Annamaria Gellini
Una speranza più forte delle catene
2014/11, p. 33
Sopravvissuto ai campi di sterminio, Anton Shrolec racconta i suoi dieci anni trascorsi nel lager di Jàchymov, costretto ai lavori forzati nelle miniere di uranio.

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Testimoni
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Memorie di un prete nei lager cecoslovacchi
Una speranza
più forte delle catene
Sopravvissuto ai campi di sterminio, Anton Shrolec racconta i suoi dieci anni trascorsi nel lager di Jàchymov, costretto ai lavori forzati nelle miniere di uranio.
Al termine della seconda guerra mondiale, l’URSS si accorse di non avere uranio da utilizzare nella corsa all’atomica. Successivamente agli incontri di Jalta e con la spartizione dell’Europa in due zone di influenza politico-militare, la Cecoslovacchia fu sottomessa a un regime totalitario che la rese paese satellite dell’URSS. Nel febbraio 1945, agenti dei servizi segreti sovietici vennero a conoscenza della presenza di giacimenti di uranio nella zona di Jachymov, a nord di Praga. Il prezioso minerale interessava come combustibile nei reattori nucleari e per le bombe atomiche. Per la mancanza locale di forza-lavoro per l’estrazione, fu deciso di utilizzare i prigionieri di guerra nazisti e successivamente gli avversari politici del regime comunista.
Testimonianza
e monito
I lager di Jachymov sono stati rasi al suolo. E in quella terra sono rimaste migliaia di persone che «senza traccia hanno oltrepassato la soglia della più totale umiliazione».<p> Anton Srholec <i>Una luce dagli abissi. Memorie di un prete nei lager cecoslovacchi</i>. EDB 2014 <p/> Di quel dramma umano sono rimasti alcuni sopravvissuti che hanno scritto prima di tutto «sul proprio corpo col filo spinato». L'uranio estratto con sangue, sudore e lacrime è tenuto ben stretto dall'Unione Sovietica.
L’incredibile diario di Srholec lascia intravedere anche nei momenti più drammatici una speranza sconcertante, più forte delle catene. Pur emergendo con tutta la sua forza e con particolare realismo la crudeltà patita a caro prezzo sulla propria pelle, è sorprendente l’energia che emerge dall’animo umano all’interno di un sistema malvagio e perverso come quello dei lager. È una testimonianza senza sentimento di vendetta, ma piuttosto manifestazione di gratitudine nei confronti di chi ha patito, resistito e perdonato, e anche come monito a rimanere svegli e prudenti, perché il mondo non si lasci di nuovo catturare o sedurre da pericolose utopie, perché cose simili non accadano più.
«Dobbiamo edificare un nuovo mondo. Non possiamo restare con le mani in mano ad aspettare che giunga da solo, ma non possiamo neppure realizzarlo con la violenza. Alla violenza non si può e non si deve rispondere con la violenza. La sofferenza non dev'essere moltiplicata».
Carceri piene
di sacerdoti e religiosi
Nel 1950, in Cecoslovacchia cominciarono a sorgere campi di lavoro forzato. La religione, considerata “oppio”, era da combattere ed annientare. Il regime, salito al potere con la forza, cominciò la caccia a dissidenti e religiosi, con la chiusura di chiese e conventi. Le carceri ben presto si riempirono di preti e religiosi. A Jàchymov i sacerdoti avevano un campo a parte, e venivano destinati quotidianamente alle miniere di uranio.
Il lavoro con l'uranio era «una pena di morte pulita, come l'eutanasia. Era un morire graziati. La fame e il freddo erano placati dalle radiazioni. Il campo di concentramento aiuta a far cristallizzare le persone, come la materia della miniera. Chi non crea condizioni appropriate, diventa materia grezza. Chi sfrutta il tempo e lo spazio può crescere e diventare meraviglia» anche in quell’inferno: annientati nel corpo, molti religiosi e sacerdoti lasceranno laggiù la loro vita, «in catene eppure liberi». In quelle condizioni, l’affidarsi a Dio ha un ruolo chiave: senza di lui, tutti gli sforzi sarebbero umanamente impossibili o comunque sterili.
Da Skalica
ai lager
Anton Srholec, nato nel 1929 a Skalica (Slovacchia), uno dei sette figli di una famiglia di contadini profondamente cattolica, entrò a 17 anni fra i Salesiani di Hronský Beňadik, attirato dal loro carisma: appena quattordicenne aveva desiderato diventare sacerdote ed educatore di ragazzi poveri e abbandonati. In quegli anni molti missionari partivano dalla Slovacchia per diverse destinazioni in tutto il mondo. Il primo desiderio di Anton fu di unirsi a loro per diventare missionario. Ma nell’aprile del 1950 dovette abbandonare gli studi teologici e insieme ad altri giovani salesiani fu internato perché deciso a consacrare la sua vita a Dio. I giovani furono tutti presto liberati, ma senza possibilità di essere ordinati sacerdoti nella loro patria. Perciò Anton tentò di raggiungere Torino per continuare i suoi studi di teologia. Ma fu catturato al confine e condannato, senza processo, a dodici anni di carcere. Portato in isolamento nel carcere di Leopoldov, cominciò la sua discesa nel tunnel: una cella piccolissima, «larga appena da poter stendere le braccia», massacranti turni di lavoro, carcerieri pronti a sparare e cani da guardia. Ogni mattina la paura di essere svegliati dalle urla dell’ultimo impiccato».
Una compagnia in catene
eppure libera
Alcuni mesi dopo, Anton fu trasferito nel campo di concentramento di Jáchymov. Lì fu costretto a lavorare per dieci anni nella vicina miniera di uranio, in condizioni disumane, fino all’amnistia del 1960. «Eravamo circa duecento ragazzi di diversi ordini religiosi: salesiani, lazzaristi, verbiti, gesuiti. Come cantavamo allora “siamo l'esercito di Cristo e il nostro vessillo è la croce”! Vivevamo praticamente come Chiesa segreta, con un grande desiderio che quella schiavitù fosse di beneficio all’umanità e paradossalmente, come per miracolo, potesse allacciarsi al progetto di costruzione di un mondo più giusto. Tutte le sere, a gruppetti, sedevamo insieme, parlavamo e costruivamo il ponte della speranza, partendo dai ricordi e arrivando al futuro che attende anche noi alla fine di questo tunnel. Non dobbiamo arrenderci, non dobbiamo cedere al pessimismo, neppure ai miraggi di libertà al prezzo del tradimento. È meglio lasciar agire Dio e credere che solo lui può servirsi della nostra presenza in quest'ambiente come testimonianza del suo amore. Ci troviamo in una stazione di missione ideale».
Nella solidarietà e nella condivisione della sofferenza, si formò una fraternità, in catene eppure libera. «A volte in cella preghiamo, anche a bassa voce, e la guardia ci sente. Subito inizia a dare calci alla porta: “Smettetela!”». Tra i segreti del lager vi erano le messe celebrate clandestinamente nelle profondità della miniera e il rosario. «Appendiamo le lanterne al muro; un asciugamano sulle scale; un pezzo di pane e del vino in un flaconcino per medicinali; una Bibbia tascabile… “Andate in pace! Portate pace e benedizione ai vostri amici… In quest'inferno di rocce fredde, macchine assordanti e uomini impazziti portate la vostra testimonianza di verità, pazienza e bontà”.
Ci congediamo con le lacrime agli occhi. La fede ci dà la forza di vivere con dignità e pienezza, anche dietro le sbarre e in catene. Nell'umiltà, l'uomo in uniforme da detenuto, a chissà quanti metri di profondità, lontano da tutto e da tutti, muta in un nuovo uomo di qualità, più simile a Cristo».
La speranza condivisa
si raddoppia
Nelle miniere accadeva spesso che trivellando, si trovasse l'acqua. A volte la punta allargata della corona della trivella restava bloccata. Colava acqua dappertutto. Ad ogni scoppio di dinamite per aprire la roccia e davanti agli occhi di quegli uomini umiliati, magri fino all’osso, si presentava «uno spettacolo di cui pochi uomini possono parlare. Una massa enorme di cristalli policromatici. Una bellezza superiore alla grotta di Lourdes. E noi laggiù, in quello spettacolo d'abisso, vedevamo la nostra madre celeste. Eppure non si viveva di bellezza, ma di uranio e di sudore. E i carcerieri moltiplicavano il lavoro e lo rendevano sempre più difficile per sottrarci il tempo di pensare».
La vigilia di Natale, da dietro i tetti alti dei palazzi della giustizia, Anton e i suoi compagni sentivano le parole dell'Astro del Ciel. Si facevano gli auguri, sperando di passare il Natale successivo in libertà. «Mai più di allora – ricorda Anton – pregai così tanto a Natale. Imparai che il Natale può essere sereno e pieno di gioia anche in un ambiente drasticamente povero. Mi sentivo colmo di pace e di amore, immobile come una statua, felice, perché Dio mi ama. Egli era dentro di me ed io ero dentro di Lui». Il giovane “aspirante salesiano” si sentiva fortunato anche per il sostegno dei suoi compagni.
«Bastano due parole e mangiare insieme un misero boccone; due ricordi di libertà, della gente di casa. La speranza comune si raddoppia. La silenziosa preghiera comune ridà forza».
Spesso Anton e i suoi compagni, educati nella formazione religiosa, riflettevano sulla volontà di Dio, cosa può Dio permettere, come e perché. Un giorno Jàn, ex gendarme, che si era fatto loro amico, disse: «Ragazzi, non parlate eccessivamente del Signore Dio. Non bisogna filosofeggiare più di tanto su Dio. Dio deve essere visibile in te. Poi sarà tutto in tutto, Colui che ci dà l'estate e l'inverno, salute e malattia, prigionia e libertà, vita e morte, ma alla fine, alla fine vincerà la luce, la vita, la libertà».Sono momenti che illuminano la vita, tanto da essere poi capaci di camminare anche da soli, anche al buio, anche lungo la via del Calvario.
Futuro e
libertà
Anton uscì dal lager di Jáchymov con l’amnistia del 1960: lavorò come operaio, studiando teologia di nascosto. Solo nel 1969 incominciò un periodo di maggiore libertà, quindi, conclusi gli studi, nel maggio del 1970 fu ordinato sacerdote a Roma da papa Paolo VI. Tuttavia, fino alla caduta della cortina di ferro del 1989, rimase un perseguitato.
Anton Srholec, oggi, ultraottantenne, vive a Bratislava dove si occupa dei senzatetto: «Hanno perso la casa e hanno bisogno di qualcuno che offra loro una dimora e un cuore aperto».
Ricordando la liberazione del maggio 1960, Anton così racconta: «Iniziai a ringraziare Dio perché ero vivo, perché ero stato salvato così tante volte, perché ero rinato. Ringraziavo Dio per la forza che m'aveva dato, affinché io potessi sopportare tutto quello che avevo passato, senza spezzarmi. Ringraziavo Dio per gli amici. Pregavo Dio di perdonare i nostri persecutori… Durante la notte approdai nella mia Skalica, oggetto di tanti miei sogni. Dopo dieci anni, la mia casa, di fianco al ruscello. I genitori che piangevano di gioia. Un figlio che era morto, ora è risuscitato, era perduto e ora è stato nuovamente ritrovato.
La libertà e il nostro futuro non sono mai quello che sogniamo. Ma resiste una certezza: questo sistema che affligge e distrugge i propri figli e le proprie figlie ha un solo e unico destino: cadrà. Quando anche la violenza si sarà stancata, la gente crescerà e capirà che anche in questa nazione e in questo tempo si può vivere liberi».
Sensazioni di gioia… benedizione e testimonianza del fatto che quando l'uomo non s'arrende, Dio lo riporta alla luce anche dagli abissi più profondi.
Anna Maria Gellini