la complessità del mondo può dare una potenza inaudita ai gesti più nascosti. Limite, finitudine, fragilità sono tutti segni della contingenza dell’uomo, del suo essere legato alla concretezza; segno della sua dignità e luogo in cui può costituirsi decidendo l’orientamento dei suoi gesti e quindi la direzione della sua vita. Il desiderio di semplicità si attua nelle decisioni pratiche della quotidianità, come principio, come forza dinamica che muove e sostiene i processi della vita.
Non ci sono ricette per la semplicità, ma può aiutare la semplice consapevolezza che la felicità dell’uomo passa dall’accettazione del suo tempo e del suo luogo. Consapevolezza che ci permette di lottare contro la tentazione di fuggire da un mondo in cui l’uomo non trova la felicità cercandola così in altri luoghi, imprigionato in una sorta di obbligazione a rinnovare senza misura le cose e le esperienze. Accedere alla felicità è semplice, passa dall’imparare ad accogliere le cose, anche le più semplici, dando prova di creatività e immaginazione, per scoprire un gusto nuovo, giocando con la complessità dei sapori di una via ancorata nel reale.
Semplicità
in Gesù di Nazaret
E di questa semplicità che si radica nella vita ne è prova riuscita la vicenda di Gesù di Nazareth, nell’attraversamento della sua passione, una vicenda di spogliamento che trova il suo compimento nella lavanda dei piedi e nella crocifissione. Semplicità che mette a nudo la complessità degli uomini e del potere che arriverà ad ucciderlo. Il vangelo di Marco ci offre un’anticipazione, un’immagine tanto eloquente quanto misteriosa: il giovane, che durante la passione fugge nudo, spogliato di tutto (Mc 14,51-52). Un’icona che richiama Gesù Cristo e la sua scelta di attraversare libero e nudo la passione, una passione che si è preparato e disposto a vivere. Tutto infatti è semplice. Gesù semplicemente entra a Gerusalemme, a piedi, senza compagnia e senza tumulto; un uomo solo che fa un atto di presenza muta in un luogo che è per lui casa di preghiera, egli non ha bisogno né di fare né di dire, ma semplicemente di essere là, e in questo stare rendersi presente al Padre. Subito dopo il passaggio a Betania, luogo del conflitto tra lo spreco e la bellezza; un vaso rotto e un profumo sparso mettono a nudo le reazioni dei commensali di fronte a ciò che ha valore: risparmiare, amministrare con cura e parsimonia, segno della necessità di utilizzare dei beni in maniera oculata e soddisfacente. Ma l’opinione di Gesù è semplicemente diversa, egli trova bella l’azione debordante, eccessiva, smisurata della donna che sembra molto simile al suo modo di amare. Il gesto elogiato della donna segna il passaggio e la necessità di lasciare l’abitudine umana e istintiva di trattenere e conservare per entrare in una dimensione di gratuità. Il vaso di alabastro, rotto in frantumi e a terra, diventa la parabola che il Padre racconta a suo figlio in questa notte, come un semplice invito a consegnare e svuotare la sua vita, a versarla e spanderla, ma insieme a questo la promessa che anche la sua vita, come profumo libero, diventerà vita e gioia del mondo.
Gesù non affronta il suo tragitto da solo, cerca compagni sui quali poter contare come amici e confidenti. Eppure accogliere Colui che, spogliato, si dispone alla passione non è facile da comprendere: i suoi amici sono più preoccupati dei primi posti, più interessati all’immediato che all’accoglienza delle sue parole e del suo vissuto, e in tutto questo Gesù semplicemente li ama, così come sono, senza volerli cambiare, senza volerli diversi, scusandoli a tal punto che in loro porrà ancora una volta la sua fiducia. I suoi fragili amici – Lui lo sa – inciamperanno, quando il Pastore verrà ferito, ma non per questo accuserà un gregge disorientato di disperdersi e di perdersi. Gesù sapeva che presto la paura dei suoi amici li avrebbe spinti all’abbandono e che non sarebbero stati capaci di comprendere le sue parole, che non sarebbero stati al suo fianco… ma per loro, semplicemente, nessuna accusa. Gesù non ha mai preteso che il suo amore fosse corrisposto, poiché il suo amore verso di loro – e verso di noi –era semplicemente più forte di ogni loro abbandono. E continuerà a considerarli semplicemente suoi amici, anche quando uno di loro verrà nel giardino per tradirlo con un bacio. Per questo il Pastore percosso e ferito saprà mettersi alla testa degli ultimi, percorrendo una nuova strada, perché questa è stata ed è, semplicemente, la sua scelta e il suo stile di vita: essere a fianco dei suoi fratelli quando sarà in gioco la loro vita, in pericolo la loro libertà, quando saranno minacciati dall’abbandono e dalla dimenticanza. Per questo, semplicemente, è venuto. La notte della consegna si è spogliato della sua tunica e con essa di tutte le pretese di potere e di dominio, semplicemente si è cinto di un asciugatoio, si è chinato ripetutamente davanti a ciascuno, e ha lavato i piedi ai suoi amici. Tutto in effetti è semplice per chi aveva abitudini prodighe: dare, perdere, lasciare, condividere, consegnare… e così semplicemente la storia lo ha accolto, in un luogo umile, mite, aperto, senza porte, serrature, chiusure e altrettanto semplicemente dalla storia è stato consegnato, spogliato e nudo così com’era stato accolto. In linea con lo stile di chi per tutta la vita ha condiviso, al punto da poter dire “mio” soltanto al Padre e ai fratelli, semplicemente, ha insegnato che anche Colui che chiamava Padre mio, era in realtà Padre nostro
Ciò che semplicemente resta è il suo amore fino all’estremo, fino alla fine, più forte di ogni forma di morte, e la sua tunica, che toltagli di dosso viene tirata a sorte. Gesto che semplicemente fa eco alle sue parole: prendete e mangiate, è il mio corpo, la mia vita per voi. Da quel momento ciascuno può prendere di Lui quello che vuole e semplicemente percorrere il suo stesso cammino, in sua memoria, verso una vita semplice.
Francesca Balocco