Chiaro Mario
Il legislatore e il morire
2018/3, p. 10
Non esiste un diritto a morire, ma neppure l’obbligo di vivere per la potenza della tecnica medica. La relatrice della legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, informa e motiva le disposizioni della legge 219/2017. Fra il diritto “mite” e la sapienza del morire nella nostra società plurale.

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Testimoni
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Intervista all’on. D. Lenzi sulla legge del Fine vita (DAT)
Il legislatore
e il morire
Non esiste un diritto a morire, ma neppure l’obbligo di vivere per la potenza della tecnica medica. La relatrice della legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, informa e motiva le disposizioni della legge 219/2017. Fra il diritto “mite” e la sapienza del morire nella nostra società plurale.
«I vescovi si sono confrontati anche sulla legge relativa al consenso informato e alle disposizioni anticipate di trattamento, giudicata ideologica e controversa, specie nel suo definire come terapia sanitaria l’idratazione e la nutrizione artificiale o nel non prevedere la possibilità di obiezione di coscienza da parte del medico. Nel riaffermare la centralità dell’alleanza tra medico e paziente, il consiglio ha ribadito l’impegno culturale della Chiesa al servizio della vita come pure nella prossimità alla persona esposta alla massima fragilità». Le parole impegnative e severe del Consiglio permanente della CEI (25 gennaio 2018) indicano una recezione preoccupata della possibile deriva giudiziaria della legge. Le reazioni del mondo ecclesiale si sono diversificate sia fra i teologi che fra gli esperti di diritto. Per tutti rimane la sfida positiva per una cultura della vita indicata da papa Francesco nel messaggio alla Pontificia accademia della vita il 17 novembre 2017: assumere il limite della condizione umana, non per procurare la morte, ma accettando di non poterla impedire. Dare la parola al legislatore non significa un consenso alla legge, ma aprire uno spazio di riflessione sui mutamenti sociali e culturali in atto nel paese, comprendere lo sforzo di tradurre i propri valori nell’ambito di una società pluralistica e disporsi a una testimonianza esigente e credibile. (L. Pr.)
I fatti e il diritto
Le questioni legate alla fine della vita suscitano inquietudini e accesi contrasti nella nostra società, abitata da un forte pluralismo morale. In questo scenario di grande complessità alcuni si chiedono se sia proprio utile un intervento dello Stato per disciplinare una così delicata materia. Per qualcuno poi questa legge 219 del 2017 è il primo passo (sarebbe addirittura il suo obiettivo vero) verso una legislazione eutanasica in Italia (vedi ciò che è avvenuto in Belgio e Olanda).
In realtà lei mi pone due domande. Sul fatto se ci sia proprio bisogno di una legge, quando si vede che la giurisprudenza comincia a intervenire sempre più spesso vuol dire che il legislatore deve metterci mano. Dal caso Englaro (2009) in avanti abbiamo avuto più provvedimenti da parte di giudici. Questi provvedimenti provocano incertezze e conflitti, quindi a quel punto intervenire era necessario.
Per quanto riguarda il timore che con questa legge si scivoli verso l’eutanasia, così è denunciato da una parte e dall’altra dei due poli opposti. C’è chi da un lato osteggia la possibilità di scelta per il paziente ed ha ancora un impianto che io definisco “paternalistico” (quello nel quale chi decide è solo il medico), dall’altro lato troviamo chi vuole arrivare all’eutanasia e ha tutto l’interesse ad accentuare questa preoccupazione. Sono due posizioni speculari. In teoria è di tutta evidenza, la distinzione tra lasciar progredire la malattia senza intervenire o invece utilizzare l’iniezione letale. È vero che nella pratica medica dei singoli casi puoi avere delle situazioni limite di confine: noi abbiamo cercato di tenere la barra dritta e di distinguere nettamente, tanto è vero che la sedazione profonda è prevista solo nei casi in cui la morte è già ormai inevitabile in tempi ragionevolmente brevi.
Esiste un diritto a morire?
Questo è il titolo di una lezione di Giovanni Maria Flick - presidente della Corte Costituzionale, cattolico - che tenne nel 2010 all’Ordine dei Medici. In sostanza dice che non esiste un diritto a morire, ma non esiste neanche l’obbligo a vivere. Stiamo parlando di fatti: non dobbiamo pensare che il diritto è quello che crea i fatti; il diritto è il vestito che mettiamo dopo. Ci sono realtà che sono al di fuori del diritto, come il vivere e il morire. Poi è vero che proprio l’avanzamento della tecnologia e delle capacità della medicina ci portano a intervenire sempre di più sia sull’ambito della vita (pensiamo alla fecondazione eterologa) sia sull’ambito della morte (vedi la possibilità di sopravvivenza in situazioni di stato vegetativo). Noi siamo partiti dai valori di fondo della Costituzione e li abbiamo richiamati all’articolo 1 primo comma della legge: vita, salute, dignità della persona e autodeterminazione. Sempre la Corte Costituzionale ci dice che nella Carta costituzionale non c’è una gerarchia di questi valori: in uno Stato laico i valori fondanti tra di loro vanno mediati, compensati e riequilibrati. Diverso è il campo della fede: in quest’ambito posso stabilire una gerarchia di valori. Noi abbiamo cercato di trovare il più possibile delle soluzioni adatte a una società pluralista. Quando diciamo “pluralista” abbiamo in mente l’esistenza di più religioni e di persone che non credono. Nell’ambito delle scelte in sanità per esempio, noi abbiamo il 7-8% della popolazione che rifiuta la medicina tradizionale e segue quelle che possiamo definire filosofie di vita naturalistiche. Queste posizioni in sanità sono paragonabili a quelle dei Testimoni di Geova, quindi incidono moltissimo nelle decisioni e noi non possiamo ignorarle.
Quale ruolo per la volontà del paziente?
L’esercizio dell’autonomia personale ha allora dei limiti in questa legge?
Certamente ha dei limiti, a cominciare da quello più semplice che dimentichiamo spesso e che in realtà incide: consiste nella autonomia e libertà di scelta degli altri. In una relazione che noi abbiamo immaginato tra medico e paziente c’è un incontro di due libertà, non una sola.
Alcuni osservatori vedono una deriva: stiamo passando dal primato del bene del paziente alla priorità della volontà del paziente. C’è il rischio che il medico sia ridotto al ruolo di mero esecutore testamentario?
Io non sono d’accordo che ci sia una deriva, per me è un fatto positivo che la volontà del paziente entri in campo, perché vuol dire passare dall’idea del curare il corpo all’idea del curare la persona. È possibile dire che c’è il bene del paziente contro la volontà del paziente? A leggere sia il Catechismo della Chiesa Cattolica sia gli interventi di papa Francesco questo tema c’è: nel modo in cui si fa una proposta di terapia che sia proporzionata ci sta dentro anche la volontà della persona. Non curi un caso di tumore al polmone, ma curi un malato affetto da tumore al polmone. La persona ha una sua storia, una fede o una non-fede, una sua vita personale, una propria capacità di sopportare le sofferenze. Tutto questo fa spostare il peso della bilancia dalla parte dell’autodeterminazione del paziente. Con la consapevolezza che nel 99% dei casi il paziente accetta le indicazioni mediche. Ora se viene richiesto un consenso vuol dire che implicitamente si accetta l’idea che qualcuno non dia il suo consenso. Questa seconda opzione è sempre vissuta dal buon medico come una sconfitta, ma in base all’articolo 32 della Costituzione, ognuno ha il diritto di esprimersi. Direi proprio che anche per chi crede dovrebbe essere assolutamente assodato che non si possa andare contro la libertà individuale, anche quando sbaglia, è la libertà di Caino. Poi noi abbiamo cercato di uscire dalla logica per cui al rifiuto delle cure consegue l’abbandono. Quello che succede adesso, anche di fronte a rifiuti di cure molto impegnative (che salvano la vita), quello che preoccupa l’ospedale e il medico è la responsabilità legale, per cui si fa firmare un modulo per poter riportare a casa il paziente. In questo modo però ci si lava le mani. In primo luogo, abbiamo detto che se la scelta del paziente mette in modo palese a rischio la sua vita, il medico non si arrende e non l’accetta immediatamente ma attiva un percorso fatto di ascolto, di convincimento, di coinvolgimento dei familiari, di possibile chiamata di psicologo o psichiatra. In secondo luogo, abbiamo ribadito che in situazione di fase terminale dell’esistenza, in cui il rifiuto delle cure è più frequente, devono essere garantite le cure palliative.
L’articolo 1 comma 5 recita così: “Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrimenti mediante dispositivi medici”. Queste affermazioni hanno fatto dire ancora che la legge è in realtà “una via italiana all’eutanasia”. Infatti una parte della comunità scientifica fa notare come vi siano una varietà di situazioni in cui idratazione e nutrizione artificiali non sono trattamenti sanitari ma semplici atti di sostegno vitale proposti al paziente.
Chi l’ha detto che i trattamenti sanitari non possono essere orientati al sostegno vitale? Mi sembra una forzatura mettere le due cose in contrapposizione. Certo nella casistica concreta ci si può trovare di fronte a casi in cui questo è il punto di maggiore delicatezza. Noi abbiamo spiegato che non si tratta dell’imboccare la persona e dargli un alimento adatto, ma di un trattamento medico fatto attraverso strumenti medici. La persona capace di intendere e di volere indubbiamente è libera di rifiutare e tale decisione va accettata perché sta soffrendo. Più delicato il caso di quelle persone a cui deve essere fatto per es. un trattamento di Peg (procedura endoscopica che collega la cavità gastrica verso l’esterno, mediante tubicino, per permettere l’assunzione di cibi e liquidi in soggetti che hanno difficoltà a deglutire) e che non siano in uno stato di capacità di intendere e volere: in questo caso il confine vero è l’accanimento terapeutico, che noi abbiamo definito, copiando dal codice francese, l’ostinazione irragionevole: cioè si tratta di fare un’azione che non migliora le condizioni del paziente ma la mantiene in vita. In questo caso c’è bisogno di una valutazione fatta con grande prudenza. Invece nel caso in cui la persona sia capace di intendere e di volere, potrei ricordare i casi del card. Martini o di papa Wojtyla, bisogna accettare la decisione del malato.
Supplemento di saggezza
Come abbiamo già accennato, le disposizioni anticipate di trattamento possono essere redatte da un cittadino anche quando non è malato (art. 4) e al di fuori della relazione con il medico, in previsione di una sua eventuale definitiva incapacità di esprimere la propria volontà. Quali sono le maggiori difficoltà che può incontrare la classe medica nella gestione delle DAT?
Al medico viene chiesto un di più e non di un di meno dalla legge, perché gli viene chiesto di valutare nella proporzionalità delle cure anche gli aspetti che attengono alla personalità del singolo paziente. Nell’articolo 1 della legge tra i principi generali abbiamo messo anche una norma che riconosce l’agire in scienza e coscienza del medico, perché c’è l’incontro tra la libertà di scienza del paziente e le competenze professionali del medico. Quindi è vero che il medico che si attiene a quello che ha chiesto il paziente è libero dalle conseguenze della responsabilità, ma abbiamo anche detto che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali” (art. 1 comma 6). Quindi di fronte alle persone che, ad esempio, rifiutano la medicina tradizionale e si affidano ad altri trattamenti (vedi i casi clamorosi di Di Bella o di Stamina) il medico può decidere in scienza e coscienza di non accogliere alcune richieste.
Papa Francesco, nel suo recente discorso all’Assemblea medica mondiale (16-17 settembre 2017) ha sottolineato l’importanza di un “supplemento di saggezza” davanti agli scenari del fine vita. Unite a una chiara posizione contro l’accanimento terapeutico, le cure palliative e la terapia del dolore previste dalla legge possono ridurre la pressione da parte di chi chiede di legalizzare l’eutanasia?
Come già detto, lo scopo della legge è rispondere alle esigenze che venivano dal combinato disposto di una società pluralista e una medicina più all’avanguardia. Io non credo che si fermino le pressioni culturali né in un senso né in altro. Penso che ci saranno forti pressioni sia per cancellare questa legge sul fine-vita sia per introdurre l’intervento con l’iniezione letale (eutanasia). Non scordiamoci che l’opinione pubblica in tutti i sondaggi è significativamente favorevole all’eutanasia per oltre il 50%. Le pressioni continueranno, ma questa legge appena approvata ci permetterà di reggerle meglio. Dobbiamo essere consapevoli di questo e del fatto che questa legge sull’autonomia del paziente ci permette di rispondere nel merito in modo più forte e più chiaro. Il conflitto comunque rimarrà, anche perché c’è un problema che non siamo riusciti a risolvere, il problema dei familiari. Molto spesso il problema vero è la difficoltà ad accettare la morte o a cercare la morte da parte della rete dei parenti spesso in conflitto.
Nel testo di legge sulle Dat si nota l’assenza formale della possibilità di fare “obiezione di coscienza”: come lei ha già indicato il sanitario è tenuto a “rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo” e “in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale” (art. 1 comma 6). Su questo punto ha fatto scalpore l'obiezione di coscienza che il celebre ospedale cattolico del Cottolengo di Torino opporrà all'applicazione della legge per i suoi malati, con il sostegno dell'arcivescovo della città.
Come si fa a fare obiezione di coscienza di fronte a un malato che rifiuta la cura? Il medico opta per un intervento forzoso? Se il paziente rifiuta la chemioterapia, gli mando i carabinieri a casa? Questo è il limite oggettivo contro cui si scontra l’obiezione di coscienza. L’unico caso in cui si può esercitare l’obiezione di coscienza è quando un paziente chiede un intervento attivo (non passivo) come quello di staccarlo dalla macchina. Stiamo dunque parlando di una sola tipologia e non del complesso di tutte le regole. In questo caso abbiamo riconosciuto al medico la possibilità di sottrarsi all’intervento, ma non possiamo accettare che ci sia un’obiezione di coscienza dell’organizzazione della struttura sanitaria.
La normativa esprime un diritto “mite”, concetto mutuato dal pensiero del costituzionalista Flick. Il card. Martini dice che non si può procurare la morte, ma si accetta di non poterla impedire. È il senso del nostro intervento. Dal punto di vista cristiano noi dovremmo riflettere se non stiamo seguendo la tendenza comune a rifiutare la morte, a rifiutare di morire, di parlarne, di prepararsi ad affrontarla. La nostra società rifiuta la morte. La legge 219 esprime un diritto “mite” perché abbiamo evitato volutamente di stabilire norme precise e puntuali come spesso avviene ad esempio nella legge francese, dove ogni casistica è puntualmente prevista. Nella nostra legge c’è un ampio spazio per il dialogo reciproco tra il medico inteso come équipe e il paziente con i suoi familiari. Anzi quello che la legge pone come priorità è il dialogo, la relazione. Questa è una legge di principi.
Mario Chiaro