Matté Marcello
Anno del cuore ferito
2018/6, p. 14
Il 14 marzo 2018, in occasione della memoria del compleanno del nostro fondatore, p. Leone Dehon, ha avuto inizio nella Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (dehoniani) l’“Anno del cuore ferito”.

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Testimoni
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Intervista a p. Heiner Wilmer
ANNO
DEL CUORE FERITO
Il 14 marzo 2018, in occasione della memoria del compleanno del nostro fondatore, p. Leone Dehon, ha avuto inizio nella Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (dehoniani) l’“Anno del cuore ferito”.
«Eravamo convinti che il costato trafitto di Gesù fosse l’icona del XXI secolo», dice il superiore generale p. Heiner Wilmer nella Lettera con la quale saluta la Congregazione perché nominato vescovo della diocesi di Hildesheim in Germania. Il cuore ferito «è l’immagine delle fragilità e ferite del nostro tempo. Il cuore aperto di Gesù include e accoglie tutte le ferite fisiche e psichiche, anche le nostre. Prenderle come cosa seria, esporle apertamente, significa prendersene cura e rimarginarle – in maniera umana, carica di comprensione, con una disposizione empatica. Così siamo giunti alla convinta persuasione che la dedizione per gli uomini e le donne affranti, segnati nella loro vita, poteva essere autentica solo se io stesso vedo e sono capace di accogliere la mia fragilità, il mio cuore ferito».
– A quale domanda risponde l’indizione di un Anno del cuore ferito?
Per noi e per me personalmente si vuole, con questa iniziativa, indagare quale sia una nostra possibile risposta al dolore. Al dolore fisico: c’è tanta gente che soffre di malattia, incidenti, invecchiamento, guerra e abusi. Al dolore psicologico: c’è tanta gente che è segnata da piccole o grandi depressioni, persone che si sentono rigettate, non amate, trascurate, che soffrono della rottura di relazioni, o appesantite dal fardello del proprio passato che nel presente può voler dire carcere. Al dolore spirituale: disorientamento, perdita della fede, incomprensibilità del silenzio di Dio; le domande della teodicea sono sempre attuali.
Da una parte la nostra società industrializzata e competitiva premia l’uomo di successo e lo promuove come modello unico; dall’altra, la realtà si presenta più spesso con il volto del fallimento. Che risposta possiamo dare davanti all’esperienza del fallimento, che è più reale del successo? Il fallimento è l’esperienza comune, non il successo. Il cuore ferito dice della serietà con la quale Dio ha preso su di sé, in Gesù, in un’esperienza corporea non come idea, la drammatica realtà del fallimento.
Quali sono le implicazioni teologiche dell’invito a «volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto»?
La prima ricaduta è sulla teologia biblica. Volgere lo sguardo a Colui che è stato trafitto è una cerniera che tiene insieme Antico e Nuovo Testamento.
Matteo 25 propone l’identificazione di Gesù con il sofferente e il bisognoso: «quando mai abbiamo “volto lo sguardo a te” nudo, affamato, senza tetto, triste». Nello stesso tempo, Matteo propone anche l’identificazione del Figlio dell’Uomo con i makarioi, i beati.
Un’ulteriore pista teologica è tracciata da Filippesi 2, uno dei più antichi inni del Nuovo Testamento. Kenosi e incarnazione: Dio “si abbassa” e “prende carne”. Dio non rimane un’idea, ma si rende tangibile, vulnerabile e assume una phisis, una natura che offre la possibilità di essere ferita. Dio pone se stesso nella condizione di dover fare i conti con la possibilità di essere ferito lui pure. Dio non evita l’esperienza del dolore. Nel cuore ferito di Gesù noi possiamo guardare e vedere il Dio raggiunto dal dolore.
Nel Salmo 23 («Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?») quelli che circondano il protagonista lo deridono perché si è fidato di Dio. La critica più forte alla religione, riportata dalla Bibbia stessa, non è l’ateismo; non è la negazione di Dio, ma l’accusa della sua malvagità. Gli empi non negano l’esistenza di Dio, ma deridono il suo operato o, più ancora, la sua “incapacità”, il suo fallimento.
San Paolo all’Areopago vuol essere fedele a Gesù risorto, ma viene rigettato e disprezzato. Anche il testimone di Dio è deriso e umiliato. È un fallimento spirituale e intellettuale. È il fallimento di un progetto.
La Bibbia ci parla dei fallimenti umani, ma anche del fallimento di Dio e del suo progetto.
Duns Scosto, posto in confronto a Tommaso d’Aquino, parla di due modi di conoscere le cose e distingue la cognitio cognitiva e la cognitio intuitiva. La prima è facoltà della ratio, dell’analogia; la seconda fa riferimento a un insight, a una conoscenza dal di dentro, che non si lascia spiegare con sillogismi né equazioni matematiche, eppure esiste, ci tocca, ci coinvolge, e, in definitiva, ci affidiamo ad essa per le decisioni più rilevanti della nostra esistenza. Le scelte d’amore, ad esempio. Si ama qualcuno non per calcolo, ma perché ci si sente attratti, si intuisce il buono che c’è nella persona. La cognitio intuitiva di Duns Scoto apre verso la mistica un varco che la sistematica razionale di Tommaso d’Aquino non era riuscita a sfondare.
Vi è una suggestione ulteriore: la teologia trinitaria. Una dimensione trascurata nella nostra teologia fino al Vaticano II. Lo studio si è occupato di teologia e di cristologia, ma la pneumatologia è stata trascurata. La dimensione che Dio è anche Spirito Santo, che il battesimo è il sacramento fondante e gli altri sono derivati da esso. Il topos della Trinità apre il discorso su Dio non come monos, ma come comunicazione e comunione. Dio è in se stesso comunicazione e comunità. La comunione inizia con due, la comunità ha inizio con tre. Dio è in se stesso dinamica, è creativo, è comunicazione. Noi possiamo guardare a lui e lui rimane toccato dal nostro sguardo e ascolta le nostre domande.
Per dare una risposta alle ferite profonde dell’umanità è necessario poter rivolgere le nostre domande a un Dio che parla, anzi è in se stesso comunicazione. Non un Dio che dia una risposta facile e sbrigativa alle domande complesse dell’umanità, prendere o lasciare. Ma un Dio che ha sfumature in se stesso, è in se stesso un colloquio intrecciato.
Accogliere la complessità e la “coralità” in Dio permette di riconoscerlo come interlocutore aperto alle nostre domande, così come riconoscerlo feribile ce lo accredita come interlocutore credibile.
– Quali sono le implicazioni pastorali di un Anno del cuore ferito?
Primo, l’accompagnamento. In un mondo oltremodo complesso come il nostro dobbiamo prendere le persone sul serio, con rispetto leale per la loro coscienza. Il nostro primo lavoro non è predicare, dando risposte preconfezionate; è essere credenti con gli altri, essere compagni di strada, solidali. I filosofi francesi affermano che la présence è più importante della répresentation. In altre parole, essere presenti, vivi, a fianco di un altro vivente è più importante che inviargli una rappresentazione di noi stessi preconfezionata. La presenza umana porta in se stessa salvezza. Precede la parola e dà significato alle parole. La presenza umana guarisce o meglio aiuta la guarigione.
Una seconda implicazione pastorale: spostare l’accento dalla folla all’individuo. Senza trascurare la folla, il focus ha da essere sull’individuo. Dobbiamo ritornare a Gesù che ha predicato sì alla gente, ma che nella sua opera di guarigione ha incontrato sempre persone: l’emorroissa, il cieco, il sordomuto... Gesù mette fango sugli occhi, tocca con la saliva, si sente toccato da una donna mentre è circondato dalla folla… Gesù non ha mai compiuto guarigioni di massa. Non ha guarito tutti, si è ritirato, si è sottratto alla tentazione della folla che voleva farlo re. Non si è consegnato a un attivismo alla ricerca di grandi numeri. Ha guarito alcuni, dando un segno, una testimonianza anche simbolica per la nostra missione pastorale: fate come ho fatto io.
Una terza linea: la pastorale sia attenta a quelli che falliscono. Non ci si rivolga soltanto a chi “riesce”. La realtà psicologica e sociologica del fallimento, non il successo, sia il paradigma.
La Chiesa si apra di nuovo all’arte contemporanea, questa portavoce e interprete dell’esperienza umana da noi troppo trascurata. L’arte è un sismografo che intercetta i sommovimenti profondi della psiche e della società. Il suo linguaggio è più vicino a ciò che si vive nell’intimo dell’esperienza umana, più della logica. In particolare, più che in altri momenti della sua storia, l’arte contemporanea è in fine sintonia con la sofferenza umana, con il cuore ferito dell’umanità. Il Vaticano II (GS 44) ci dice che l’arte moderna ha una connaturata dimensione profetica. Anche quando ci appare in superficie addirittura blasfema, ci dice profeticamente qualcosa del rapporto fra l’uomo e il mistero. L’arte contemporanea, astratta nella sua dimensione figurativa, è paradossalmente più saldata alla corporeità. Questo è rilevante nella spiritualità del Sacro Cuore. Il corpo umano – un corpo imperfetto e non una sua idealizzazione perfetta e irreale – più che un’idea è un’esperienza. Il mondo delle idee è affascinante nella sua luminosità e perfezione, ma la realtà è quella del corpo che ride, che piange, che suda…
– Quale Chiesa si prospetta a partire dal cuore ferito?
Papa Francesco parla della Chiesa in uscita (EG). Questo è nella simbologia del cuore aperto. Potremmo fare un passo avanti dal cuore aperto al cuore ferito. Vuol dire che la Chiesa non è solo in uscita, ma che ha una destinazione: andare al mondo del dolore. Il mondo del dolore non è solo uno tra i tanti. La nostra prima attenzione sia per la gente che soffre e questa gente sia l’incontro cercato e voluto, non puramente occasionale. Andare al mondo del dolore dà una contribuzione all’umanizzazione del mondo.
Mi viene alla mente un italiano di valenza universale: don Lorenzo Milani. Teologicamente componeva in se stesso Antico e Nuovo Testamento, lui di origini ebraiche, cristiano, sacerdote... La sua Scuola di Barbiana è un prototipo di umanità perché è andato alla persone giovani trascurate, lasciate ai lati senza opportunità, un mondo segnato dalla sofferenza e dall’esclusione a livello sistemico, senza via d’uscita. Ha mostrato solidarietà, ma, e questo è fantastico, ha cambiato la prospettiva dalla quale guardare al giovane. Invece di vedere il giovane come destinatario della sua opera di formazione, lo ha reso soggetto. Nella sua scuola, i ragazzi che avevano 10 anni li ha fatti insegnanti di quelli più giovani. Li ha portati a credere nella gente. «Io ti do qualcosa, ma ho a mia volta bisogno di te; io vedo che tu sei forte, più forte di quanto tu pensi». Noi dobbiamo non solo essere missionari, ma portare la gente a essere missionaria, anche i giovani. La nuova evangelizzazione dovrebbe cominciare con i giovani. Guardare ai giovani non solo come destinatari della nuova evangelizzazione, ma come protagonisti. La Chiesa ufficiale deve avere più fiducia nel mondo dei giovani, azzardando anche forme di sperimentazione.
Il cuore ferito mi invita a costruire una Chiesa che viva più effettivamente la dimensione soteriologica. Nel mondo occidentale, ma un po’ in genere nel mondo cristiano, la comunità ecclesiale, che è comunità di persone, abbia a cuore la vicinanza alla persona più che la tutela dell’istituzione; dedichi le sue energie alla comunione solidale più che all’integrità del sistema, che ha certo la sua importanza, ma è solo uno strumento. L’importante è la persona, farsi presente, farsi prossimo.
In questo contesto soteriologico, la Chiesa riscopra la sua dimensione pneumatologica e si domandi come viverla oggi. Prendere sul serio la fede battesimale vuol dire meno attivismo, più contemplazione e più creatività; credere di più nell’esperienza e nella ricerca di nuove esperienze, non aver paura di sbagliare, non aspettare che tutto sia previsto e programmato. Credere nel vento e nel fuoco dello Spirito Santo; credere nella Pentecoste, il terzo grande momento del mistero dell’incarnazione. Perché è dopo la Pentecoste che noi viviamo.
– Quale vocazione specifica comporta per la congregazione dehoniana la teologia del cuore ferito? In cosa la distingue e la precisa dalle mille altre forme della vita consacrata?
Il “sacramento della solitudine” e la solidarietà come espressione della fede vissuta. Mi spiego. Il “sacramento della solitudine” significa mettersi nella prospettiva della vittima, delle persone che soffrono, abbandonate. Chiunque soffre è in definitiva solo. Il dolore fisico, psichico, spirituale ti emargina in qualche modo, ha sempre a che fare con la solitudine. La solitudine è il modus penitenziale della sofferenza.
D’altra parte la solidarietà come espressione della fede vissuta. E qui entra in gioco paradossalmente la dimensione contemplativa.
L’adorazione, il percorso contemplativo che apre alla mistica, sia nel senso classico (davanti al Santissimo), sia in senso “samaritano” («i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità», Gv 4,23) è come il pontifex maximus tra la solitudine della vittima e la solidarietà nostra. Nell’adorazione mi sento solo, anche se circondato dalla comunità. È un modo di essere alla presenza di Dio anche senza parola, senza scopi programmati, senza schemi preconfezionati. Il frutto di questa contemplazione illumina la mia solitudine e me la rende evidente. Io devo vedere e devo vivere quella mia solitudine per essere capace di comprendere la solitudine dell’altro. Se io non vado in questo pozzo profondo della mia anima non sarò mai capace di comprendere l’altro che soffre, che si sente solo, che fallisce. È questa la base della solidarietà. L’adorazione è un momento nel quale Dio stesso si mette come il Solo davanti a me, solo, e sperimenta anche lui la sua “solitudine”. L’adorazione solidale tocca il suo vertice nel versante mistico e la solidarietà ha il suo frutto sul versante politico, come essere interessati (inter-esse) alla vita dell’altro, ai suoi momenti, ai suoi giorni.
– Qual è la forza – o la debolezza – della riproposta della devozione? Quale può essere la sua forma rispondente alla domanda religiosa attuale, almeno nell’Occidente secolarizzato?
La forza della devozione sta nella sua capacità di toccare il mondo emotivo, il cuore, e sviluppare gli affetti, aprire i sensi. La devozione favorisce la nostra unità olistica. È inoltre un tipo di linguaggio dei sentimenti, che introduce alla mistagogia.
La debolezza si manifesta quando la devozione evita la ratio, la ragione, rischiando così di andare in confusione ed esprimersi in qualche stranezza che, vista da fuori, potrebbe risultare incomprensibile e in-significante. Se alla devotio manca il logos, la profondità della riflessione, può generare caos. Ci vuole argomentazione, saper dare le ragioni della nostra fede.
Quanto alla forma penso a tre punti.
1. Sviluppare la dimensione del silenzio, della contemplazione. A Berlino, nella popolare Unter den Linden, nella Porta di Brandeburgo, di fronte alla famosa Ambasciata americana, c’è una stanza chiamata Raum der Stille (Spazio del silenzio). È una struttura vuota, che vuole esortare i visitatori alla riflessione sulla pace, sullo sfondo delle guerre recenti e delle loro vittime. Tanta gente, tedeschi e stranieri, cristiani, ebrei e musulmani, non credenti entrano in quella stanza. Il silenzio provoca, unisce. A volte il silenzio è “fragoroso”. La dimensione contemplativa è importante anche per noi nella Chiesa, perché corriamo sempre il rischio di cadere nell’attivismo.
2. La Bibbia. Leggere e condividere la Parola, nella sua interezza, Antico e Nuovo Testamento. Dio si è fatto Parola, Dio è comunicazione, è Trinità, è comunione. La Bibbia è nello stesso tempo parola di Dio e riflesso delle esperienze umane. Ad esempio Mosè è figura di profeta che si può leggere come specchio profondo della vita di ciascuno. È più di un esempio, è un paradigma. Come lo è Gesù. La Bibbia mi conduce dentro stanze della mia anima delle quali ignoravo l’esistenza.
3. Il pellegrinaggio. Una forma della devozione dell’Occidente è mettersi in cammino. Quello di Santiago è cammino per antonomasia. Mettersi in cammino è una chiave di lettura dell’uomo moderno. Viviamo in una mondo globalizzato; Internet ti permette in un secondo di essere ovunque. Senza muovere passi eppure tutto è in movimento, tutto è in cammino, perfino frenetico, e fa pensare alla vicenda di Emmaus. Anche noi viviamo dopo Pasqua, come quei discepoli che si sono messi in cammino verso Emmaus. Erano itineranti con i piedi ma anche nello spirito: avevano domande senza risposta, domande vere. Una vita segnata dalla domanda. Qual è la mia domanda? qual è il mio tema? qual è il mio rompicapo? Mettendoci insieme agli altri, condividendo le nostre domande, condividendo il cammino e il pasto la sera apriamo il campo nel quale possiamo trovare luce, come nel famoso quadro di Rembrandt: non c’è più la luce del sole, ma c’è la luce di Gesù. «Ci ardeva il cuore. Non lo abbiamo riconosciuto, ma lui era presente». Il pellegrinaggio è un’esperienza fisica, un omaggio alla corporeità ma anche un omaggio al pensiero teologico pastorale di farsi vicini all’altro, di vivere i momenti antitetici della solitudine e della vicinanza. Camminare nella natura, sentire sulla pelle il calore e il sudore. È sentirsi parte della natura, sentirsi natura dalla natura; io sono adam dall’adamah; io sono mercoledì delle ceneri. Il pellegrinaggio è una forma culturale che rimanda alla figura religiosa del mercoledì delle ceneri. Il pellegrinaggio è una forma della devozione non solo cattolico cristiana, ma anche ebraica, musulmana, buddhista e induista. Tutte le grandi religioni conoscono il pellegrinaggio. Nel pellegrinaggio vedo la sovrapposizione, l’intreccio fra cultura, civiltà e religione.
Il cuore ferito mi restituisce l’immagine del Risorto che si fa incontro ai suoi discepoli disorientati nelle loro domande, nel senso di fallimento che stanno sperimentando; apre loro il cuore e apre il loro cuore; mostra la ferita del fianco e in questa tangibilità della sua vicinanza invita a credere.
a cura di Marcello Matté