Rino Cossa
La vita religiosa dalla parte dei laici
2014/11, p. 25
Se indicazioni di senso, inteso come “significato” e “direzione”, venissero dai laici? La domanda ci riporta alle origini della vita religiosa che è nata “laica” quando forme di impegno attorno ad un progetto di “vita donata” nacquero dai laici.

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Un ritorno alle origini
LA VITA RELIGIOSA
DALLA PARTE DEI LAICI
Se indicazioni di senso, inteso come “significato” e “direzione”, venissero dai laici? La domanda ci riporta alle origini della vita religiosa che è nata “laica” quando forme di impegno attorno ad un progetto di “vita donata” nacquero dai laici.
Ad una assemblea sinodale del clero di Milano di qualche anno fa, il card. Tettamanzi nell’intervento conclusivo si espresse così: «La Chiesa di Antiochia ha avuto la sua origine dall’annuncio e dalla testimonianza di semplici cristiani, di quelli che oggi chiamiamo fedeli laici. Sono stati i laici, neo-cristiani, che allontanatisi da Gerusalemme, giunti ad Antiochia, diedero inizio ad un nuovo modo di essere Chiesa: una Chiesa degli inizi cresciuta senza gerarchia, con tutta probabilità senza celebrazioni liturgiche, salvo l’osservanza della legge ebraica, al punto da diventare un elemento di stupore e di perplessità per la Chiesa di Gerusalemme. Barnaba vi trova molte cose belle, nuove, impensabili; addirittura stili di vita che neppure Gesù aveva promosso, quale la convivenza con i pagani. E scopre valori di simpatia, di attenzione e di amore reciproco tali, per cui dice: Qui c’è lo Spirito di Gesù». Continuava poi il card. Tettamanzi: «non sarà né la prima né l’ultima volta nella storia della Chiesa».
Ogni tanto la storia
va ricominciata
A metà del secolo scorso la consapevolezza che la vita evangelica avesse bisogno di novità e di una ventata di aria fresca è appartenuta solo parzialmente ai religiosi, per cui questi non si sono sentiti sfidati ad essere parte viva delle trasformazioni. Sono stati ancora e soprattutto i laici, con intuizioni e iniziative nate al di fuori di tutti i progetti di riforma avanzati dalle autorità ecclesiastiche e dai pensatori della VR, a presentare identità diverse di vita evangelica a partire da nuove istanze antropologiche ed ecclesiologiche. Qui è interessante vedere come le diffidenze della Chiesa e della VR, nei confronti di un modo laicale di vivere i valori evangelici, siano dovuti quasi per gli stessi motivi di cinquecento anni fa. Il rifiuto, allora, verteva sul fatto che (nel linguaggio del tempo) «molti da diverse condizioni di vita venissero in un loco a fare ragionamenti spirituali, ch’ allora era uno linguaggio novo et incognito, tra i quali erano persone laiche, e non solo si faceano ragionamenti seguiti, ma anco interlocutioni, e risposte (…) et in questo modo egli andava distruggendo quella falsa imaginatione, che la vita spirituale fusse austera e incompatibile con la vita comune».
La vita religiosa
è nata laica
La rilettura del cammino storico della vita religiosa porta a constatare che le prime forme di impegno attorno ad un progetto di “vita donata” nascono inequivocabilmente in modo laico. Gli anacoreti erano laici. Laicali erano fin dal sec XI° gli innumerevoli movimenti miranti alla riforma della Chiesa: gli Umiliati, i Catari, ecc. Laicali erano i modelli di comunità itineranti: Francescani, Domenicani, Carmelitani, Mercedari, Servi di Maria, Agostiniani.
La vita religiosa apostolica, specie dal 1500 in poi, nasce tra i laici, sulla base del battesimo, aperta alle sollecitazioni che provengono dal mondo: lavoro, sanità, povertà, scuola, assistenza, ponendosi dalla parte della gente con una missione che è dell’ordine della rivelazione, “segno” che provoca a ripensarsi continuamente alla luce del Vangelo. A metà del ‘900, gli Istituti Secolari sorgono come vita consacrata «laicale». Ed oggi la quasi totalità delle nuove forme di vita evangelica sono marcatamente e gelosamente laicali.
Se Gesù, «sommo ed eterno sacerdote», è stato un “laico”, nulla di strano che si possa e si debba parlare di laicità anche in riferimento ai suoi discepoli. Il «Figlio di Dio, incarnandosi nella società giudaica del suo tempo – scrive il biblista G.Barbaglio – non ha affatto assunto i connotati di una personalità sacrale ma quelli di un “laico”, e come tale si è comportato». Per realizzare il suo progetto di salvezza ha scelto la via dell’ “incarnazione” consistente nel condividere la vita di tutti, mettendosi sulla strada della solidarietà, strada non lastricata di segni sacri e religiosi, ma “profana”, quella della maggior parte degli uomini e delle donne di questo mondo. Scelse la professione di carpentiere anziché di rabbino. E la sua missione non fu principalmente dentro i confini del sacro, ma nella Galilea fatta di gente per la gran parte povera, religiosamente ed economicamente. Il suo atto sacerdotale per eccellenza, la sua morte in croce alla maniera degli esclusi, è avvenuta nella più radicale profanità fuori del tempio e fuori della città santa. È stata questa, non altro a caratterizzare l’avventura terrena del figlio di Dio. Gesù sapeva di essere stato inviato non per radunare i giusti, i puri, ma per chiamare a raccolta l’intero popolo di Dio, con l’inclusione dei diseredati e peccatori messi al bando, per questo non accetta di separare anzitempo i pesci buoni dai cattivi, il grano dalla zizzania.
Con riferimento ai consacrati/e in Ripartire da Cristo (n.2) si dice: «La società odierna attende di vedere in loro il riflesso concreto dell’ “agire di Cristo”, del suo amore per ogni persona, senza distinzioni e aggettivi qualificanti».
Affievolimento
della connotazione originaria
Il cristianesimo come il monachesimo – scrive Congar – «dopo pochi secoli è stato requisito da una Chiesa che è diventata sempre più clericale e in fondo molto teocratica e anche ierocratica», fino al punto che il laicato diviene sempre più irrilevante dal punto di vista ecclesiale. Era avvenuto che con il passare del tempo, man mano è andata attenuandosi la visione “sovvertitrice” di nuova società proposta da Cristo. Il “tra voi non sia così” ed il “voi siete tutti fratelli” cardini della nuova “ecclesia”, non avevano più la forza di contrapporsi alla visione sacrale delle istituzioni religiose del mondo antico, secondo cui ogni organizzazione sociale era fondata sui due pilastri della “regalità” e del “sacerdozio”. Specie con l’incorporazione della Chiesa nell’impianto imperiale (IV sec.), regalità e sacerdozio si sostennero a vicenda, finché, specie nel medioevo, al clero sembrò ovvio considerare il mondo come diventato ormai tutto Chiesa, entro la quale – si legge nel Decreto di Graziano, (1140) – vi sono due tipi di vita (spirituale e terrena), che determinano due ordini, due specie di cristiani, anzi due popoli: chierici e laici. Se così è, – scrive nel XII secolo Ugo da s.Vittore – «poiché quanto la vita spirituale è più degna di quella terrena, tanto la potestà spirituale precede quella terrena in onore e dignità», di conseguenza «parve chiaro che il potere secolare dovesse essere guidato da quello “sacerdotale”, come strumento al suo servizio».
Queste premesse ideologiche, protrattesi per secoli, portarono Pio X, nel 1905, a pronunciare la condanna della legge sulla laicità dello stato, appena approvata in Francia e nell’ enciclica Vehementer nos il papa sostituì i termini “chierici e laici”, com’era detto nel decreto di Diocleziano, con quelli di “pastori e gregge”, ricordando che quest’ultimo non aveva «altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge i suoi pastori».
Diversamente pensava papa Montini: nei «dialoghi di Paolo VI» con J.Guitton (1967) sono riportate queste sue espressioni: «Si nasconde il fatto che il laico è come un vescovo successore degli apostoli perché la successione apostolica non si riduce soltanto a delle funzioni gerarchiche». Il vescovo teologo B. Forte scriveva: «Una riduzione della componente di laicità al solo laicato non è accettabile. È tutta la Chiesa che deve confrontarsi con il mondo, lasciandosi segnare da esso nel suo essere e nel suo agire. Non c’è un ambito sacro di cui si occuperebbero il clero ed i religiosi/e e un ambito profano di cui si occuperebbero i laici».
In attesa del risveglio
del “gigante addormentato”
Gigante è il “laicato” perché, nella Chiesa “popolo di Dio”, la maggioranza è costituita dallo stato laicale. In prospettiva di futuro – scriveva il noto sociologo A. Ardigò – «l’unica speranza è che il laicato cattolico ricordi di possedere un mandato, lo rivendichi e lo eserciti». E L. Della Torre aggiungeva: «Si è detto che la pace è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali; allo stesso modo la religione è una cosa troppo seria per lasciarla nelle mani dei clericali».
All’interno di uno stato laico non è necessario che si collochi in primo piano il protagonismo dei “pastori”, ma quello dei “laici”, i quali agiscono nella società come gli altri cittadini, realizzando la missione della Chiesa nell’infinita ramificazione dei diversi aspetti che essa assume a partire dalla ricchezza dei carismi che la animano, consapevoli che a fianco della rivelazione della Parola vi è una rivelazione che proviene dalle cose, dall’uomo, dai fatti.
Ora per la vita religiosa si tratta di capire d’essere nel tempo di mutua fecondazione tra laici e religiosi/e e che esaurire l’attenzione nella definizione del confine (identità) tra “noi” e “loro”, conduce unicamente a improduttive spiegazioni gerarchico-legaliste. È arrivato il tempo di una diversa maniera di vivere il carisma della VR, con l’integrarsi nella complementarietà a tutti quelli che lavorano alla costruzione di un mondo più vicino al sogno di Dio; a tutti quelli che credono possibile un altro mondo e impegnano la vita per farlo crescere. I padri conciliari del Vaticano II osservarono che «la forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità effettivamente vissute, e non in una qualche sovranità esteriore esercitata con mezzi puramente umani» (GS 42). Oggi, quindi, senza nulla togliere alla necessaria funzione presbiterale, non sarà primariamente il protagonismo dei “pastori” ma quello dei laici, capaci – nell’ampia ramificazione dei vari aspetti umani – a comunicare la fede come suo primo compito. Tutto ciò viene a dire che una Chiesa non si definisce solo per le funzioni, irrinunciabili, del clero, ma per la sua forza kerigmatica e di comunione. Y. Congar aveva già ricordato che noi identifichiamo troppo spontaneamente i sacramenti con dei riti religiosi; ora nella tradizione cristiana, prima di tutto, sono delle persone a essere sacramenti: Cristo per chi incrociava il suo cammino; il battezzato sulle strade d’oggi. Questa idea è ripresa da vari teologi tra cui Ph. Lécrivain il quale dice che «la sacramentalità non è riservata ad una parte di Chiesa essendo lo scopo ultimo della sua sacramentalità quello di liberare la sacramentalità della vita».
Rino Cozza csj