POSSIAMO DIRE DI ESSERE ANCORA RELIGIOSI?

TANTI “SE”… MA UNA la RISPOSTA

 

Gli interrogativi sono rivolti a fare scaturire un’idea di vita consacrata che parta dalla realtà e verità, vissute o non vissute concretamente dalle comunità nella quotidianità, e porti a un esame di coscienza che scruti le condizioni che effettivamente fanno essere la vita consacrata e i religiosi.

 

Notissima è la poesia If (“Se”) di Rudyard Kipling: è un messaggio rivolto al figlio, ritmato su alcuni “se…” che, realizzati e vissuti, portano alla conclusione: «Tua è la terra e quanto vi è in essa/ e – cosa ancora più importante – tu sarai un uomo, figlio mio». Le condizioni spaziano dall’acquisizione del controllo di sé, di una pazienza in grado di attendere con fiducia il cambiamento delle persone, di una forza interiore che frena e impedisce l’odio verso chi ha offeso, della capacità di ricominciare dopo le sconfitte o le crisi, di una volontà che non si arrende all’esistente ma guarda sempre al futuro.

L’attuale rinnovamento della vita consacrata – da tutti auspicato perché essenziale per precisare il senso della sua presenza oggi nella Chiesa e nella società e per fondare il perché della sua stessa sopravvivenza – richiede tutta una serie di condizioni (di “se” appunto) che la possano definire, rivitalizzare, rilanciare.

Vogliamo – umilmente – formulare alcuni di questi se: essi nascondono in realtà una serie di interrogativi di tono pratico e chiedono riscontri visibili, esistenziali. Quindi non aspettano una definizione del tipo: “Che cos’è la vita religiosa” una risposta “astratta” che ci troverebbe tutti d’accordo. Ma gli interrogativi sono rivolti a fare scaturire l’idea di vita consacrata per altre strade, che partono dalla realtà e verità vissute o non vissute concretamente dalle comunità nella quotidianità e che portano a un esame di coscienza che scruti con spietatezza le condizioni che effettivamente fanno essere la vita consacrata e i religiosi.

 

SE NON SI RIPARTE

DA CRISTO…

 

Se non si riparte da Cristo, vale a dire dalla sua Parola riscoperta nelle sue esigenze attualizzate e quindi da una vita che la vede ispiratrice dell’essere e dell’agire, al di là delle superficiali e comode affermazioni di principio della sua importanza fondamentale nella nostra esistenza;

se non si sente – personalmente e comunitariamente – la necessità di rimodellarsi su Cristo e di coltivare una tensione conformativa a lui, accontentandosi di una blanda e scontata dichiarazione – che non costa nulla e non coinvolge e sconvolge niente della propria vita – di adesione alla sua volontà;

se non si pensa mai – perché distratti o perché ci si considera già “perfetti” – a una conversione personale, che riveda pregiudizi, abitudini, mentalità, e comunitaria  che comprenda, tra l’altro, l’interrogarsi sulla natura e l’efficacia della propria missione;

se non si accetta la vita comunitaria e questa resa “visibile” (al di là delle parole e della permanenza in comunità) nelle sue concrete espressioni e manifestazioni: accettazione vissuta del progetto e della finalità, interesse per l’opera, condivisione dei compiti, corresponsabilità nella conduzione, servizio compartecipato, disponibilità attenta e quotidiana;

se non si comprende (perché la questione non interessa al proprio vivere) che la comunità partecipa del mistero di comunione che definisce la Chiesa stessa e che quindi la comunione (con tutte le sue conseguenze pratiche vitali) è il nucleo essenziale e il vincolo di coesione che fa della vita religiosa un’unità in Cristo;

se, coerentemente, non si prende coscienza che i carismi personali diversi sono doni per la comune missione da compiere insieme e che – invece – presi singolarmente la ostacolano, quando non la vanificano;

se le giornate sono programmate nell’individualismo apostolico: gli impegni sono presi a titolo personale, seguendo simpatie e “compensi”, non si mette mai in discussione quanto si è fatto e si ha intenzione di fare e non ci si domanda mai se si realizza la missione comunitaria decretata;

se nella vita della comunità si cerca – come già rilevava sant’Agostino – che cosa biasimare negli altri e non che cosa correggere (per primo in se stessi) in un fraterno colloquio;

se il dialogo consiste nell’affermazione: “pensate come me” (per carità non così esplicita a parole, ma nel comportamento rivelatore dell’insofferenza delle diversità) e perciò: la “comunità sono io” e gli altri sono “sudditi” o “valletti” da tenere allo scuro su molte cose;

se – di conseguenza – la tanto strombazzata comunicazione non è un passaggio all’interno di un sistema relazionale, ma (quando c’è) la condiscendente e benevola calata dall’alto di distillate informazioni;

 

SE SI DIMENTICA

CHE CI SONO LE NORME…

 

Se si dimentica che la vita consacrata ha ancora delle norme che occorre osservare e non da ignorare allegramente perché ci si professa “progressisti”, salvo poi, a una verifica, rivelare che non si sa bene che cosa questo oggi significhi, se non il fatto che lo si identifica con il coltivare i propri consolidati e non discutibili (dagli altri) interessi;

se si considera la casa come propria definitiva dimora, perché nel tempo ci si è costruito (dentro e soprattutto fuori) un confortevole nido e si ritiene l’invito a recarsi in un’altra comunità (con lo stesso ambito di apostolato) come qualcosa di “ab – norme”

se non si fa nulla per approfondire il carisma dell’istituto e si fanno – con tranquilla coscienza, mai coinvolti e assorti soltanto a guardare se stessi – restare lettera morta le deliberazioni dei vari capitoli;

se non ci si chiede mai come la nostra comunità non sia capace di attirare giovani e/o non è sul territorio una forte testimonianza visibile di una vita consacrata a Cristo;

se non stiamo attenti a non lasciarci imprigionare dalle strutture, contenti – in fondo – di non avere il fastidio di ripensarsi in nuove e creative strade che le trasformazioni del tempo richiedono;

se non cerchiamo il coraggio di pensare l’impensato, di andare al di là del tradizionale e del collaudato, contenti della ripetizione che però conduce indiscutibilmente e inevitabilmente alla vanificazione della realtà “vivente” della vita religiosa;

se – in sintesi conclusiva – le nostre parole di consacrati non dicono nulla di nuovo e sconvolgente alle persone che incontriamo perché – prima – la Parola non dice realmente niente di sconvolgente per noi stessi, accartocciati nell’abitudine e rassegnati a non essere quei comunicatori rivoluzionari di Cristo che la nostra cultura pure sappiamo che ci richiede: possiamo dire che vi è ancora la vita religiosa? Che siamo ancora religiosi?

È la conclusione dei tanti “se”. Quelli della poesia di Kipling portavano al possesso della terra e all’uomo vero. Questi portano alla verità della vita consacrata e dell’uomo e religioso. Forse abbiano smesso – ed è un problema serio – di farci delle domande. E forse è ben ritornare a farcele. Tante. Tutte.

 

Ennio Bianchi