Un'infinita storia d'amore
2014/12, p. 32
Alla base del suo annuncio Gesù ha posto l’amore e la fraternità universale. Le tante opere dei cristiani risultano insufficienti se in esse non si percepisce l’amore per l’uomo, un amore e una generosità nutrite dall’incontro con Cristo.
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Testimoni
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La carità al centro
UN’INFINITA
STORIA D’AMORE
Alla base del suo annuncio Gesù ha posto l’amore e la fraternità universale. Le tante opere dei cristiani risultano insufficienti se in esse non si percepisce l’amore per l’uomo, un amore e una generosità nutrite dall’incontro con Cristo.
Quando, nel novembre 2013, papa Francesco diceva ai consacrati: «Svegliate il mondo! Siate testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere!», ricordava loro che l’esperienza dell’amore di Dio accolto nella propria vita è il fondamento della loro vocazione.
L’annuncio dell’amore di Dio per l’uomo costituisce il filo rosso che attraversa la storia del cristianesimo e dell’umanità. La consegna di Gesù: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12) ha inondato di luce nuova il gruppo dei discepoli, e le parole: «Andate in tutto il mondo e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28,19) li ha resi coscienti di una precisa missione. In una miriade di forme, uomini e donne del tutto ordinari hanno espresso lungo i secoli, con parole e opere, l’inventiva della carità.
Juan Maria Laboa, sacerdote spagnolo, professore di storia della Chiesa, ha voluto fare storia in modo originale nella prospettiva del comandamento dell’amore e delle molteplici forme che, nel tempo, hanno rivelato l’identità della Chiesa come «popolo che si ama, comunità che si distingue per la sua fraternità e solidarietà». Per la maggior parte – afferma Laboa – i cristiani non sono stati e non sono santi da calendario, ma comunissimi uomini e donne che hanno amato, e amano, il loro prossimo, dando vita a storie nascoste che costituiscono, tuttavia, le pagine più belle del cristianesimo. Trova spazio, in questa storia, anche la creatività della vita consacrata, che solo in Cristo riconosce la ragione della propria esistenza.
Evangelizzare
è amare
La storia dell’umanità, per il credente, è la storia dell’amore di Dio che crea, che chiama l’uomo a una relazione personale con lui, che si incarna nella nostra storia coinvolgendosi nelle trame delle relazioni umane, rivelandoci così la tenerezza del cuore di Dio per ogni creatura. Un amore gratuito, che non dipende dai nostri meriti, dalle nostre insistenze o preghiere, al punto che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza, capaci di amare come ama lui.
L’esperienza dirompente di un Dio che viene incontro all’uomo e lo chiama a sé con amore è l’esperienza dei discepoli che lo seguirono. Essi fecero proprio l’invito ad andare fino ai confini del mondo per annunciare l’amore di Dio per ogni uomo. L’annuncio evangelico dei discepoli e dei loro successori costituisce la conseguenza più impegnativa del loro amore per Cristo e per i fratelli. «Ogni atto di evangelizzazione ha la medesima causa e il medesimo metodo: l’urgenza di annunciare agli altri l’amore e la pace che si sentono nel proprio cuore; e ci si sente capaci di affrontare ogni peripezia per riuscire a fare questo».
Qui affondano le loro radici la missione e il coraggio del martirio, la creatività con cui, nel corso della storia, i missionari hanno saputo intercettare l’anelito di vita dei popoli e li hanno aperti al dono del vangelo in molteplici forme e maniere, riconoscibili ancora oggi nelle tradizioni occidentali e orientali. Monaci e consacrati, fin dai primi secoli, si mobilitarono per la missione, incuranti delle difficoltà e dei pericoli, perché tutti i popoli si convertissero al Dio dell’amore. «La gioia di amare Cristo li spingeva a condividere la loro esperienza con quelli che ancora, per pura ignoranza, restavano ai margini».
Questi ideali dovettero fare i conti, in realtà, con i limiti e il peccato presenti anche nella Chiesa. La conquista del nuovo mondo e le varie forme di colonialismo, ad esempio, influirono pesantemente sulle forme di evangelizzazione e sulla libertà dei missionari. «Tanti americani e africani non trovarono spesso nei loro oppressori l’amore che ci si aspetterebbe da chi sosteneva di credere e seguire la dottrina di Cristo». Ma anche allora nell’organismo della Chiesa si rivelarono provvidenziali anticorpi. Così, a partire da Francesco Saverio, iniziò un nuovo modo di vivere l’annuncio missionario, fondato sul rispetto delle credenze e delle strutture sociali del luogo; uno stile capace di coniugare, nel tempo, l’annuncio dell’amore di Dio per ogni uomo col riconoscimento dell’uguale dignità di ciascuno, della libertà e del diritto di espressione anche nell’ambito della fede e delle tradizioni religiose.
La carità
comunque al centro
Anche ad uno sguardo superficiale sulla storia della Chiesa non sfugge una semplice constatazione: nel corso del tempo si strutturano l’organizzazione ecclesiastica, l’ortodossia dottrinale, le norme liturgiche, le leggi ecclesiastiche. I pilastri istituzionali si consolidano sempre più, dando luogo anche a una disciplina capace di reprimere severamente ogni deviazione dottrinale e liturgica, ma nei confronti della carità non si sono sviluppate un’urgenza e una necessità altrettanto forti. Molta predicazione sulla carità, è vero, ma scarsa la sua applicazione nella vita istituzionale. Basti ricordare le numerose manifestazioni di intolleranza verso le minoranze religiose o le eresie, il fenomeno dell’inquisizione, le forme di integralismo, il clericalismo che hanno segnato la storia cristiana, ecc. «Non c’è dubbio che continuiamo a trovare, all’interno della comunità dei credenti, nella sua organizzazione e nel suo modo di agire, troppe forme, usi e costumi di potere che risultano affatto mondani e molto poco evangelici».
La (ri)presa di coscienza, con il concilio Vaticano II, di una Chiesa fondata sulla comunione, sulla diakonia e sul servizio, dovrebbe portare a cambiare il modo di concepire le strutture, ma la tentazione dell’inerzia è sempre molto forte all’interno della Chiesa. Soprattutto grave è la tentazione della mediocrità. Laboa la identifica in una forma di tiepidezza, riconoscibile nella paura di perdere le sicurezze materiali, la necessità di non esporsi, di non farsi conoscere per quel che si è realmente. È «la tentazione di nascondersi dietro il diritto, dietro le norme, dietro la tradizione, per liberarci dalla necessità di essere generosi, creativi e radicali nell’espressione della fede».
Eppure, fin dai primi secoli sorsero uomini e donne che scelsero di essere nel mondo ma non del mondo, per mettere in pratica la parola di Gesù: «se uno non rinasce di nuovo, non può vedere il Regno di Dio». Il monachesimo decise di esprimere, col deserto, la solitudine e il digiuno, la scelta di rompere con una logica di mercato, di possesso, di accumulo di beni per vivere fiduciosi nella provvidenza, nella preghiera, nel lavoro quotidiano e nell’accoglienza del povero, nel quale Cristo chiede di essere riconosciuto con amore (cum dilectione), caratteristica di un’autentica vita cristiana.
Il solco tracciato dal monachesimo si evolse, nei secoli seguenti, in forme diverse di consacrazione a Dio, a cominciare dalle grandi figure di Francesco e Domenico, e degli ordini mendicanti che da loro presero inizio. Il poverello di Assisi «ha lasciato nella memoria del cristianesimo il riflesso umano più compiuto di quell’amore di Dio che illumina l’esistenza degli uomini», testimonianza indelebile della bellezza trasformante del vangelo e dell’essenziale felicità di cui è portatore.
Nel secolo XIII, quasi tutti gli statuti sinodali obbligarono a insegnare ai fedeli le sette opere di misericordia insieme ai sette sacramenti e al mistero della Trinità e dell’Incarnazione. Sette: un numero definito e insieme un simbolo di pienezza, tentativo di comprendere la natura umana con le sue necessità e i suoi limiti. Progressivamente le opere di misericordia spirituali e materiali maturano in una relazione reciproca di crescente consapevolezza: prima di dare buoni consigli a un affamato, dagli da mangiare! Esse sono prova della centralità dell’amore per l’uomo, nel quale il Cristo si identifica. E sono pure lo stimolo capace di far nascere tante congregazioni per curare l’istruzione degli ignoranti, la salute degli infermi, riscattare i prigionieri, ospitare, nutrire e dissetare i pellegrini, vestire i poveri, presupposti indispensabili per riuscire con più efficacia a consigliare i dubbiosi, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti...
La VC del XIX secolo:
risposte alla povertà umana
Dopo lo sconvolgimento della Rivoluzione francese, l’affermazione dei sistemi politici liberali dei paesi occidentali, il profondo mutamento sociale generato dall’industrializzazione, nella Chiesa fioriscono nuove congregazioni che cercano di dare risposta alle nuove sfide poste dalla rivoluzione industriale. «Queste nuove istituzioni religiose, che si moltiplicano in paesi e città, concepiscono la vita religiosa come un servizio diretto ai bisogni degli esseri umani... Vogliono stare non solo al servizio degli altri ma anche in comunione con essi».
Bambini ed anziani, le categorie più esposte e deboli, ma anche tutti gli abbandonati ed emarginati sono al centro dell’attenzione di questi nuovi istituti religiosi, dei quali particolarmente numerosi sono quelli femminili (più di mille in Europa!), attivi soprattutto nel campo della sanità e dell’insegnamento. Il loro impegno, sostenuto da un grande slancio evangelico e dal desiderio di identificarsi con i poveri come aveva fatto Gesù, diventava anche un’evidente forma di supplenza all’assenza delle istituzioni sociali dello stato. In breve tempo, l’impegno dei consacrati divenne stimolo per numerosi laici ad unirsi a loro nella consapevolezza che la loro fede doveva trovare un’espressione sociale. Ne sono esempio le figure di imprenditori cristiani o di uomini e donne all’origine dell’associazionismo cattolico e dell’impegno politico dei cristiani a partire dalla Rerum novarum, in Francia, in Italia e oltreoceano.
Frédéric Ozanam con le Conferenze di san Vincenzo, don Orione con la Piccola opera della Divina Provvidenza, Dorothy Day con il movimento Catholic Worker, l’abbé Pierre con Emmaus, Jacques Loew e tutto il movimento dei preti operai, Madre Teresa con le Missionarie della carità, René Voillaume con i Piccoli fratelli di Gesù e soeur Magdeleine con le Piccole sorelle di Gesù, e tanti altri sono «la dimostrazione luminosa del fatto che sono esistite ed esistono molte persone che offrono tutta la loro vita per difendere le vite dei più deboli, perché sono coscienti che, quanto più amano, tanto più vivono». Sono esempi di una carità attenta ai segni dei tempi, che diverrà tratto irrinunciabile dell’identità ecclesiale con la svolta pastorale del concilio Vaticano II.
«Quando la Chiesa è povera e accoglie chi manca di tutto; quando serve amorosamente tutti gli esseri umani, in particolare quelli che ne hanno più bisogno; quando accoglie coloro che sono stati abbandonati da tutti, allora nella sua vulnerabilità risiede la sua forza. Quando sarà capace di amare e di agire soltanto a favore degli uomini, di tutti gli uomini ugualmente, gli uomini si riconosceranno in essa, allo stesso modo in cui gli storpi, gli invalidi e i ciechi si sono riconosciuti in Gesù perché rispondeva alle loro speranze. Solo in questo modo la Chiesa si può trasformare in una comunità di credenti in Cristo che lo sentano e lo riconoscano come il loro Signore. (...) Gli angeli della misericordia sono sempre presenti nella storia umana, in persone semplici e ignoranti, in santi e peccatori, in coloro che sperano in Dio malgrado l’apparente assurdità della loro esistenza. Tutti lasciano trasparire in qualche modo l’amore di Dio per il mondo».
Enzo Brena