Giacomo Canobbio
Crisi e interrogativi
2014/11, p. 31
"Cosa vorrà farci capire il Signore in questa congiuntura"? Difficile rispondere. Almeno un aspetto tuttavia pare si possa prendere in considerazione: potrebbe essere uno stimolo a recuperare il senso originario della VR?

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Riflessione per l’Anno della vita consacrata
CRISI
E INTERROGATIVI
"Cosa vorrà farci capire il Signore in questa congiuntura"? Difficile rispondere. Almeno un aspetto tuttavia pare si possa prendere in considerazione: potrebbe essere uno stimolo a recuperare il senso originario della VR?
Sintomatico che papa Francesco indichi un anno dedicato alla vita religiosa. Da quando il concilio Vaticano II ha prestato attenzione in forma singolare a questa forma di vita cristiana sembra si constati una perdita di interesse per essa. Lo si riscontra già nel linguaggio: si è infatti abbandonata la dizione "vita religiosa" per assumere "vita consacrata" interrompendo una tradizione plurisecolare.
Anche il Sinodo del 1994 si è adeguato a tale linguaggio che denota la trasformazione intervenuta nella vita ecclesiale: si sono moltiplicate le forme di vita consacrata e la tradizionale vita religiosa è diventata una modalità di questa. Guadagno o perdita? Se si presta attenzione alla situazione delle congregazioni e degli ordini religiosi si dovrebbe concludere che è una perdita.
Alle origini
della crisi
Ovvio che non dipende solo dal mutato linguaggio. I fattori che hanno provocato la crisi generale della vita religiosa sono molteplici; tra di essi va annoverata anche la diminuzione della popolazione giovanile, almeno nei paesi che avevano visto la nascita degli istituti religiosi. Ma se fosse solo questo il motivo, si dovrebbe registrare un aumento globale delle vocazioni a questa forma di vita nei paesi del Sud del mondo dove la popolazione giovanile è ancora numerosa.
Colpa della secolarizzazione? Nei decenni scorsi “secolarizzazione” era diventata la categoria interpretativa più comune per leggere gli orientamenti culturali delle nostre società. Da tempo però i sociologi l'hanno abbandonata perché vi sarebbe in atto un dislocazione della ricerca religiosa, benché con essa si attui una forma di scristianizzazione con la conseguente diminuzione di interesse per Gesù Cristo e per le forme di vita che a Lui si richiamano statutariamente. Pur ammettendo che questo sia uno dei fattori da tenere in considerazione, ci si può domandare se tra gli elementi che hanno determinato la crisi si debba porre una malintesa riforma della vita religiosa. Si sa che il Vaticano II con il decreto Perfectae caritatis aveva indicato percorsi per attuare tale riforma. Si ha però l'impressione che in molti casi questa è stata intesa come alleggerimento degli stili di vita. Va riconosciuto che alcune pratiche creavano storture di personalità e quindi dovevano essere riviste quando non eliminate. Obiettivo del rinnovamento era però quello di far vivere in maniera più lieve e insieme più radicale la consacrazione al Signore. La testimonianza dei religiosi doveva assumere valenza profetica, essere di stimolo a tutti i cristiani a vivere con maggior entusiasmo il Vangelo, come scriveva la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium al n. 44. Guardando a ritroso si ha l'impressione che in nome della valorizzazione delle persone si sia arrivati ad alcune forme di vita senza smalto, incapaci di attrarre e di stimolare alla ricerca di Dio. Per di più, molti servizi che i religiosi prestavano alla società e alla Chiesa sono stati assunti dalle organizzazioni statali e/o dai fedeli laici. In buona parte i religiosi avevano sviluppato attività assistenziali ed educative che supplivano alle carenze statali. In ambito propriamente interno alla Chiesa il sorgere dei cosiddetti movimenti ecclesiali ha mostrato che molte opere un tempo sostenute dai religiosi potevano essere assunte da laici a volte meglio preparati in corrispondenza alle esigenze delle norme legislative sempre più complicate. Segno dei tempi di cui prendere atto? La vita religiosa soprattutto nella sua forma apostolica si è sviluppata soprattutto nel secolo XIX e nella prima parte del XX. Le trasformazioni sociali che avevano provocato la fondazione di Istituti religiosi (qualche critico interpreta le numerose fondazioni come epifenomeno della rivoluzione industriale) hanno provocato la crisi non tanto della vita religiosa in sé bensì di quella apostolica perché non si è più vista la necessità del servizio che essa svolgeva. E non si può prevedere che nel prossimo futuro ci sia un'inversione di tendenza. Anche i paesi che pochi decenni fa facevano ben sperare incominciano a manifestare segni di crisi.
Cosa vorrà farci
capire il Signore?
Qualcuno si domanda: "Cosa vorrà farci capire il Signore in questa congiuntura"? Difficile rispondere. Almeno un aspetto tuttavia pare si possa prendere in considerazione: non potrebbe essere uno stimolo a recuperare il senso originario della vita religiosa? I documenti magisteriali degli ultimi decenni hanno cercato, a volte in forma poetica, di tracciare il valore di essa. C'è però da domandarsi se quanto in essi scritto sia sostenibile da persone abituate a vivere la loro esistenza nella prospettiva prevalentemente sociale. Nulla da eccepire sul valore di questa. Ma pare che essa non riesca più a dare senso a una scelta di vita. Peraltro una prospettiva di vita religiosa in buona parte funzionale ai problemi della società, benché continui ad avere riconoscimenti per la supplenza che svolge, non lascia trasparire che la dedizione ivi vissuta sia anzitutto per il Signore inteso come sommo bene. Ovvio che tutto può essere fatto nel nome del Signore, ma nella vita apostolica dedita alle opere sociali ciò che tende a restare nascosto è “il nome del Signore”.
I religiosi e le religiose immersi nelle opere di assistenza denunciano frequentemente la difficoltà a trovare tempi per la meditazione e la preghiera, momenti privilegiati della ricerca di Dio che secondo la regola di san Benedetto dovrebbe costituire la ragione della scelta della vita religiosa. Immaginare pertanto una vita religiosa solo contemplativa? Cancellare quanto è nato nel corso dei secoli sarebbe insipienza. Forse si dovrebbe tenere conto di differenze ambientali. Se in Africa, Asia, America latina, dove la condizione sociale delle popolazioni corrisponde in buona parte a quella dell’Europa del secolo XIX che ha visto nascere buona parte degli istituti di vita attiva, si potranno mantenere forme di vita religiosa sul modello di quelle che ora stanno tramontando, in Europa si potrebbe pensare a forme nuove, più esposte sul versante dell’evangelizzazione.
Vita religiosa
e primato di Dio
Lo scopo della vita religiosa è affermare il primato di Dio non solo per qualcuno, bensì per tutte le persone. Tale primato non è visto in ogni luogo allo stesso modo: negli ambienti scristianizzati la richiesta pare essere quella di una testimonianza più trasparente di Dio come principio e meta dell’esistenza; negli ambienti nativamente ancora aperti alla trascendenza, la richiesta pare resti quella di mostrare la cura di Dio per chi fatica a vivere con dignità. Si può certamente obiettare che anche in Europa la povertà è presente. Si dovrebbe però anche tenere conto che si tratta di una povertà indotta non da circostanze ambientali avverse, bensì dalla dimenticanza di Dio dalla quale derivano ingiustizie, disuguaglianze, inimicizie, che hanno poi ripercussioni anche sui paesi più poveri. Non si può dimenticare che originariamente la vita religiosa è sorta come forma di contestazione a una Chiesa che rischiava di mondanizzarsi. Oggi, senza cadere in sterili pessimismi, ci si potrebbe domandare se non si assista a una mondanizzazione della vita religiosa. Va riconosciuto che le nuove generazioni di religiosi appaiono più fragili e hanno bisogno di supporti anche psicologici. Ma si avverte sempre di più che ci si affida più a questi che non a una seria formazione ‘spirituale’ nel senso alto del termine. Ovvio che non si può costruire una vita impegnativa come richiederebbe la scelta religiosa senza corrispondenti strutture solide di personalità.
Formazione e
accompagnamento psicologico
Resta però aperto l’interrogativo se queste si acquisiscano con lunghi percorsi di accompagnamento psicologico o non piuttosto con una educazione “spirituale”. A volte si ha l’impressione che nella formazione dei formatori si proceda ancora con una visione ormai ritenuta superata in teologia: quella dei due piani sovrapposti, l’umano e il cristiano. Si tratta di una visione antropologica che aggiunge lo Spirito a una forma umana già pronta a riceverlo, dimenticando che secondo il Nuovo Testamento è lo Spirito a modellare l’umano secondo Gesù. Sottovalutazione delle scienze umane? Tutt’altro! Piuttosto riconduzione di queste al loro limite nel valutare il quale si deve ricordare quale sia l’humus nel quale tali scienze sono nate e che non hanno mai perso. Visione spiritualista che scavalca l’umano? O non piuttosto riconduzione della realizzazione dell’umano all’esemplare che è Gesù? Se ci si attesta su un umano valutato con il metro delle psicologie, le persone non riusciranno a vedere la propria realizzazione quando dovranno mettere in atto l’ascesi, quando non potranno scegliere il servizio, il luogo, la comunità, che loro piace. Si rischia così di costruire esistenze meno esigenti se rapportate a quelle della gente comune, costretta molte volte ad accettare lavori, luoghi, compagnie tutt’altro che gratificanti.
Si ripropone una concezione doloristica della vita religiosa? O non piuttosto una visione che prende sul serio il termine “radicalità evangelica” con la quale con un po’ di retorica si descrive in genere la vita religiosa? Anche a questo riguardo varrebbe la pena prestare attenzione alla mutazione del linguaggio. L’espressione “radicalità evangelica” tende a retrocedere a fronte di “nuova consacrazione”, che di per sé vorrebbe rimandare alla prima consacrazione, quella del battesimo, ma espunge ogni richiamo alla sequela di Cristo che comporta il prendere la croce. Se un po’ brutalmente ci si domandasse cosa colgano di radicale le persone normali nei religiosi, cosa si potrebbe rispondere? Che non hanno una propria famiglia, che non possono scegliere dove e con chi stare, che non hanno proprietà personali e devono dipendere da altri per qualsiasi cosa. Tutto vero. Ma se si presta attenzione alla realtà, si scopre che ai religiosi non manca nulla in termini di lavoro, casa, assistenza, che hanno più autonomia di un padre e di una madre, che hanno nel loro lavoro in genere maggiori possibilità di protagonismo, che possono permettersi le giuste ferie, formazione, aggiornamento. Sacrosanto. Magari fossero possibili a tutti tali cose! Le si ricorda solo per mettere in evidenza che la radicalità a volte sono costrette a viverla le persone normali più di quanto non la vivano le persone che l’hanno scelta. Quadro fosco e ingiusto quello qui descritto più per allusioni che per illustrazioni? Non potrebbe essere invece stimolo a un esame di coscienza in vista di un recupero del senso originario della vita religiosa? Non sappiamo quale sarà il futuro delle forme tradizionali di vita religiosa. Di eterno c’è solo Dio e quindi tutto può scomparire. Ma l’iniziativa di dedicare un anno alla vita religiosa non potrebbe essere l’occasione per una verifica dell’effettivo rinnovamento di essa nella linea della testimonianza del primato di Dio nelle periferie esistenziali, dove Dio sembra assente perché di Lui si pensa si possa fare a meno?
Giacomo Canobbio