IL CARD. F. RODÉ AI RELIGIOSI DELLA SLOVACCHIA

LA VC OGGI SFIDE E MISSIONE

 

La vita consacrata oggi è profondamente influenzata dal contesto culturale in cui vive e si vede costretta a ricercare i lineamenti essenziali del suo volto, partendo da più chiare appartenenze e mettendo in atto nuove relazioni autenticamente evangeliche e missionarie.

 

La vita consacrata è chiamata a vivere dentro le tensioni della società, mantenendo la sua “identità”, così da essere segno per l’uomo d’oggi. Soltanto con questa fedeltà dinamica potrà svolgere il compito profetico che le è proprio e porre dei semi di speranza dentro la storia. _Essa deve riaffermare il primato dello Spirito e vivere il suo carisma a partire dalla Chiesa e dalla propria comunità.

Sono queste alcune linee guida proposte dal card. Franc Rodé, ex prefetto della Congregazione per gli istituti di vita consacrata, parlando al simposio organizzato dalle Conferenze dei superiori maggiori della Slovacchia, a Nitra, il 14 ottobre 2006. La visione che egli ha presentato ci pare quanto mai appropriata per tutta la vita consacrata, nel momento attuale. Per questa ragione intendiamo offrirla anche ai nostri lettori, anche se con qualche piccolo taglio di carattere redazionale.1

 

La situazione sociale e religiosa in Slovacchia mostra i segni dell’impatto con i miti dominanti della cultura occidentale: l’individualismo spinge ad affrontare la vita a partire da sé e, con la marginalizzazione di Dio, fa sì che tutto sia valutato in termini di autorealizzazione; il primato del fare e del consumare spinge all’alienazione e allo svuotamento interiore; il bisogno di apparire svuota di senso l’identità personale. Sotto queste fortissime spinte anche la vita consacrata rischia di smarrire la via evangelica del primato di Dio, della fedeltà radicale alla Parola di Gesù e della carità evangelica ricevuta dallo Spirito Santo per servire l’umanità.

Di fronte al così detto postmoderno che avanza c’è chi pensa sia necessario “conservare semplicemente tutte le posizioni del passato”, o chi per un “malinteso liberismo tende ad avvicinare la fede al mondo, pensando che sia necessario sfrondare la vita consacrata di ciò che al mondo può non piacere”. La tensione tra queste due posizioni, spesso in vario modo presenti nelle comunità religiose, è spesso alla base della loro crisi d’identità ed erode l’essenza stessa della vita consacrata.

Il cammino di rinnovamento, infatti, è stato segnato non poche volte da equivoci che hanno minato il senso evangelico ed ecclesiale della vita consacrata. Quando, per esempio, il primato della libertà individuale privilegia, nell’ampia gamma di possibilità offerte dalla società odierna, le scelte individuali, resta poco spazio per scelte comunitarie o di istituto. Quando si indebolisce e si mette in secondo piano il naturale sfondo “religioso-spirituale” dei luoghi della vita e del servizio apostolico, la crisi di identità e di senso tende a dilagare nel cuore e nell’agire delle persone consacrate. Non si può negare che oggi spesso non riusciamo ad avere la forza necessaria per essere segno di contraddizione in mezzo alla nostra gente. Eppure questo è un compito irrinunciabile; lo ha detto con chiarezza nel suo primo saluto alla persone consacrate Benedetto XVI quando le ha definite: «Testimoni della trasfigurante presenza di Dio».

 

UNA “IDENTITÀ”

CHE SIA SEGNO

 

È innegabile che la vita consacrata, nonostante le tante indicazioni del Magistero, vive ancora una profonda crisi di identità ecclesiale e sociale, frutto del particolare momento culturale in cui ogni identità si è fatta debole e ogni appartenenza fragile. Con la caduta dei muri ideologici, sociali e religiosi, e l’avvio di un clima culturale segnato dal dialogo e dalle relazioni plurime, le appartenenze hanno perso di coesione e i confini della propria identità rischiano costantemente di diventare eccessivamente flessibili.

La vita consacrata è anch’essa profondamente influenzata da questo contesto culturale e si vede costretta a ricercare i lineamenti essenziali del suo volto, partendo da più chiare appartenenze e mettendo in atto nuove relazioni autenticamente evangeliche e missionarie. È una sfida complessa e difficile: si tratta di apprendere un modello di identità che non si definisce più solo a partire da se stessi, ma dalle necessarie relazioni con le altre identità personali, ecclesiali e sociali. Nella Chiesa identità e missione sono termini interattivi che si qualificano e costantemente si sviluppano attraverso le relazioni spirituali, ecclesiali, sociali. Solo così possono riempire di senso e di missione le comunità religiose e le stesse persone consacrate.

Questa identità relazionale ha la sua radice nella gioia di essere se stessi, nella gratitudine per il dono ricevuto e nella serena accettazione dei limiti connessi a ogni vita che si riconosca “dono ricevuto che per natura sua tende a diventare bene donato” (Nuove Vocazioni per una Nuova Europa, 16 b). Quando la persona consacrata è contenta della sua vocazione e accetta con saggezza il limite che questa implica, non avrà una identità debole che cerca supremazie, primogeniture o riconoscimenti. Quando un’identità è alimentata dal fiume sotterraneo del proprio amore per Dio e per l’umanità che dà senso alla vita e alla fatica quotidiana, non cerca applausi o primi posti, non ha bisogno di conferme esterne per conoscere il valore della sua vita, perché anche nella marginalità e nel silenzio può vivere pienamente. L’esortazione apostolica Vita consecrata indica la via per costruire questa identità: «I discepoli e le discepole sono invitati a contemplare Gesù esaltato sulla croce, dalla quale il Verbo, “uscito dal silenzio”, nel suo silenzio e nella sua solitudine, afferma profeticamente l’assoluta trascendenza di Dio su tutti i beni creati» (VC 23 b).

In questo orizzonte si comprende come l’invito di Gesù alla «castità per il Regno» dona la possibilità di una sponsalità e di un’apertura alla fecondità che include e supera la sessualità. Ogni cristiano ha ricevuto in dono come fonte di ogni sua relazione lo Spirito Santo. Egli è immagine della relazionalità trinitaria, vive nella relazione fedele di Cristo alla Chiesa sua sposa, scoprendo operante in sé una grazia divina che trasforma e rinnova costantemente la sua vita. I cristiani, ricorda l’evangelista Giovanni: “non dalla carne né dal sangue, né da volere di uomo, ma da Dio sono generati” (Gv 1,13). Questa generazione rende possibile a tutti i cristiani di conformare la propria vita agli insegnamenti e agli esempi di Gesù,

anzi di “avere gli stessi sentimenti del Signore Gesù” (Fil 2,5).

Tuttavia ad alcuni, scelti dall’imprevedibile amore del Padre, è chiesto di ripresentare anche la forma di vita che il Figlio di Dio ha assunto venendo in questo mondo, riconoscendolo come modello insuperabile, come parola di vita eterna. Essi sono chiamati ad accogliere il dono dei consigli evangelici come tensione conformativa alla vita di Cristo e a riconoscere, con particolare forza evocativa, che Gesù è il loro Signore, che il Gesù dei Vangeli è l’immagine del Dio invisibile, che la forma di vita povera, verginale, obbediente vissuta da Cristo, per un cristiano è una forma insuperabile. È quanto afferma il Benedetto XVI nell’omelia della celebrazione della Giornata della vita consacrata di quest’anno: «Come, infatti, la vita di Gesù, nella sua obbedienza e dedizione al Padre, è parabola vivente del “Dio con noi”, così la concreta dedizione delle persone consacrate a Dio e ai fratelli diventa segno eloquente della presenza del regno di Dio per il mondo di oggi».

Comprendiamo così come, per una vita consacrata profetica, sia necessario ricuperare da parte di non pochi consacrati e consacrate il senso della propria dignità, che consiste nell’aver assunto la forma di vita del Figlio di Dio, una forma di vita insuperabile, come è insuperabile Cristo. È un invito a ripensare e a riscrivere una nuova grammatica teologica ed esistenziale delle relazioni umane nello Spirito, per essere nel territorio non erogatori di servizi ma produttori di relazioni, offrendo la propria presenza come spazio di comunicazione, di umanizzazione, di annuncio evangelico.

 

DALL’IDENTITÀ

ALLA PROFEZIA

 

Il primo frutto di una identità più chiara e luminosa della vita consacrata è quello di dare nuova forza profetica dentro la Chiesa e la società civile. La vita consacrata, infatti, non può chiudersi in se stessa; essa è chiamata ad aprire spazi di relazione veri e profondi (anche se con modalità diverse a seconda dei vari carismi e delle modalità di vita apostolica o contemplativa) con il territorio in cui vive e opera.

Tuttavia è molto importante saper gestire con equilibrio questi spazi necessari. Perché quando un istituto o una comunità si chiude in se stessa e si lascia sopraffare dalle sue esigenze interne, perde la possibilità di essere sale della terra e luce del mondo; ma quando tende a ridurre la sua vita agli schemi di questo mondo perde il suo sapore e “a null’altro serve che ad essere gettata via e calpestata dagli uomini” (cf. Mt 5,13b). Le relazioni delle persone consacrate, sia nella Chiesa che con il mondo, devono essere qualificate dalla “cultura alternativa dei consigli evangelici”, di cui sono depositarie, e dalla libertà di mostrare la naturale contrapposizione culturale ed esistenziale con i valori dominanti del mondo che caratterizza il loro stile di vita.

L’esortazione apostolica Vita consecrata illumina così questo tema: «Il compito profetico della vita consacrata viene provocato da tre sfide principali rivolte alla Chiesa stessa: sono sfide di sempre, che vengono poste in forme nuove, e forse più radicali, dalla società contemporanea, almeno in alcune parti del mondo. Esse toccano direttamente i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, stimolando la Chiesa, e in particolare le persone consacrate, a mettere in luce e a testimoniare il loro profondo significato antropologico. La scelta di questi consigli, infatti, lungi dal costituire un impoverimento di valori autenticamente umani, si propone piuttosto come una loro trasfigurazione» (VC 87a).

La risposta esistenziale e culturale alle attuali sfide, poste davanti alle persone consacrate, chiama in causa in modo speciale la loro “missione profetica”. Oggi gli uomini e le donne sono profondamente toccati e sedotti dal relativismo, talvolta travolti da questo “nuovo spirito del mondo globalizzato”, che trova alleati potenti nell’uomo vecchio sempre in agguato dentro il cuore dell’uomo. C’è bisogno di una forte testimonianza di vita “alternativa”, constatabile da tutto il popolo di Dio. C’è bisogno di riproporre al vivo il fascino profondo della vita cristiana, vissuta con radicalità e senza compromessi. C’è bisogno di mostrare che anche oggi l’amore di Dio è capace di saziare il cuore e riempire la vita di coloro che ascoltano la voce di Dio e si impegnano a riproporre il modo di vivere di Cristo in mezzo agli uomini.

L’esortazione apostolica Vita consecrata esorta gli istituti di vita consacrata «a riprodurre con coraggio l’intraprendenza, l’inventiva e la santità dei fondatori e delle fondatrici come risposta ai segni dei tempi emergenti nel mondo di oggi. Questo invito è, innanzitutto, un appello a perseverare nel cammino di santità attraverso le difficoltà materiali e spirituali che seguono le vicende quotidiane. Ma è anche appello a ricercare le competenze nel proprio lavoro» (VC 37). Ecco dove la vita consacrata trova le sorgenti per una fedeltà dinamica alla sua vocazione; dove la competenza tecnica, la professionalità e la creatività non sostituiscono, ma scaturiscono, dalla tensione verso la santità. La vita consacrata ritroverà la sua insostituibile missione nella Chiesa proprio a partire dalla costante tensione verso la santità, dalla capacità di proporre cammini ascetici ed esperienze di Dio capaci di trasformare la vita e il cuore delle persone, aprendo davanti ai loro occhi i valori eterni del regno di Dio. Il decreto conciliare Perfectae caritatis definisce la vita consacrata praeclarum signum Regni caelestis, un luminoso segno del Regno dei cieli (PC 1). _E Vita consecrata aggiunge: «La funzione di segno, che il concilio Vaticano II riconosce alla vita consacrata, si esprime nella testimonianza profetica del primato che Dio e i valori del Vangelo hanno nella vita cristiana» (VC 84).

La vita consacrata diventa, così, segno di quello che la Chiesa è nella sua essenza più profonda, un segno particolarmente apprezzato oggi da una società pluralista, sempre ondeggiante tra l’affermazione di un individualismo selvaggio e nostalgie autoritarie, tra il sogno di un mondo libero e il sogno di un mondo di uguali, tra il riconoscimento del rispetto dovuto alla singola persona e la necessaria solidarietà, tra la globalizzazione e la gelosa affermazione della propria identità. Tale segno è tanto più leggibile ed efficace, quanto più la vita consacrata viene coinvolta e si lascia coinvolgere nella vita della Chiesa, quando presta la sua opera alla Chiesa in comunione di intenti e di lavoro, presente con una carità umile e disponibile. Allora è fermento, esempio e stimolo alla fraternità cristiana.

 

PROFETI DI SPERANZA

DENTRO LA STORIA

 

«Se la vita consacrata mantiene la forza profetica che le è propria diventa all’interno di una cultura, fermento

evangelico capace di purificarla e farla evolvere» (VC 80).

In queste parole Vita consecrata sintetizza il nucleo centrale dell’identità e della missione della vita consacrata. Compito del profeta è quello di riscattare la dignità dell’umanità e della storia annunciando la presenza di Dio e testimoniando la sua azione salvifica attraverso la trasformazione profonda della vita delle persone. La vita consacrata ama, professa, e celebra Dio profondamente presente nella storia dell’uomo, cercandolo appassionatamente nella vita e nel cuore delle persone. «La vita consacrata ha il compito profetico di ricordare e servire il disegno di Dio sugli uomini, come è annunciato dalla Scrittura e come emerge anche dall’attenta lettura dei segni dell’azione provvidenziale di Dio nella storia» (VC 73).

Uno dei compiti più significativi del profeta è quello di leggere i segni dei tempi per aprire percorsi di santità per gli uomini e le donne del suo tempo. Oggi voi vivete in modo forte l’esperienza di una fede cristiana e di una vita consacrata piantata in una terra riarsa, seccata dall’ateismo dell’educazione marxista, impoverita dalla mancanza di grandi ideali, resa du­ra dalla fatica quotidiana di vivere. C’è bisogno di una pioggia ristoratrice di santità; c’è bisogno di una nuova seminagione di carità e di vita evangelica per una rinnovata vita secondo lo Spirito di tutto il popolo di Dio.

 

PRIMATO DELLA VITA

SECONDO LO SPIRITO

 

Luogo privilegiato dove si costruisce il volto profetico di una autentica identità relazionale è la vita spirituale. «In essa la persona consacrata ritrova la propria identità e una serenità profonda, cresce nell’attenzione alle provocazioni quotidiane della parola di Dio e si lascia guidare dall’ispirazione originaria del proprio istituto» (VC 71). Impegnarsi nella vita secondo lo Spirito, non è, infatti, una ricerca di autotrasformazione psico-spirituale, ma un percorrere le vie dell’esodo, un uscire da sé e incontrare, al modo di Cristo-Sposo e della Chiesa-Sposa, i fratelli sulle vie della missione.

La vita spirituale delle persone consacrate è chiamata per questo a svi­luppare e a mostrare i tratti caratteristici della sponsalità di Cristo e della maternità della Chiesa. La vita consacrata, infatti, è espressione peculiare e paradigmatica della Chiesa Sposa che accoglie e rende fecondo il dono del suo Sposo. «La vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione, giacché esprime l’intima natura della vocazione cristiana e la tensione di tutta la Chiesa Sposa verso l’unione con l’unico Sposo» (VC 3).

L’amato Giovanni Paolo Il ricordava che «nella chiamata alla continenza per il regno dei cieli, prima gli stessi discepoli e poi tutta la viva Tradizione scoprirono presto quell’amore che si riferisce a Cristo stesso come sposo della Chiesa e sposo delle anime, alle quali egli ha donato se stesso sino alla fine, nel mistero della sua Pasqua e nell’Eucaristia» (Udienza Generale, 28 Aprile 1982, 1). Per questo la Chiesa nell’impegno delle persone consacrate a seguire con radicalità i consigli evangelici trova un segno del suo essere sposa casta di Cristo. Sottolinea questo anche il n.44 della Lumen gentium quando dice che «la consacrazione sarà più perfetta, in quanto legami più solidi e stabili riproducono di più l’immagine del Cristo unito alla Chiesa sua sposa da un legame indissolubile». E il Perfectae caritatis (12) aggiunge: «essi davanti a tutti i fedeli sono un richiamo di quella mirabile unione operata da Dio e che si manifesterà pienamente nel secolo futuro, mediante la quale la Chiesa ha Cristo come unico suo sposo». Le persone consacrate, coscienti dell’immenso dono ricevuto, si consegnano totalmente a Cristo, sommamente amato, divenendo espressione paradigmatica della Chiesa Sposa vergine e madre. La castità consacrata, nelle sue diverse forme canoniche, va a porsi al cuore del mistero ecclesiale, in quanto mistero sponsale, rappresentando la perfetta e incondizionata ricezione e disponibilità allo Sposo che ha donato il suo corpo e il suo sangue per la nuova ed eterna alleanza. Questa forma, di cui Maria, Vergine e Madre, costituisce il nucleo originario, trova particolare espressione nella vita consacrata femminile.

Con il voto di povertà le persone consacrate annunciano agli uomini quale sia il giusto rapporto con i beni della terra: un rapporto di “restituzione” nella gratitudine verso Dio e nella condivisione gioiosa con gli altri di ciò che sono, di ciò che hanno e di ciò che sanno. Una vita consacrata segnata dalla povertà evangelica si qualifica per i rapporti liberi, profondi e salvifici che sa instaurare con gli uomini e con tutto il creato. Ogni cosa o evento è dono gratuito, generoso e impagabile che il Padre celeste fa a coloro che sono poveri, che accolgono tutto come dono e grazia della sua bontà infinita. La povertà evangelica diventa luminosa quando le comunità religiose testimoniano con il loro stile di vita che il povero, il pellegrino, l’emigrato, l’anziano, e chiunque ha bisogno è

al centro. Sono anch’essi, infatti, dono e sacramento di Cristo.

Scegliere la via dell’obbedienza significa, infine, fidarsi dell’amore di Dio, entrare totalmente nella sua famiglia e imparare a conoscere la libertà del suo Figlio. Nell’obbedienza le persone consacrate rivivono la sottomissione di Gesù al Padre, imparano a portare i pesi gli uni degli altri e a edificare il mondo nella carità. Gesù obbedisce perché nessuno di quelli che il Padre gli ha affidato vada perduto. Sulla stessa via la persona consacrata viene educata all’offerta quotidiana di tutta se stessa perché non vada perduto nessuno di coloro che le sono stati affidati: coloro che compongono la sua comunità di vita e coloro i cui cammini in qualche modo si incrociano con i suoi. Così la vita consacrata si fa luminosa irradiazione della carità divina e manifestazione della figliolanza divina. Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono, saranno, come insegna la Gaudium et spes, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo (cf. GS 1).

Questo cammino di vita evangelica chiede alle persone consacrate che sappiano «rinunciare al bisogno di apparire e assumere uno stile di vita sobrio e dimesso. I religiosi e le religiose sono chiamati a dimostrarlo anche nella scelta dell’abito, un abito semplice che sia segno della povertà vissuta in unione a colui che da ricco che era si è fatto povero per farci ricchi con la sua povertà (cf. 2 Cor 8,9). Così, e solo così, si può seguire senza riserve Cristo crocifisso e povero, immergendosi nel suo mistero e facendo proprie le sue scelte di umiltà, di povertà e di mitezza” (Benedetto XVI, Udienza ai Superiori/e generali, 22.05.06).

 

A PARTIRE DALLA CHIESA

E DALLA PROPRIA COMUNITÀ

 

Luogo naturale dove vive e cresce ogni esperienza cristiana

è la “comunità”. Non è possibile, infatti, incontrare Cristo salvatore senza la mediazione della Chiesa, non è possibile vivere la fede e sperimentare la carità da soli. È necessario salire sulla barca di Pietro, dove ci sono sempre gli altri discepoli e Gesù. Senza la comunione affettiva ed effettiva con il Corpo di Cristo, che è la Chiesa, non c’è vita cristiana e, ancor meno, vita consacrata. Essa, infatti, ha nella sua vita fraterna in comunità un segno, è un annuncio di questa esigenza fondamentale della fede cristiana. Pur nella varietà delle forme in cui i vari istituti vivono la vita comunitaria essi partecipano ed esprimono l’unica koinonia evangelica tipica della Chiesa a cui ogni cristiano, in quanto tale, è chiamato.

La comunità religiosa è anzitutto luogo di pienezza di vita evangelica. In essa si sperimentano concretamente i dinamismi dell’amore reciproco e la persona consacrata trova la sua realizzazione nello stabilire rapporti a immagine di quelli della santissima Trinità. La sua vita in comunione diventa servizio e risposta alla domanda di nuova fraternità che si leva dall’umanità.

La comunità religiosa testimonia tutto questo quando le persone consacrate mostrano un maturo spirito di appartenenza, edificato da costanti comunicazioni e relazioni umane e spirituali capaci di accoglienza e dono; quando la loro identità sarà frutto di una vita radicata in Cristo e sul sistema di valori e di simboli comuni (abito, emblemi, tradizioni, ecc. che caratterizzano nella Chiesa la loro famiglia religiosa); quando un unico ideale spirituale e apostolico plasma il vivere e l’agire di tutti i suoi membri. Solo così le comunità religiose potranno diventare presenza e luogo in cui ogni persona può deporre il proprio dolore, anche quello silenzioso e persino quello illegittimo, e sentirsi riscaldare il cuore. Esse, infatti, non vivono per se stesse: non sono opere d’arte create da Dio come “soprammobili” della Chiesa o del mondo, ma per essere lievito e fermento, semi da gettare nella terra. Esse sono chiamate a portare una nuova speranza nella lotta contro l’individualismo che isola e isterilisce l’uomo, contro la massificazione che svuota e strumentalizza tutto e tutti.

La vita fraterna in comunità è proposta concreta e visibile che Dio fa all’uomo di una vita fondata sulla carità fraterna, sulla solidarietà e sulla partecipazione reale. Si tratta di sviluppare insieme una chiara identità attorno alle caratteristiche carismatiche del proprio istituto e una docile e generosa appartenenza alla propria comunità senza perdere di vista la motivazione finale di ogni carisma: l’edificazione del corpo di Cristo (cf. Lumen gentium 45). Chi serve il Vangelo lo fa perché si realizzi il regno di Dio. Chi vive nella contemplazione e nella preghiera, chi cura i malati e chi insegna lo fa perché la parola di Dio scenda nella mente e nel cuore degli uomini.

Tenendo conto delle diverse tipologie della vita consacrata monastica, conventuale, apostolica credo sia necessario, mettere in atto un discernimento che coinvolga realmente tutti. Un discernimento per identificare le priorità apostoliche che in seguito si concretizzeranno in luoghi, opere e presenze. Un discernimento adatto a individuare le comunità capaci di dare segnali di autentica vitalità, di proporre uno stile di vita comune di qualità. Solo su questa via potrà fiorire una nuova fantasia della carità sotto la spinta di un carisma proprio vissuto in fraternità, alimentato da una visione evangelica ed ecclesiale più ampia e da una attenzione alle invocazioni che salgono dal cuore e dalla vita degli uomini e dal territorio in cui il Signore le ha poste.

 

UNA RINNOVATA

PASSIONE PER LA MISSIONE

 

Senza una rinnovata passione per la “missione” non si potrà mai parlare di nuova fantasia della carità. Una congregazione di vita consacrata senza una forte spinta missionaria perde la sua identità e il senso stesso del suo esistere nella Chiesa e nel mondo.

Oggi il termine “missione” è esposto a vari malintesi, ma non è possibile per il cristiano rinunciare ad esso nonostante tutte le difficoltà storiche che l’hanno accompagnato. C’è certamente bisogno di ancorare la missione alla sua dimensione biblica, teologica, ecclesiale e spirituale in modo da poterla mettere in atto nell’attuale contesto mondiale, caratterizzato da indifferenza, da concezioni religiose pluralistiche e, non ultimo, anche da esperienze di violenza religiosamente motivate. «Messa per lungo tempo in secondo ordine, forse perfino resa sospetta, spesso passata sotto silenzio, la parola missione acquista oggi nuovo significato» (card. K. Lehmann).

Lo Spirito di Dio, che continua ad aleggiare sul mondo, impegna la Chiesa a comprendere il mondo e la creazione come un intreccio di vita, sgorgato dal cuore e dalla mano di Dio; ad avere uno sguardo solidale su tutti gli uomini, vicini e lontani; ad assumere consapevolmente la responsabilità di aprire a tutti la via dell’incontro con Cristo, unica via, verità e vita. Per i cristiani, la fonte caratteristica della solidarietà sul piano mondiale sta nella consapevolezza che lo Spirito del Signore crea vita e che la sequela di Cristo apre gli occhi e i cuori alla compassione, al camminare insieme, all’amore e all’aiuto reciproco (cf. Mt 5,3-12). In quest’epoca in cui la violenza, il dominio di coloro che sono economicamente forti sui deboli, spingono a costruire molteplici forme di “incomunicabilità” tra culture e religioni, la vita consacrata deve lasciarsi interpellare in maniera più radicale per far emergere con sempre maggiore chiarezza la sua ragion d’essere e il senso profondo della sua esistenza. Deve verificare con attenzione quale sia l’immagine di Dio, di Cristo e della sua Chiesa che porta in se stessa e che cosa orienta la sua vita.

Si tratta di ripartire da Cristo; di assumere in maniera del tutto nuova la spiritualità dell’obbedienza descritta nell’inno cristologico della lettera di Paolo ai Filippesi (2,5ss). Una spiritualità di kenosis, proprio nel mondo postmoderno, è un presupposto indispensabile per farsi prossimi ed essere capaci di compassione. Un atteggiamento del genere non minaccia nessuno, né con l’ideologia, né con la forza, né con il dominio culturale o la saccenteria. Una spiritualità dialogica del genere non si esprime con discorsi moraleggianti, ma soprattutto con il silenzio e l’ascolto. Essa è aperta alla vita, alla sofferenza e alle esperienze di fede degli altri. È una forma moderna di “mistica della compassione”, una “mistica dagli occhi aperti”.

 

Le riflessioni fin qui fatte fanno emergere con forza l’invito per le vostre comunità ad essere “case e scuole di preghiera e di comunione” (cf. NMI 32 e 43). Siate docili alla voce di Dio, agli insegnamenti del Maestro divino e agli impulsi dello Spirito che apre costantemente orizzonti nuovi e vi lancia verso nuove tappe sulla via della missione. Siate docili agli appelli della Chiesa, attenti alle necessità del popolo. Abbiate cura, in modo particolare, di ascoltare con grande disponibilità le nuove chiamate dello Spirito e a ricercare, insieme ai pastori della Chiesa dove operate, le urgenze spirituali e missionarie del momento.

Ricordate sempre che lo spirito di dialogo e di collaborazione fraterna deve sempre prevalere nel servizio di Cristo e della missione. Vincete ogni spirito di competizione o di antagonismo, date prova di carità fraterna e fate tutto perché i ministeri e i carismi di ciascuno possano concorrere a realizzare l’unità del Corpo di Cristo e a condividere la sua missione.

Concludo con un’indicazione che il Benedetto XVI ha fatto ai superiori e alle superiore generali: «Appartenere al Signore: ecco la missione degli uomini e delle donne che hanno scelto di seguire Cristo casto, povero e obbediente, affinché il mondo creda e sia salvato. Essere totalmente di Cristo in modo da diventare una permanente confessione di fede, una inequivocabile proclamazione della verità che rende liberi di fronte alla seduzione dei falsi idoli da cui il mondo è abbagliato».

 

1 Conferenza tenuta da sua em.za Franc Card. Rodé, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, al Simposio organizzato dalle Conferenze dei superiori maggiori della Slovacchia, a Nitra, il 14 ottobre 2006. Il testo integrale è stato pubblicato nel quaderno Sequela Christi, n. 2 (2006).