Rocchetti Daniele
Con Dio niente è impossibile
2018/7, p. 8
A un anno e mezzo dalla sua elezione a preposito generale della Compagnia di Gesù, p. Sosa guarda con realismo e speranza alla testimonianza di fede dei suoi fratelli.

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Testimoni
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Intervista a p. Arturo Sosa
CON DIO
NIENTE È IMPOSSIBILE
A un anno e mezzo dalla sua elezione a preposito generale della Compagnia di Gesù, p. Sosa guarda con realismo e speranza alla testimonianza di fede dei suoi fratelli
16.750 membri sparsi in tutto il mondo. Tra questi, 12mila sacerdoti, 1.300 religiosi laici, 2.700 seminaristi e 750 novizi. Ma anche centinaia di Università, scuole, centri di formazione. Sono i numeri della Compagnia di Gesù, l’ordine religioso più conosciuto al mondo, non solo per papa Francesco, primo gesuita, nel corso della storia, a salire sul soglio pontificio. Il trentunesimo superiore della Compagnia, fondata il 15 agosto 1534 a Montmartre da Ignazio di Loyola, è padre Arturo Sosa, il primo “papa nero” il Preposito Generale non europeo. Lo incontro a Borgo Santo Spirito, a Roma, nel palazzo che ospita la Curia Generalizia dei Gesuiti (maggio 2018). Due ore di dialogo all’insegna della franchezza e della passione per il Vangelo.
- Da poco più di un anno e mezzo è Preposito Generale dei Gesuiti. Qual è la sfida maggiore che sente di dover affrontare?
«In questo tempo è quella di essere testimoni del Vangelo in contesti diversi da quello al quale siamo abituati. Il punto di partenza è riconoscere le differenze come rivelazione di Dio. La diversità non è qualcosa di non voluto: Dio si manifesta proprio tramite la diversità e la libertà. Come si può dunque essere testimoni autentici della fede? Un buon modo è quello di proporla e non di imporla, testimoniarla e perseguirla senza attaccamento al potere. È il potere dei segni: essere un segno di attrazione che propone la fede nell’umanità di Gesù, offrendo alle persone l’immagine di un Dio amoroso e misericordioso. Abbiamo quindi bisogno di approfondire la fede. Al contrario, testimoniare diventa impossibile. Per questo sento necessario anche un grande lavoro intellettuale alle spalle. Nel carisma originario della Compagnia abita questa inquietudine di capire, di comprendere cosa veramente capita, come sono le altre culture, le altre religioni, le tendenze economiche, sociali e politiche. Il lavoro intellettuale è qualcosa che, da sempre, ci caratterizza. È una sfida, perché se riconosciamo diversi punti di vista, allora questo lavoro intellettuale ci può portare ricchezza e tanti spunti utili. Grazie a Dio, noi siamo un corpo multiculturale: tutti gesuiti ma tutti molto diversi. E questo è un vantaggio che ci permette di fare esperienza e di capire il mondo in modo più profondo. Se si cerca di comprendere, si può discernere. Per noi, però, il discernimento non finisce qui. Il discernimento ci porta all’azione, bisogna pianificare cosa si fa. Lo ripeto: questa è una grande sfida per noi».
A ciascuno
il suo piatto
- Quanti sono i gesuiti nel mondo?
«Ora come ora, siamo sedicimila, con tantissime istituzioni, fra centri, università e scuole. Le opere apostoliche della Compagnia sono molto apprezzate e sono peculiari della nostra identità. Ma, nel mondo, bisogna sapere non solo cosa si può fare, ma ciò che è meglio fare. Un cuoco può cucinare diversi piatti, ma deve capire quale è il piatto che gli viene meglio. La sua specialità, che, nessuno, può fare meglio di lui. Per questo sostengo che bisogna confidare non solo nell’improbabile, ma anche nell’impossibile. Vuol dire che, se noi abbiamo veramente fede, quello che sembra impossibile ai nostri occhi può diventare possibile. Nulla è impossibile per Dio, dice l’angelo a Maria. Dio è creatore, ma noi siamo stati creati a immagine di Dio, quindi siamo creatori anche noi. Possiamo fare cose nuove, se crediamo che non sia impossibile e non ci autolimitiamo a quello che ci sembra possibile (che è la forza più paralizzante). Se si crede a Dio, niente è impossibile e anche le cose che paiono impossibili, dunque, possono diventare possibili. Certe cose che sembravano impossibili per gli esseri umani del XVI secolo, oggi sono normali e ordinarie. Penso, per esempio, all’andare in ventidue ore dall’Italia all’Australia. Qualcuno ha sognato che ciò era possibile e lo ha realizzato. L’uomo migliora se stesso e la sua vita se pensa che l’impossibile possa diventare possibile. Non bisogna rassegnarsi».
Padre Arturo, qual è lo stato di salute della Compagnia di Gesù?
«Sono solo al mio secondo anno come generale della Compagnia e devo ancora imparare a conoscere bene tutto, anche perché, a parte gli ultimissimi anni, ho sempre vissuto in Venezuela. Ad ogni modo, trovo questo passaggio un’esperienza davvero bella, anche perché la Compagnia è un corpo sano, molto sano. Questo non vuol dire che non ci siano malattie, problemi, casi per cui vergognarsi. Ma sono casi. Del resto, se un corpo ha molti anni, anche se sano, soffre la vecchiaia: qualche capello bianco o qualche capello in meno. Ma il corpo rimane sano. Dico ciò perché se la Compagnia è radicata nel mondo, lo è spiritualmente. Dappertutto trovo gesuiti che sono davvero credenti e che portano avanti una vita autentica. È una grazia. Come non pensare alla società asiatica, dove i cristiani sono in minoranza. Ma proprio qui, trovo gesuiti con una fede generosa e tanta capacità apostolica, liberi di vivere la propria fede in contesti difficili. Bisogna ringraziare il Signore per questo».
Cristiani
senza garanzie
Né rassegnazione né pessimismo, dunque.
«È importante essere consapevoli che il mondo non finisce se la cultura di una nazione o di una comunità cambia. Anzi, può nascere qualcosa di migliore. Noi pensiamo sempre che se qualcosa muta muterà in peggio. Il cristianesimo, in questi ultimi anni, ha più o meno credibilità? Non lo so. Per qualcuno ne ha di più. Un tempo il cristianesimo in Occidente veniva imposto, per ragioni più sociali e sociologiche che per fede sincera. Una volta c’era questa sorta di presupposto dell’essere cristiani. Ma la domanda autentica dovrebbe sempre essere: vuoi veramente essere cristiano? Un tempo, questa domanda non si faceva. Non era ritenuta una domanda pertinente. Quando, quindi, il cristianesimo diventa più significativo? In Occidente, del resto come dovunque, i santi hanno mostrato, con il loro esempio, che vivere il Cristianesimo può essere una splendida esperienza umana. Essere cristiano deve essere una scelta voluta, una scelta significativa. Mi pare, quindi, che questa presunta perdita di credibilità della presenza sociale del Cristianesimo possa aiutare, in un certo modo, a purificare e a farsi una domanda seria: voglio o non voglio essere cristiano?».
- La Compagnia di Gesù come prende sul serio la scelta della povertà?
«Siamo nati con questa dimensione del Vangelo: per essere veramente cristiano, devi essere libero dalla ricchezza. La povertà come miseria obbligata, come impossibilità di vita degna dell’essere umano non ci piace, non è un bene ma un male. Noi non vogliamo questo tipo di povertà e vogliamo aiutare gli altri a liberarsene. Ma la povertà evangelica è collegata alla libertà, ovvero non essere legato al potere e ai beni materiali per poter essere solidali con i poveri. In questo senso noi diciamo che è positivo liberarsi dalla ricchezza. Padre Ignacio Ellacuría martire di El Salvador ha scritto moltissimo sulla civiltà della solidarietà: la vera sfida non è tra capitalismo e socialismo, ma far sì che la civiltà umana sia in grado di condividere i beni che produce. Si dovrebbe lavorare non per arricchire se stessi, ma per contribuire al bene comune».
- La povertà come ha incrociato la sua vita?
«Per me decisivo è stato l’incontro con il Vangelo. Io non sono nato in una famiglia povera. La mia famiglia era ed è una famiglia con i mezzi per vivere. È stata la fede e la sensibilità cristiana che mi hanno spinto a interessarmi ai più poveri, agli emarginati. Un sentimento che, comunque, mi è stato trasmesso dalla mia stessa famiglia. Mia nonna, per esempio, chiedeva i vestiti usati alle sue amiche e li portava a chi vestiti non aveva. È questa sensibilità cristiana che mi ha portato ad aprire gli occhi alla realtà dei poveri, alla realtà concreta. Mi ha portato a voler conoscere, faccia a faccia, le persone. Andare a casa loro, essere ricevuto come un fratello. Quando intrattieni questo genere di relazioni capisci che è questo che, veramente, ti arricchisce e impari a comprendere cosa realmente capita nella società in cui vivi. Mi pare che ciò sia quel che il Vangelo ci aiuta a creare: relazioni fraterne con persone che vivono condizioni difficili, di povertà. Pensi al dramma dell’emigrazione in Europa. Finché non si vede il migrante come un fratello, finché non si conosce il suo nome e la sua storia, si interpreta la sua presenza come una minaccia. Ma il giorno che ci si sforza di conoscerlo, di dare un nome e un volto ad uno di questi ragazzi giovanissimi arrivati con un barcone, dopo chissà quanti chilometri e sacrifici, lo si incomincia a vedere come un figlio e la relazione muta. Si incomincia a comprendere cosa sia la migrazione, cosa significa, cosa vuol dire essere immigrato ed essere accolto. Questo è il grande movimento del Vangelo».
Dalla parte
del crocifisso
- Qualcuno vi accusa di essere di parte.
«Ci dimentichiamo che la Chiesa nasce per essere di parte: dall’incarnazione in poi, da sempre è di parte. Noi, normalmente, contempliamo il crocifisso, ma, forse, quel che sarebbe molto più interessante fare, sarebbe non tanto guardare alla croce, ma guardare dalla croce. Guardare gli effetti delle ingiustizie nel mondo. È, del resto, quel che ci suggerisce il Vangelo: guardate il mondo da qui, voi siete Colui che è in croce. La contemplazione del crocifisso ci deve portare a contemplare il mondo dal crocifisso: il Vangelo e la Chiesa dovrebbero essere sempre da quella parte e molti, proprio per questo, hanno donato la propria vita».
Come giudica le resistenze sempre più evidenti di una parte minoritaria della Chiesa nei confronti di papa Francesco?
«Papa Francesco riceve molte critiche, ma non si spaventa. Al contrario: ritiene che sia bene che queste critiche vengano fuori e siano affrontate, ma non perseguitate o punite. L’importanza data dal Papa alla collegialità è enorme e lui stesso mette spesse volte in dubbio le proprie certezze. Lui ha un certo modo di vivere e capire il Cristianesimo, ma lo mette in discussione, con i vescovi e con tutti i cristiani. Desidera creare spazi comuni fra persone diverse. È molto importante. E la critica, in questo senso, è benvenuta. È questa forma di tolleranza (e di libertà di critica) che mi spinge a dire che ci muoviamo sempre più nel solco del Concilio Vaticano II (anche se la critica è critica proprio verso il Concilio Vaticano II)».
a cura di Daniele Rocchetti