Giuseppe Crea
Il di più viene dal maligno
2014/11, p. 27
Quando le parole feriscono il cuore del fratello, quando le “chiacchiere di corridoio” si tramutano in pregiudizi che etichettano la diversità dell’altro, possiamo ben parlare di “chiacchiericidio”!

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Il rischio di un chiacchiericidio che lascia senza parole
“... IL DI PIÙ
VIENE DAL MALIGNO”
Quando le parole feriscono il cuore del fratello, quando le “chiacchiere di corridoio” si tramutano in pregiudizi che etichettano la diversità dell’altro, possiamo ben parlare di “chiacchiericidio”!
La “parola” è un bene grande, il mezzo comunicativo per eccellenza, è la via che permette di intessere i rapporti con gli altri; ma, allo stesso tempo, può essere causa di sofferenze, incomprensioni e lotte, quando viene usata male. Una parola può curare come ferire, può sollevare come mortificare. Se le persone riconoscessero il valore che ha la parola, e di conseguenza potessero gestire il loro modo di comunicare, i loro rapporti sarebbero molto diversi. Anche nella vita consacrata la parola diventa occasione di conoscenza e arricchimento reciproco se è vissuta come condivisione del bene comune, ma può diventare motivo di marginalizzazione e di isolamento quando è impoverita del suo significato profondo.
Il significato
della ”parola” donata
La consapevolezza di trasferire alla parola un significato comunicativo nasce nel momento in cui l’individuo tenta di riempire la “parola” e le “parole” di un preciso valore, superando l’aspetto funzionale e riscoprendone il significato relazionale, per far arrivare qualcosa di più della semplice informazione, richiesta o qualsiasi altra motivazione.
Nella vita consacrata c’è urgenza di questo passaggio dalle tante “parole” ad una “comunicazione” che sia vincolo di fraternità e di corresponsabilità, per un comune progetto apostolico.
Le difficoltà emergono quando non si facilita questo passaggio. Soprattutto quando viene «favorita la mentalità di autogestione unita all’insensibilità per l’altro, mentre lentamente si vanno ricercando rapporti significativi al di fuori della comunità»<p> <i>Vita fraterna in comunità</i>, n. 32. <p/>.
È il caso di quelle persone che fuori dell’ambiente comunitario sono vivaci, estroverse, considerate veri specialisti della comunicazione, mentre all’interno sono silenziose, taciturne, facilmente pronte a delegare ogni responsabilità e a parlar male degli altri.
Quando le parole vengono distorte da questi vissuti non bastano le buone intenzioni per ripristinare una comunicazione che crei rapporti autentici. Occorre tornare a riscoprire la centralità di una Parola intesa come dono, che motiva interiormente ogni consacrato ed ogni consacrata ad essere testimone non di parole vuote, ma di esperienze di vita!
Il rischio del “chiacchiericidio”
nella vita consacrata
La comunicazione sofferta all’interno di tante comunità religiose o tra confratelli e consorelle che vorrebbero condividere i loro vissuti ma non ci riescono, dovrebbe far riflettere sull’effetto che le parole hanno quando sono distorte da finalità individuali, soprattutto quando lacerano i rapporti anziché creare comunione. Non è raro che una parola fuori posto possa troncare non solo la voglia di parlare, ma anche la relazione. Quando le parole feriscono il cuore del fratello, quando le “chiacchiere di corridoio” si tramutano in pregiudizi che etichettano la diversità dell’altro, il suo carattere, la sua cultura, il suo modo di essere, possiamo ben parlare di “chiacchiericidio”!
Durante un workshop di formazione permanente sull’ascolto attivo nelle comunità religiose, era circolata questa domanda: “secondo te, perché le persone sparlano alle spalle?”. Le risposte sono state davvero sorprendenti. “Per accreditarsi tra gli ingenui del gruppo”, “per paura di dirti le cose in faccia”, “per alimentare il proprio amore ferito”, o ancora “perché è ciò che più li tiene in vita”… Una delle risposte però ha colpito più delle altre:
“Bella domanda! Sono stata vittima di moltissimi pettegolezzi nella mia lunga esperienza di vita religiosa. E mi sono sempre detta: è importante saper reagire, per non restarne imprigionata. Anche perché mi sono sempre accorta che chi parla alle spalle non sa proprio niente di te, sono persone che, se iniziano a giudicarti superficialmente, non provano nemmeno a sbirciare al di là del loro naso senza incominciare immediatamente a storcerlo.
È brutto parlare alle spalle. Non sempre però si riesce a reagire, ho conosciuto persone che ci rimangono malissimo, e diventano fragili ed insicure. Però è vero: la mia vita di consacrata è continuata anche quando c’erano delle chiacchiere in sottofondo, che suonano così stridule e prive di realismo!”.
“Però le cose ti rimangono dentro, le ha risposto un giovane religioso che l’ascoltava con attenzione, e non è vero che le ferite si rimarginano, sei tu che impari pian piano a conviverci. Nella vita incontrerai tante persone che sparleranno alle spalle e che si inventerebbero di tutto per continuare a farlo, ma come fai a farle smettere? L’unica che può cambiare sei tu. Le eviti…, o le attacchi. Ma se lo fai prima o poi ti si ritorcono contro…”.
Si potrebbe pensare che queste siano delle eccezioni, persone che forse hanno vissuto delle difficoltà particolari nelle loro comunità. Può darsi, ma se facciamo attenzione alle tante situazioni comunitarie, ci dovremmo ricredere. Ci accorgeremmo che le chiacchiere e il chiacchiericidio non sono delle eccezioni ma una realtà da prendere sul serio, soprattutto quando il divario tra la Parola che salva e il modo di comunicare diventa troppo grande.
È una questione talmente seria che più volte è stata oggetto di riflessione sia di Benedetto XVI che di papa Francesco. In una udienza generale Benedetto XVI metteva in guardia dalle parole che possono colpire e distruggere la dignità della persona: «Una libertà che non rispettasse la libertà degli altri e non trovasse la comune misura delle nostre rispettive libertà, diventerebbe anarchia e distruggerebbe l’autorità. Il dialogo che non sa più su che cosa dialogare diventa una chiacchiera vuota»<p> Benedetto XVI, <i>Udienza generale Piazza San Pietro</i>, 25 giugno 2008.  <p/>.
Parlare non vuol dire sentirsi liberi di dire quel che si vuole al punto da offendere l’altro. Le parole che non fanno comunione diventano una chiacchiera vuota e senza senso. Può avere qualche riferimento utile per le comunità religiose? Forse sì, quando ci sono persone che si sentono in diritto di dire l’ultima parola, una parola che però non chiarisce né crea reciprocità di ascolto e arricchimento, ma, al contrario, intende sopraffare l’altro, distruggere, annientare.
Proprio su questo potenziale distruttivo delle chiacchiere nella Chiesa si sofferma papa Francesco: «Ogni volta che giudichiamo i nostri fratelli nel nostro cuore, o peggio quando ne parliamo con gli altri, siamo cristiani omicidi. […] E questo non lo dico io, ma lo dice il Signore». E poi per sottolinearne la gravità aggiunge: «Su questo punto non c’è posto per le sfumature: se parli male del fratello uccidi il fratello. E ogni volta che facciamo questo imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida»<p> Papa Francesco, Meditazione nella cappella Sanctae Marthae, <i>Dalle chiacchiere malevole all</i><i>’</i><i>amore verso il prossimo</i>, 13 settembre 2013, (da: <i>L</i><i>’</i><i>Osservatore Romano</i>, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 210, Sab. 14/09/2013).  <p/>.
E se non fosse abbastanza chiaro, che sparlare danneggia mortalmente l’altro, senza mezzi termini così si esprime: «Questo succede ogni giorno nel nostro cuore, nelle nostre comunità», ogniqualvolta si accoglie l’altro parlandone bene il primo giorno e poi sempre meno sino ad arrivare a “spellarlo” a suon di pettegolezzi. E poi ha aggiunto: «Noi siamo abituati alle chiacchiere, ai pettegolezzi» al punto da trasformare le nostre comunità o la nostra famiglia in un “inferno”, dove si manifesta questa particolare forma di “delitto” che porta a «uccidere il fratello e la sorella con la lingua»<p> Papa Francesco, Meditazione nella cappella Sanctae Marthae, <i>La minaccia del pettegolezzo</i>, 2 settembre 2013, (da: <i>L</i><i>’</i><i>Osservatore Romano</i>, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 200, Lun. - Mart. 2-3/09/2013). <p/>.
Anche in questo caso ci potremmo chiedere: il suo ammonimento vale anche per le comunità religiose? Le parole del papa fanno capire che non è solo questione di perdere la pazienza o di lasciarsi sfuggire una parola di troppo. È molto di più, soprattutto quando è lo stile relazionale che viene distorto, casomai partendo da una comunicazione iniziale ben intenzionata e gentile, per poi arrivare a parole che “spellano” l’altro creando un clima di martellante pettegolezzo.
Cinque condizioni
che facilitano il chiacchiericidio
Come avviene questa deformazione dello stile comunicativo? Vediamo alcune condizioni che, dal punto di vista psicologico, facilitano tale passaggio.
Anzitutto, quando viene accentuato un atteggiamento soggettivo che porta ad assegnare significati personali alla realtà, anziché percepirla così com’è. Ciò succede quando le persone tendono ad assolutizzare il senso delle loro parole, delle loro opinioni, del loro modo di pensare. Questo non facilita la recezione dei messaggi, ma alimenta i pregiudizi e i preconcetti.
Secondo, quando si tende a deformare le parole dell’altro, a partire dal proprio ruolo o dalle proprie esperienze. Il ruolo, la formazione ricevuta, le sicurezze del passato, la cultura di appartenenza, sono tutti elementi che possono deformare la recezione delle parole dell’altro, a partire dalla convinzione che la propria visione della realtà è quella giusta!
Terzo, la tendenza a fermarsi al significato razionale delle cose dette, senza coglierne anche il significato psico-affettivo. Fermarsi al solo contenuto “intellettuale” delle parole non permette di vedere le alternative presenti nella comunicazione, né aiuta a cogliere il significato relazionale di quanto detto.
Quarto, quando la comunicazione è superficiale, quando cioè le persone parlano, parlano…, ma allo stesso tempo sono concentrate su altro. Lo chiamano multitasking, la tendenza a fare molte cose contemporaneamente, con il rischio di farle male. A volte anche nelle comunità si è presi da troppe cose urgenti da fare, ed è difficile “perdere tempo” ad ascoltare il confratello o la consorella che ci sta accanto.
Infine, l’ascolto “stereotipato”: quando cioè si tende a filtrare ciò che si ascolta dell’altro secondo il proprio modo di vedere le cose, e questo influenza ogni comunicazione successiva. Il nostro modo di pensare o il nostro stesso temperamento sono ambiti nei quali ciò che viene dall’altro assume improvvisamente un significato diverso, quello che noi gli assegniamo. Per cui non appena l’altro apre bocca per parlare, stiamo già pensando: “ho già capito prima che me lo dica!”.
Far tornare la Parola al centro
di ogni relazione con gli altri
Perché la Parola torni ad essere luogo di presenza reciproca occorre fare delle scelte concrete sul proprio stile comunicativo. Attingendo dal linguaggio schietto di papa Francesco, dovremmo ricordare che «un cristiano prima di chiacchierare deve mordersi la lingua»! Altrimenti ci saranno mille ragioni per trasformare il dialogo in monologo.
Le comunità religiose sono il luogo privilegiato per allenarsi a vivere una comunicazione che aiuti a guardare alla diversità del fratello come una occasione di arricchimento reciproco e non come una minaccia da cui difendersi. Per questo occorre anzitutto bloccare ogni linguaggio che semina diffidenza e sfiducia reciproca. Dopo di che sarà possibile parlare in modo diverso e costruttivo.
Soltanto così si impara a sconfiggere ogni tentazione di chiacchiericidio e a ridare alla comunicazione il significato profondo di una presenza relazionale fondata sulla comune «ricerca delle “cose di Cristo”»<p> <i>Vita fraterna in comunità</i>, n. 39.  <p/>. Solo se è centrale ciò che si mette in comune, le parole torneranno ad essere vincolo di una fraternità centrata sulla presenza di Dio. Diventeranno strumento per conoscere e comprendere che le differenze di ciascuno possono arricchire nella misura in cui sono condivise.
Tutto questo però non avviene magicamente ma è un cammino da intraprendere giorno dopo giorno, favorendo un clima di fiducia e di accettazione reciproca, dove ognuno riscopre la ricchezza della diversità dell’altro nei suoi messaggi comunicativi e, conseguentemente, nel suo essere creato ad immagine di Dio.
Crea Giuseppe, Mccj
psicologo, psicoterapeuta