PER CONVEGNO ECCLESIALE DI VERONA

CONTRIBUTO DEI MISSIONARI

 

Ai missionari piacerebbe vedere una più convinta mobilitazione della gerarchia cattolica al fianco dei poveri. In Italia i fatti locali sono ingigantiti mentre non si presta sufficiente attenzione a eventi globali, quali l’immensa moltitudine e la quotidiana sofferenza dei poveri.

 

Il convegno ecclesiale di Verona non poteva non interessare gli istituti missionari di origine italiana (CIMI)1 e hanno pubblicato alcune riflessioni puntuali e pertinenti che appariranno sulla rivista Ad Gentes. In una Chiesa che si propone di realizzare una importante “conversione pastorale alla missione” in vista della “nuova evangelizzazione”, ma che non trascura la missio ad gentes e anzi trova in essa «il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 32), i missionari italiani sentono la loro responsabilità di prendere parte a questo evento ecclesiale offrendo degli stimoli e delle proposte.

 

“CONVENIRE

ASCOLTANDO”

 

In realtà la prima lezione che essi ricevono dalle giovani chiese è che ogni programmazione ecclesiale, per essere veramente missionaria, deve partire dall’ascolto. Per questo la CIMI nel suo documento di riflessione afferma che un convegno ecclesiale, come quello di Verona, «ha bisogno di un lungo tempo di ascolto per discernere l’oggi di Dio nella storia e udire quello che lo Spirito dice alla Chiesa che è in Italia. Per essere un vero convenire della Chiesa è necessario che tutte le sue componenti abbiano voce e che le loro attese, le loro esigenze, i loro propositi e le loro speranze costituiscano la trama su cui il convegno si costruisce…».

Sarebbe davvero un peccato che il convegno si limitasse agli apporti degli esperti delle varie discipline teologiche e delle scienze umane senza dare voce alle istanze del popolo di Dio e alle attese del mondo in cui esso vive, perché non va dimenticato che lo Spirito si manifesta anzitutto nella voce dei piccoli e dei semplici. Per questo motivo i missionari si chiedono: «È stato ascoltato a sufficienza il popolo di Dio? È stata ascoltata la gente, anche quella che si ferma alle porte della chiesa? Sono stati interpellati gli altri? Non è necessaria l’unanimità che scende dall’alto, quanto la sinfonia di voci che la Parola illumina e raccoglie efficacemente in unità».

 

IL TEMA

«SPERANZA»

 

Il tema del convegno, la speranza, è un tema frequente e quasi congeniale agli istituti missionari. “Gesù Risorto, speranza del mondo” è il messaggio che i missionari annunciano fra le genti e che, finalmente, riverberano sulle chiese che li hanno inviati, perché essi sono testimoni della forza che la speranza cristiana suscita in coloro che si convertono al Vangelo per superare le difficoltà che incontrano in un mondo di miseria, sfruttamento, emarginazione, guerra, esilio e, spesso, anche di persecuzione.

È ammirevole la fiducia in Dio che i cristiani delle giovani chiese mantengono anche nelle circostanze più dolorose e che spesso trovano, benché non illuminata dalla fede nel Risorto, anche in tanti fedeli di altre religioni e, in genere, nel mondo dei poveri. Per i missionari è chiaro che «in queste situazioni la speranza non può essere annunciata solo nell’orizzonte escatologico. Il Regno futuro è dono che i cristiani attendono con gioia e riconoscenza. Ma c’è una loro precisa responsabilità nel riconoscere il germe del Regno già in questo mondo e nel partecipare al suo dinamismo lottando per la giustizia, per il rispetto dei diritti dell’uomo, per la dignità di ogni persona, per la difesa di ogni forma di vita e per la salvaguardia del creato, in unità di intenti con quanti tendono verso gli stessi obiettivi, insiti nella stessa natura umana e sostenuti anche dal messaggio di molte religioni». Ora a essi sembra di non trovare al cuore della predicazione della chiesa italiana, così come lo era nella predicazione di Gesù, questa stessa capacità di impegnarsi nella ricerca e nella scoperta del “Regno che viene”, che poi altro non è che l’azione del Cristo nella storia, non sia ancora.

Le comunità cristiane in Italia sono ammirevoli per l’impegno nel volontariato e per l’attività e la presenza della Caritas, ma essi hanno l’impressione che tutto questo si collochi prevalentemente sul versante dell’assistenza e non altrettanto su quello di una solidarietà anche politica con i poveri, i disoccupati, gli immigrati, le famiglie numerose, gli sfruttati. Ai missionari piacerebbe vedere una più convinta mobilitazione della gerarchia cattolica al fianco dei poveri. Non possono dimenticare alcuni “suscitatori di speranza”, talvolta martiri della speranza, come don Pino Puglisi, don Tonino Bello, Annalena Tonelli, don Andrea Santoro e sr. Leonella Sgorbati e tanti altri, ma essi ci sembrano rimanere piuttosto al margine della Chiesa “ufficiale” oppure solo tardivamente riconosciuti come suoi rappresentanti. E si chiedono perché la gerarchia ecclesiastica sia così reticente nei confronti di figure come don Oreste Benzi, Ernesto Olivero, don Luigi Ciotti, Francuccio Gesualdi e tanti altri suoi figli fedeli, che raccolgono gli aneliti della popolazione italiana.

 

L’ORIZZONTE

GLOBALE

 

Presenti in molte parti del mondo, gli istituti missionari sentono l’urgenza che ogni Chiesa locale si collochi in quell’orizzonte globale che è il segno più proprio del nuovo secolo. Anche se radicata nel suo territorio, ognuna di esse, mandata com’è “a tutte le genti”, dovrebbe avere negli occhi e nel cuore il mondo intero. I missionari italiani hanno l’impressione che in Italia la cultura, la politica e l’informazione siano assai provinciali. I fatti locali vengono ingigantiti mentre non si presta sufficiente attenzione a eventi globali, quali l’immensa moltitudine e la quotidiana sofferenza dei poveri, la fame, le guerre, le schiavitù, il progressivo degrado del pianeta, gli ingiusti rapporti nord-sud, lo sfruttamento dei lavoratori locali ed extracomunitari, il livellamento e l’omologazione progressiva delle culture, ecc. Solo quando dei cittadini italiani ne sono coinvolti o certi eventi vengono a toccare le abitudini e il benessere locale e nazionale, come nel caso dell’immigrazione o delle risorse energetiche (petrolio, gas, ecc.), si prende coscienza di ciò che avviene. Purtroppo questo particolarismo tocca anche la Chiesa italiana, la cui nota di cattolicità sembra essere più un riferimento alla tradizione che non un’assunzione del mandato che il Risorto le ha pur dato per tutte le genti. «Gli istituti missionari sentono la loro responsabilità in questo campo, ma per quanto si sforzino, con la stampa e altri media (FeSMI, EMI, MISNA), di aprire gli orizzonti, i loro sforzi non risultano abbastanza efficaci; soprattutto non trovano ascolto proprio in quel mondo “cattolico”, delle parrocchie e delle associazioni che più dovrebbe essere pervaso dall’ansia della universalità». Essi auspicano di poter collaborare alla crescita di quello spirito di mondialità che da più di 50 anni gli istituti missionari coltivano in Italia e che può essere un provvidenziale antidoto alla “globalizzazione dell’esclusione” che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non hanno mancato di condannare.

 

IL GRIDO

DEI POVERI

 

La prima conseguenza di una visione globale a partire dal locale è la presa di coscienza della crescente povertà nel mondo, con 3 miliardi di poveri su 6 miliardi di abitanti del pianeta e con 1 miliardo e 200 milioni di poveri assoluti o schiavi della sopravvivenza, secondo gli ultimi dati ONU. La vicinanza ai poveri è un dovere per la Chiesa, perché solo a partire da essi si ha la percezione autentica del Vangelo.

Ai missionari sembra che il rischio che la chiesa italiana sta correndo sia duplice: lasciare i poveri del suo territorio “fuori dalla porta”, perché composta in prevalenza da una classe media volenterosa, ma permeata di consumismo e preoccupata del suo fragile benessere; e dimenticare, salvo occasionali collette, i tre miliardi di poveri nel mondo. Così i missionari constatano che «al grido di tanti bisognosi sul territorio nazionale e nel sud del mondo si risponde con gesti di una generosità che acquieta le coscienze, ma con poca attenzione al dovere di giustizia. Pare inoltre che negli ultimi documenti dell’episcopato italiano la parola “giustizia” risuoni con minore forza». Non dovrà anche la chiesa italiana far passare la missione e la nuova evangelizzazione attraverso la scelta preferenziale dei poveri chiamandoli a essere soggetti attivi nelle scelte pastorali della Chiesa, come in quelle della società? Non succederà che la società civile sia più attenta della chiesa italiana?

 

MISSIONARI

DI RITORNO

 

La maggior parte dei membri degli istituti missionari che si trovano attualmente in Italia è reduce dalle missioni. Il loro rientro è spesso traumatico, perché «partiti per portare la fede della loro terra ad altre terre, trovano che nel paese cristiano da cui sono partiti c’è meno fede, meno speranza e meno amore che nei paesi da cui rientrano. Si trovano immersi in una cultura del consumismo che troppo contrasta con le visioni di miseria e di sofferenza che hanno negli occhi». Rientrando non trovano l’intensità delle relazioni umane, i ritmi del tempo, l’ospitalità cui sono abituati, mentre non riscontrano che una reazione superficiale, momentanea e prevalentemente emotiva, ai gravi problemi che hanno lasciato sul campo del lavoro. In questa situazione diventa difficile per loro riprendere i contatti con la realtà italiana che quasi non sembra apprezzare la loro esperienza missionaria. Essi vorrebbero far conoscere un’altra maniera di celebrare la liturgia, la funzione e la vitalità delle piccole comunità cristiane di base, la ricchezza dei carismi e dei ministeri, l’impegno a fianco dei poveri, le lotte per la giustizia e per i diritti umani, la fatica e bellezza dell’inculturazione, del catecumenato, il coraggio dei martiri, ma non trovano eco, come se quella non fosse vita della stessa Chiesa e patrimonio comune. «Qui è tutto diverso, si sentono dire, tutto questo non serve»

 

UN NUOVO

MODELLO DI CHIESA

 

I missionari di ritorno raccontano un nuovo modello di Chiesa, che certo non può essere trasportato di peso in una Chiesa come quella italiana che ha un antico patrimonio di tradizione, di teologia, di pratica pastorale, ma che può offrire utili stimoli per la tanto conclamata conversione missionaria della pastorale, per la sua fattibilità e per il suo orientamento.

1. Le giovani chiese testimoniano che il Cristo, crocifisso e risorto, può essere proclamato agli altri come principio di speranza, vivono in se stesse la gioia di quanti lo incontrano per la prima volta e trovano in lui il volto del Padre e la possibilità di una vita nuova, diversa, più umana.

2. Le giovani chiese offrono la prova che la ricchezza dei carismi e dei ministeri ordinati e non ordinati rende sacerdoti, religiosi e laici più corresponsabili della vita e della missione della Chiesa; catechisti, animatori delle piccole comunità cristiane, responsabili della carità e guide della preghiera sono possibili sviluppi di una Chiesa meno clericale. Le chiese dell’estremo oriente enumerano nei loro documenti ben 70 ministeri riconosciuti!

3. Le giovani chiese testimoniano la bellezza e la vitalità delle “comunità ecclesiali di base” (America Latina) o delle “piccole comunità cristiane” (Africa e Asia), dove il Vangelo si coniuga con la vita facendo fare autentica esperienza di Chiesa come comunione e partecipazione nella fraternità, condivisione, collaborazione e corresponsabilità. Pur fragili, piccole e disperse, queste comunità rendono più solida e vissuta la fede di quanti ne fanno parte e proclamano concretamente il Vangelo del Signore risorto.

4. Le giovani comunità cristiane vivono il distacco dal potere e dalle sicurezze mondane, non hanno privilegi da difendere, né ricchezza da mantenere. Non intrattengono (per fortuna spesso non è possibile!) alcun compromesso antievangelico con i potenti del mondo. Sono chiese povere e inermi, spesso perseguitate, che ripongono la loro unica fiducia nella forza della Parola e dello Spirito e conservano così quella libertà profetica che diventa, quando necessario, denuncia della corruzione e dello sfruttamento dei deboli. Per questo acquistano autorevolezza e credibilità fra la gente e sono chiamate anche, in qualche caso, a svolgere un’opera di pacificazione e/o di mediazione politica.

5. Le giovani chiese sono spontaneamente vicine ai poveri e ai sofferenti, che spesso, come avveniva nella prima Chiesa, sono la maggioranza dei fedeli, sono chiese “tra la gente” in grado di condividerne la povertà, i disagi, le debolezze.

6. In esse è normale promuovere l’inculturazione della fede, ripensare cioè il messaggio evangelico per incarnarlo nella vita e nella cultura di un popolo o di un gruppo umano e altrettanto normale è far esperienza viva del catecumenato e del dialogo ecumenico e interreligioso come cammini normali della vita ecclesiale che obbligano la comunità a definire la propria identità sulla base originaria della parola di Dio e non di tradizioni umane.

Non sarebbe proficuo per unaChiesa, come quella che è in Italia, che vuol passare da una pastorale di conservazione a una di missione avere un confronto con queste “dinamiche” delle giovani chiese? Lo scopo non potrà mai essere quello di copiare modelli estranei, e pur sempre da migliorare (ecclesia semper reformanda!), ma di attingere alla freschezza del Vangelo vissuto nelle giovani chiese quella speranza che fa della novità un cammino dello Spirito.

 

In conclusione i missionari presenti in Italia si propongono di vivere in comunione con la chiesa italiana «tutte la difficoltà del momento presente». In particolare le difficoltà che il popolo italiano sperimenta in quest’ora «di grande crisi (sociale, politica, istituzionale), che è passaggio (pasquale!) ad un nuovo modo di vivere la sua appartenenza all’Europa e al mondo, a una società non più monolitica, ma multietnica, multiculturale, multireligiosa, nel quadro di una globalizzazione che resta purtroppo inquinata da presupposti ideologici di individualismo, agnosticismo, relativismo e liberismo». Nello stesso tempo intendono prendere parte alle difficoltà della Chiesa in Italia che oggi deve «conservare la ricchezza della tradizione religiosa del popolo italiano in un quadro completamente mutato. “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” è per questa Chiesa un compito inedito. La missione in Italia (e anche in Europa e in tutto il mondo post-cristiano) è tutta da inventare. «Esperti di missione» fra i popoli non cristiani, i missionari non sono né modelli, né maestri. Possono solo mettere a disposizione la radicalità del loro impegno per il Vangelo e quello che apprendono sulle strade del mondo». Lo vorrebbero fare in tutta umiltà come figli di quella chiesa di Dio che è chiamata a essere testimone del Cristo Risorto in Italia, in Europa e fino ai confini della terra.

 

 

1Conferenza degli istituti missionari italiani (CIMI), Un contributo degli istituti missionari al IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona. Il documento è stato sintetizzato a cura della redazione di Testimoni.