Importanza della comunità, essere persone di Dio, conformate a Cristo, cura
della vita spirituale, frequenza al sacramento della Penitenza e la maturazione
umana: sono gli aspetti essenziali che Benedetto XVI ha indicato ai seminaristi
per la loro formazione nella lettera scritta loro il 18 ottobre scorso. Sono
elementI che, pur nella diversità delle vocazioni, posiamo ritenere essenziali
anche per la formazione nella vita consacrata, sia iniziale che permanente, e
destinati a durare per tutta la vita.
Il papa parte dal seguente interrogativo: ha senso diventare sacerdote? E per
estensione, possiamo aggiungere, ha senso abbracciare la vita consacrata?
Risponde raccontando un episodio riguardante la sua giovinezza. «Quando nel
dicembre 1944 fui chiamato al servizio militare, il comandante di compagnia
domandò a ciascuno di noi a quale professione aspirasse per il futuro. Risposi
di voler diventare sacerdote cattolico. Il sottotenente replicò: “Allora lei
deve cercarsi qualcos’altro. Nella nuova Germania non c’è più bisogno di
preti”».
Questa “inutilità” del prete caratterizza anche il nostro tempo, anche se per
ragioni diverse. Presa dal dominio tecnico e dalla globalizzazione, la società
attuale non sa che farsene di una “professione” come questa, nonostante i tanti
problemi dell’uomo contemporaneo gridino forte il bisogno di una risposta
“umana”, non tecnologica, che solo Dio può dare. Perciò, «sì, ha senso diventare
sacerdote: il mondo ha bisogno di sacerdoti, di pastori, oggi, domani e sempre,
fino a quando esisterà».
Fondamentale la comunità
Benedetto XVI colloca, fin dall’inizio della sua Lettera, la vocazione
sacerdotale nel contesto del popolo di Dio, e questa scelta aiuta anche i
consacrati a rimanere ben ancorati a questa certezza: la vocazione del
consacrato, come del sacerdote, è chiamata a servire il popolo di Dio con lo
spirito dello stesso Cristo Gesù. È il popolo di Dio il luogo di nascita di ogni
vocazione ed è insieme referente della testimonianza di vita e del servizio
pastorale.
Il riferimento pone in evidenza come non si diventa sacerdoti o consacrati da
soli: c’è bisogno della comunità per fare il cammino in preparazione al servizio
sacerdotale e alla vita consacrata. Senza porre le radici nella storia e nella
tradizione, senza l’apporto dei fratelli e una coscienza lucidamente
“comunitaria”, la vocazione diventerebbe un percorso in solitaria destinato alla
sterilità. L’annotazione, quindi, non è affatto superflua e trova tutta la sua
plausibilità in questi tempi in cui non sono rari i casi di nuove vocazioni (più
o meno giovani) alla vita consacrata e al sacerdozio che vivono il tempo della
formazione come un periodo di “attesa obbligata”, per poter poi vivere la
propria consacrazione o il sacerdozio come a loro sembra più opportuno.
Non c’è dubbio che è sempre bene mettere in questione, in primo luogo, la stessa
formazione, così come è portata avanti, nei suoi criteri e nelle modalità
pedagogiche. Se i formatori desiderano verificare i giovani e aiutarli è giusto
che siano i primi ad avere e mantenere un atteggiamento di discernimento su di
sé sempre operante. A questo presupposto si aggiunge un fenomeno tipico di
questi nostri tempi, che tocca da vicino la dinamica formativa. C’è da tener
presente una spinta individualistica, tipica della nostra società, che sta
segnando fortemente le comunità, dove sembrano prevalere criteri di vita che non
hanno come punto di riferimento la logica evangelica e comunitaria. Questa
fatica non è da drammatizzare: è semplicemente fisiologica in un cammino di
crescita. Il punto critico sta, invece, in quanto si è disponibili e si vuole il
confronto, che è poi l’aspetto che dice riferimento all’importanza dell’altro, e
alla percezione dell’altro come una chiamata e un’opportunità di crescita, di
apprendimento, di salvezza.
Il periodo formativo, per alcuni, si riduce a un periodo in cui ci si deve
adeguare a regole e stile di vita in modo compiacente, come un passaggio a cui è
necessario “piegarsi” senza problematizzare, per entrare, dopo la professione
solenne e l’ordinazione, nella fase della piena autonomia di volontà e
decisioni, dove ad essere decisivi sono le sensibilità e i progetti personali.
Per altri c’è un maggiore coinvolgimento nella dinamica comunitaria, che trovano
importante per il proprio cammino personale; tuttavia, l’importanza della
comunità sembra essere ancora più strumentale che non conseguente a un’autentica
assimilazione del valore dell’altro e di quelle motivazioni evangeliche che
dovrebbero caratterizzare tutta la propria vita e lo stesso servizio pastorale.
Essere “uomo di Dio”
Perciò risulta particolarmente efficace il richiamo del Papa alla centralità
della dimensione spirituale: «chi vuole diventare sacerdote, deve essere
soprattutto un “uomo di Dio”». L’indicazione è strutturale, per la vocazione del
consacrato e del sacerdote. I tratti essenziali dell’identità vocazionale non
sono opinabili, ma sono facilmente riconoscibili nel volto di Cristo, in cui è
possibile vedere il volto di Dio. Quindi non si possono inventare a piacimento,
magari “canonizzando” le proprie caratteristiche personali.
Questo criterio cristologico richiama direttamente al mistero dell’incarnazione
che ogni cristiano – e a maggior ragione il consacrato e il sacerdote – è
chiamato a vivere. Non ci si può accontentare, ricorda il Papa, di essere degli
“amministratori” o di mantenere o aumentare il numero dei membri della Chiesa.
Il consacrato, come il sacerdote, è un fratello tra fratelli che vuol far
crescere la comunione tra di loro. Per questo, «è tanto importante che impariate
a vivere in contatto costante con Dio», senza moltiplicare le parole di
preghiera, ma piuttosto non perdendo mai il contatto interiore con Dio.
«Esercitarsi in questo contatto è il senso della nostra preghiera», lì dove
tutto ciò che fa parte del nostro vissuto quotidiano – desideri, speranze, gioie
e dolori, errori e gratitudine – diventano occasione per avere sempre a che fare
con Lui, unico punto di riferimento della nostra vita.
La conformazione a Cristo, obiettivo della formazione sacerdotale e religiosa, è
un percorso che si arricchisce dell’esperienza sacramentale. «Il centro del
nostro rapporto con Dio e della configurazione della nostra vita è
l’Eucaristia», in cui il Cristo risorto che si dona a noi plasma «davvero tutta
la nostra vita con lo splendore del suo amore divino», anche per mezzo della
sapienza liturgica, formatasi nell’esperienza di fede e nella preghiera di
generazioni di cristiani.
Benedetto XVI richiama alla coscienza dei seminaristi anche l’importanza del
sacramento della Penitenza, che «mi insegna a guardarmi dal punto di vista di
Dio, e mi costringe ad essere onesto con me stesso», conducendo all’umiltà. Un
sacramento decisamente poco compreso e poco vissuto, paradossalmente anche nelle
nostre case di formazione. Forse proprio perché, nei nostri ambienti, è ancora
inteso e presentato in modo più giuridico che evangelico, più carico di
moralismo che di accoglienza gioiosa del dono di vita e ricchezza di grazia di
cui è segno efficace. Ma anche perché, forse, non se ne sente molto il bisogno,
vista la poca abitudine a fare discernimento, la difficoltà con cui ci si
esamina alla luce dei valori evangelici.
Oggi è quasi scontato adeguarsi supinamente alla spinta dell’emotività e delle
pulsioni nella convinzione di favorire la realizzazione di sé. Di fatto, il
risultato più evidente è che si fa più fumoso il punto di riferimento per un
discernimento del bene e la consapevolezza della necessità della conversione.
Anche se da più parti – a volte anche in ambiti ecclesiali – si contrabbanda la
rassegnazione passiva al mondo emotivo come se corrispondesse a un’autentica
accettazione di sé, il Papa ricorda che «è importante opporsi all’abbruttimento
dell’anima, all’indifferenza che si rassegna al fatto di essere fatti così».
Per i consacrati, che nascono dall’esperienza dell’amore e del perdono di Dio, e
per i seminaristi, che si preparano a essere ministri della grazia di Dio, è
indispensabile non scendere a patti con «l’indifferenza, che non farebbe più
lottare per la santità e per il miglioramento», e vivere il sacramento della
riconciliazione come momento di grazia e scuola di vita. «Nel lasciarmi
perdonare, imparo a perdonare gli altri. Riconoscendo la mia miseria, divento
anche più tollerante e comprensivo nei confronti delle debolezze del prossimo».
Il richiamo esplicito del Papa alla pietà popolare può considerarsi come
un’esortazione affinché i seminaristi verifichino la loro spiritualità. Non è
una novità che, anche nei seminari, si fa sempre più frequente una ripresa di
forme di pietà devozionali vissute in modo fideistico e acritico.
L’atteggiamento del Papa si rivela molto equilibrato al proposito, quando
ricorda che «la pietà popolare tende all’irrazionalità, talvolta anche
all’esteriorità», ma «escluderla è del tutto sbagliato». Se «la pietà popolare è
un grande patrimonio della Chiesa», allora proprio per questo «certamente dev’essere
purificata, riferita al centro».
Maturazione umana
«Gli anni del seminario devono essere anche un tempo di maturazione umana». Se
si tiene in considerazione che il futuro sacerdote dovrà essere anch’egli
accompagnatore di altre persone nel cammino della fede e della vita comunitaria
appare evidente quanto si tratti di un ambito serio, da non dare mai per
scontato, e tanto meno illudersi di averlo esaurito nei tempi, pur sempre brevi,
della formazione seminaristica.
Il papa sottolinea come sia importante che il giovane che si prepara al
ministero e alla testimonianza «abbia messo in giusto equilibrio cuore e
intelletto, ragione e sentimento, corpo e anima, e che sia umanamente
“integro”». Che cosa intenda il pontefice con questo “umanamente integro” lo si
può capire dall’accenno alle “virtù teologali”, alle “virtù cardinali” e
all’esperienza umana e filosofica, che costituiscono la «sana tradizione etica
dell’umanità».
Questa annotazione, letta alla luce dei documenti sulla formazione nei seminari,
riporta l’attenzione dei giovani in formazione (e dei formatori) a centrarsi
sulla necessaria integrazione del cammino di crescita individuale con il
percorso spirituale che li ha portati a entrare in seminario. Con la vocazione
siamo chiamati – così come siamo, in un’umanità segnata da ricchezze e povertà –
a servire Dio e i fratelli. È intrinsecamente una chiamata alla conversione.
Come tale, l’accoglienza della chiamata di Dio esige la disponibilità a mettersi
in questione, a lavorare prima di tutto il terreno della nostra personalità, per
essere in grado di lavorare anche nella vigna del Signore. La nostra struttura
psicologica è chiamata ad entrare nel dinamismo di conversione al Vangelo:
perciò va conosciuta e umilmente lavorata, con l’aiuto dei formatori e direttori
spirituali, affinché possiamo giungere alla piena maturità di Cristo (cfr. Gal
4,13).
Una precisazione particolare del Papa è relativa all’«integrazione della
sessualità nell’insieme della personalità». Ribadita la bontà della sessualità
«dono del Creatore», Benedetto XVI afferma chiaramente che essa continua a
essere «un compito che riguarda lo sviluppo del proprio essere umano»,
altrimenti si rivela «banale e distruttiva» come testimoniano questi nostri
tempi, nella società e, purtroppo, anche nella Chiesa. Ricordando «con grande
dispiacere» gli scandali sessuali che hanno recentemente agitato le cronache
mondiali, il Papa dà voce al dubbio, poiché «a causa di tutto ciò può sorgere la
domanda in molti, forse anche in voi stessi, se sia bene farsi prete; se la via
del celibato sia sensata come vita umana». La sua risposta è che questa storia
di evidente abuso «non può screditare la missione sacerdotale, la quale rimane
grande e pura». Certamente «ciò che è accaduto deve renderci più vigilanti e
attenti»; perciò «è compito dei padri confessori e dei vostri formatori
accompagnarvi e aiutarvi in questo percorso di discernimento» da farsi «con lo
sguardo rivolto al Dio manifestato in Cristo, e lasciarsi, sempre di nuovo,
purificare da Lui». Soprattutto tenendo in c
onsiderazione il fatto che nella sfera sessuale trovano espressione
problematiche che non sono prettamente e unicamente sessuali. Da qui la
necessità di un coraggioso cammino di formazione, in cui ci si mette in gioco
per conoscersi davvero e così arrivare a vivere con maggior libertà il progetto
cristiano: amare nella libertà, come Dio.