Mario Chiaro
Monachesimo in uscita
2014/11, p. 16
Alcune nuove comunità monastiche hanno voluto dialogare e pregare insieme, confermando il desiderio di fare rete tra loro, senza tralasciare di coltivare le relazioni con le congregazioni dell’Ordo monasticus tradizionale. Le sfide odierne per le comunità monastiche, antiche e nuove.

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X° Convegno sulla vita monastica
MONACHESIMO
IN “USCITA”
Alcune nuove comunità monastiche hanno voluto dialogare e pregare insieme, confermando il desiderio di fare rete tra loro, senza tralasciare di coltivare le relazioni con le congregazioni dell’Ordo monasticus tradizionale. Le sfide odierne per le
comunità monastiche, antiche e nuove.
Il X° convegno sulla vita monastica organizzato, come di consueto dalla Piccola Famiglia della Risurrezione (Marango di Caorle, VE) e dalla Fraternità di Gesù di Pian del Levro (TN), può essere sintetizzato da una tesi di laurea in architettura, presentata durante i lavori, in cui si rilegge lo spazio del monastero mimetizzandolo nella periferia urbana, proprio dentro una serie di orti pubblici: in questo modo il giovane architetto ha presentato un progetto che cerca di superare la logica del tipico spazio sacro parrocchiale, per creare un luogo dove la vita fraterna può far crescere il Vangelo come accoglienza dei lontani e degli indifferenti. I partecipanti − ai membri dei monasteri organizzatori si sono aggiunti i rappresentanti dei Camaldolesi di Fonte Avellana (PU), della Fraternità di Nazaret (BO) e della Piccola Famiglia dell’Annunziata (Montesole) – hanno accolto questo studio accademico come un’icona particolarmente adatta a illustrare il tema prescelto: Una Chiesa in uscita: comunità dal cuore aperto.
Alcune nuove comunità monastiche (in Italia sono una trentina, molte delle quali “diocesane” senza esenzione dall’autorità episcopale) hanno voluto dialogare e pregare insieme, confermando il desiderio di fare rete tra loro, senza tralasciare di coltivare le relazioni con le congregazioni dell’Ordo monasticus tradizionale (oggi si contano circa 60 monasteri maschili e 120 femminili). Con strutture più modeste del passato e perciò più agili, queste realtà religiose sono alla ricerca di nuovi equilibri (tra autorità e obbedienza, solitudine e vita fraterna, separazione e relazione col mondo, lavoro e preghiera, correzione fraterna e sobrietà), mentre si interrogano sui nodi del discernimento vocazionale, della formazione e dei modi con i quali essere presenti sul territorio. Il convegno ha confermato l’esigenza di un monachesimo che ripensa le proprie tradizioni senza rinnegarle. Così come i modelli architettonici si modificano per adattarsi ai vari contesti socio-culturali (certosa, cenobio ecc.), così devono fare i monaci nel nostro tempo. L’ascolto attento dei cambiamenti e di specifiche situazioni storiche spinge infatti a uscire: le testimonianze di questo “movimento” interiore ed esteriore sono state offerte da membri della Comunità di Camaldoli e della Piccola Famiglia fondata da Dossetti, accomunati dal desiderio di farsi oggi spazio accogliente in ascolto delle voci dei non credenti o dei credenti di altre religioni.
Dio sollevi
le nostre teste
Alla docente di lingua ebraica Maria P. Scanu è toccato il compito di illuminare la logica dell’uscita con la spiritualità biblica dell’esodo. “Io sono il Signore che vi faccio uscire dal paese d’Egitto per essere per voi Dio”: la manifestazione del Nome ci dice come l’evangelizzazione sia innanzitutto azione di Dio stesso. «Si tratta di uscire da per andare verso e all’origine del movimento c’è sempre Dio, che chiede agli uomini di accompagnarlo e di collaborare con lui». Come Mosè, noi dobbiamo uscire per scoprire il volto di Dio che agisce nello spazio e nel tempo: non un dio cosmico e perciò irraggiungibile, ma una Presenza che si coinvolge nelle vicende umane; una divinità che non è cristallizzata in un luogo, ma si fa vicina al popolo. Occorre uscire da logiche di opposizione o di antagonismo, per entrare nella logica di cooperazione con Dio, il quale indica una via che entra nel mare e raggiunge la terraferma. Le difficoltà maggiori dell’uscita nell’AT sono simboleggiate dal racconto del percorso nel deserto, luogo inospitale e invivibile, ma decisivo per educarsi a discernere la presenza di Dio giorno per giorno (nel procurarsi il cibo, nel fronteggiare i pericoli, nell’assicurare condizioni di futuro per le giovani generazioni ecc.). Si patiscono esperienze di privazione e ancora Mosè qui è modello di “discepolato in uscita”: la sfida è quella di fondarsi sempre sulla relazione con Dio! Con questa prospettiva vanno affrontate le difficoltà che la Chiesa sperimenta oggi nell’uscita: «sono legate al fatto che non si conosce il volto di Dio... le comunità cristiane hanno una visione “sbiadita” di Gesù e quindi una reale difficoltà a entrare nell’evangelizzazione di un Padre che esce continuamente verso tutti». Noi siamo davvero contemporanei e discepoli del Messia? Oggi viviamo come se il Messia non fosse venuto, perché «la luce della redenzione è venuta all’altezza del nostro viso, ma noi siamo piegati sotto il peso dell’esilio». Una Chiesa “esiliata” cade nella depressione e nell’immobilismo, non cresce in umanità e coltiva forme di dissociazione nella vita di fede sia a livello personale che a livello comunitario. Stare in una posizione di retroguardia autoreferenziale apporta solo tristezza e disillusione; uscire come avanguardia profetica rigenera nella gioia, nonostante le ferite, perché si vede il Risorto, perché si vive la contemporaneità con il Messia.
La “Chiesa in uscita”
parte dal concilio
Poste queste premesse, il priore generale dei Camaldolesi, p. Alessandro Barban, è successivamente intervenuto per ricordare che «la Chiesa è in uscita già da cinquant’ anni, cioè dal concilio Vaticano II». Dio ha parlato infatti a due “Mosè”, i papi Giovanni XXIII e Paolo VI, che hanno provocato un’uscita verso quattro nuovi orizzonti: da una sacramentalizzazione senza annuncio a una vita rifocalizzata sulla parola di Dio e sul mistero pasquale; dalla rivelazione intesa come dottrina all’esperienza personale dell’ascolto di una Parola d’amore gratuito; dalla coscienza di una Chiesa come società perfetta a quella di una Chiesa come convocazione del popolo di Dio; dalla paura al dialogo con il mondo. «Ci sono stati coloro che, sulla scia del Vaticano I, dicono che la Chiesa indefettibile deve difendere la verità e la morale e coloro che, usciti dal Vaticano II, propongono due linee: quella della parola di Dio e quella dell’evangelizzazione». L’attuale fase di transizione è segnata da un papa che porta la novità della sua biografia, un papa gesuita che ci porta fuori dal confronto con la modernità eurocentrica, per affrontare una globalizzazione dell’indifferenza e una politica dello scarto. In questo modo, ha detto Barban, «Bergoglio è “oltre” la modernità; non è un papa rivoluzionario perché non pensa né a una riforma del papato né a una decentralizzazione della curia romana». Fedele al mandato, sta rimettendo a posto le cose: «è un papa riformista, fedele al Vangelo e alla coerenza missionaria».
La Chiesa dunque si scopre ancora, cinquant’anni dopo un concilio, come un cantiere che deve aprirsi a una nuova prassi sinodale capace di tenere insieme servizio del papa e dei vescovi, servizio dei laici e dei religiosi. Tre sono gli “spostamenti” provocati da papa Francesco: sul piano antropologico (con l’attenzione realistica all’umanità), sul piano storico (privilegiando le periferie esistenziali) e sul piano ecclesiale (con una conversione degli stili e delle strutture autoreferenziali, che fanno ammalare il popolo di Dio). Per uscire, occorre però che tutti oggi prendano davvero sul serio quattro principi ermeneutici, che il pontefice ha puntualmente offerto nella Evangelii gaudium (nn. 217-237). Sono principi essenziali anche per i monaci: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte. Si tratta di sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia: la vita religiosa (in particolare le sue nuove forme inserite nelle chiese locali) può davvero essere spazio concreto dove si fa esperienza di Dio per ripartire dalla novità del Vaticano II, che consiste nel rimettere al centro la rivelazione di Dio, le persone e la loro vita, la storia dell’umanità nel suo insieme.
La comunità è spazio
di “ospitalità messianica”
Le sfide odierne per le comunità monastiche, antiche e nuove, riguardano la capacità di mostrare una reale fraternità e la capacità di una proposta autentica di formazione. Secondo il priore generale camaldolese, al giorno d’oggi − prima di trasmettere “il nucleo caldo della tradizione monastica” ‒ c’è bisogno di accompagnare nella riformulazione della propria personalità. I pochi nuovi che si affacciano sono avanti negli anni e hanno spesso bisogno di un cammino terapeutico: occorre dunque sviluppare una particolare sapienza nel discernimento, perché nelle realtà monastiche non c’è possibilità di trasferimento (a differenza degli altri ordini religiosi, il principio è quello della stabilitas) e una persona ferita può far saltare tutto il sistema comunitario. Quindi, di fronte alla pluralità di linguaggi e di cammini identitari, dobbiamo praticare quella che il teologo Theobald chiama “ospitalità messianica”: ogni persona infatti esprime una novità che chiede alla comunità un esercizio di ricollocazione e di apprezzamento. «La fatica di un tempo era l’organizzazione, oggi è la decifrazione dell’altro»: ci vogliono monache/i esperti nel discernimento e disponibili a coltivare un autentico stile di interdipendenza, vera matrice del benessere comune. Gesù stesso qui è il Maestro da cui si impara ogni giorno la “santità ospitale”, cioè la concordanza tra ciò che si vive nel cuore e lo stile di presenza agli altri: così ogni nuovo venuto va messo in condizione di conformarsi alla misura di umanità portata da Cristo. Proprio la Scrittura spinge all’uscita per realizzare questa ospitalità senza confini, capace di promuovere le diverse forme che può assumere la maniera di abitare il mondo secondo l’intenzione di Dio.
La vita monastica è insomma “scuola di umanità”, spazio dove si apprende l’arte di tessere un paziente e significativo lavoro relazionale. Su questa base, la preghiera e l’ospitalità superano la superficialità rivelando quella che è una caratteristica fondamentale del monachesimo in tutte le epoche storiche: il non accontentarsi del presente e il coraggio di andare controcorrente. Monache e monaci rimangono infatti nella storia come sentinelle critiche. Perciò un monastero non può ridursi a essere considerato come un “agriturismo religioso”; la sua vita spirituale può e deve essere capace di intercettare le attuali vie antropologiche, suscitando lo stupore di un Vangelo attuale e presente nelle vite di chi lo visita. La buona notizia affascina ancora la società bisognosa di amore! Per questo motivo a Marango lo scambio delle esperienze, ognuna con caratteristiche peculiari, ha confermato che – pur essendo di fatto oggi la presenza del monachesimo quasi marginale dentro la Chiesa – i vecchi e i nuovi monasteri possono ancora essere un punto di riferimento per molti. Se il concilio Vaticano II ha aiutato il monachesimo a riscoprire le sue radici, la vita monastica aiuta la Chiesa a ritrovare la tradizione più viva nella liturgia e nella parola di Dio. Perciò Paolo VI l’ha definita il cuore della Chiesa, perché prendere una certa distanza dal mondo prepara a tornare dentro di esso per ascoltarne le vicende e per indicare le orme di un Dio che, come ci insegna Mosè, è sempre avanti rispetto a noi e ci chiama ad aprire vie sconosciute.
Mario Chiaro